I due errori di Marx

Il primo errore di Marx è il fatto che sia stato insufficientemente dialettico. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei proprio compagni, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?

Sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per scopi liberali. Abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità verso l’Unione Sovietica diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato di lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre di più.

Il secondo errore di Marx è il peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli. Questo è il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo sistema teoretico. Lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Come ha potuto Marx illudersi così? La ragione del suo errore è un po’ sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito, egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.

Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista

Yanis Varoufakis, Confessioni di un marxista irregolare, Asterios, Trieste 2015, pp. 30-35. [citazione non consecutiva].

Un “marxista errante”, come si autodefinisce l’ex ministro delle finanze greco e, chissà, prossimo leader del partito più a sinistra d’Europa. Professore economista awesomissimo che si veste di soli giubbotti di pelle di pastore tedesco, anche d’estate. La sua moto è alimentata con diesel radicale, rigorosamente estratto dalle raffinerie del Capitale.

In questo testo, come in quel bellissimo libro divulgativo che è È l’economia che cambia il mondo, Varoufakis fa un discorso essenziale, che tutti gli studiosi sanno ma di cui poca opinione pubblica è consapevole: le crisi dell’economia non sono propriamente crisi, ma oscillazioni di un sistema che quanto più si avvicina al suo scopo (portare a zero il costo del lavoro attraverso le macchine), tanto più autodistrugge sé stesso.

Un lavoro completamente automatizzato, sogno tanto del padrone-speculatore quanto del lavoratore emancipato, elimina il “surplus” – come il Varoufakis-divulgatore chiama il plusvalore (e “valore d’esperienza” il valore d’uso) -, elimina il guadagno su profitto. È il lavoro automatizzato senza persone, dove non si suda più per vivere: sogno perduto di Adamo ed Eva e incubo di chiunque ha bisogno di fare profitto. E questa tautologica osservazione, tanto ovvia quanto non vista, non la sostiene Yanis, non l’ha teorizzata Lukács, non la diceva Berlinguer, ma l’ha scoperta Marx.

Per questo l’economista tedesco è ancora così fresco, oggi, come strumento di lettura del presente. Perché mostra ogni volta la contraddizione che non vogliamo accettare, quella del processo di produzione: quanto più ci si avvicina alla fine della Storia, tanto più ci si ritrae spaventati di fronte alla fine degli standard di profitto e distribuzione della ricchezza necessari per mantenere un’egemonia.

Loro sono il mondo

Ad Antalya, in Turchia, al vertice Nato, ministri e funzionari chiudono la riunione (o si concedono una pausa) cantando We are the world di Michael Jackson. Pare che l’iniziativa sia di una band (mi piacerebbe davvero sapere da dove sia arrivata l’idea). C’erano tra gli altri il ministro turco degli Esteri Mevlut Cavusoglu, l’Alta rappresentante degli Esteri per l’Europa Federica Mogherini, il segretario Nato Jens Stoltenberg.

All’inizio resti sorpreso. Poi ci pensi, e ti rendi conto che non c’è niente di strano.

Nel 1985 Michael Jackson, un uomo distrutto dal narcisismo e dal colonialismo culturale, riunisce ventidue popstar dell’epoca per cantare una canzone dedicata alla pace nel mondo. Ma non parlano dell’imperialismo, della guerra, della radicale ingiustizia del sistema economico mondiale, dell’enorme potere del mercato finanziario. No, parlano di loro, come un narciso che non riesce a uscire dal proprio loop quando si tratta di parlare di qualcosa di diverso che non sia lui. Come il migrante che o ruba o poveretto è affogato: si tratta sempre di me, della mia incolumità fisica e dei miei sentimenti, anche quando sto parlando di te. Chi sono questi loro? Il mondo occidentale, che ha esagerato un po’ con la prepotenza, so let’s start given.

Come lo Zio Tom, come lo Stephen di Samuel L. Jackson in Django Unchained, il re del pop – morto di infarto nel 2009 a cinquant’anni per un’iniezione letale di anestetico per cavalli – agisce come una rimozione, un’autocensura. Mette insieme Cyndi Lauper, Lionel Richie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, per dire al mondo occidentale che “c’è gente che muore”, per cui “è arrivato il momento di dare una mano per la vita”. Niente di emancipante, rivoluzionario. I deboli non vanno sollevati dalla loro condizione (non sia mai) ma il massimo che si può fare è essergli solidali, come quando fai l’elemosina: non è in gioco la condizione di chi aiuti ma la tua propria condizione, la tua coscienza. Non si esce mai da sé stessi perché altrimenti si rischia di minacciare il proprio, che è tutto ciò che conta.

Pro loco del Comune di Napoli a favore della legalità. 2014.

Pro loco del Comune di Napoli a favore della legalità. 2014.

E cosa hanno fatto ieri i vertici della Nato, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, la rappresentanza militare degli stati vincitori della seconda guerra mondiale? Cosa può cantare se non un noi siamo il mondo. Non sta usando una canzone di pace in modo perverso, ma è la perversione di una canzone che finalmente si libera e diventa esplicita, rivelandosi per quella che è.

Il video della Nato ci mostra la nostra modernità, o postmodernità. Un mondo dal pensiero unico – we are the ones (ones, i propri, i soli, quelli che hanno vinto) who make a brighter day – nel quale si possono finalmente dire le cose come stanno, senza filtri, senza censure.

È vero, siete voi il mondo, bisogna ammetterlo. Oggi più di ieri. Siete rimasti solo voi e il vostro mondo. E potete cantarlo liberamente, senza più neanche uno Zio Tom che vi aiuti.

They are the world. They had always been.

Grazie a Paolo Mossetti per avermi mostrato il video

La privacy come istinto di morte

Thomas Hobbes

Thomas Hobbes, che ha inventato la privacy ma non la NSA

E quindi ci si chiede com’è possibile che nessuno si sia accorto che si volesse suicidare. Un po’ come chiedersi se quello ha fame. Che ne so, chiediglielo. Un po’ come se uno psicologo affermasse che i suicidi mettono i cartelloni prima di farlo.

Da adolescente persi un amico. Morì da solo, senza scarpe, sotto un treno, e ci sorprese tutti. Certo non si portò con sé nessun’altro, il delirio non ha avuto quel qualcosa in più che porta con sé un suicidio-strage come quello di Andreas Lubitz. Ma la domanda resta la stessa: perché nessuno se n’è accorto.

È molto probabile che uno dei passeggeri sull’autobus dove viaggiate abbia pensato almeno una volta di farla finita, magari l’autista. Se tracciate un raggio di un centinaio di metri in un quartiere affollato state sicuri che al proprio interno ci sarà tutta la fauna della psichiatria. Gente con la quale magari scambiate due battute al bar la mattina.

Perché nessuno se n’è accorto? La domanda rivela il segno dei nostri tempi. È una domanda-lapsus che ne nasconde un’altra più sincera: perché non possiamo non sapere chi sono tutti così da mantenere alla larga gli psicotici? Sapere tutto di tutti, cosa fanno, dove vanno, ma soprattutto cosa potrebbero fare a noi. Ecco un delirio molto più grande di quello di Lubitz.

È un terreno scivoloso nel quale coagulano le impellenze di questi tempi, in cui una medaglia mostra da un lato la necessità di nascondere la propria identità per tutelarla, dall’altro la necessità di mantenerla esposta proprio per tutelarla. Un’ambivalenza costitutiva del concetto stesso di privacy, un termine di qualche secolo, nuovissimo se paragonato a una storia della società vecchia di qualche millennio che della “privacy” se n’è sempre fregata.

Nella società dei metadati di oggi c’è l’esito estremo di quello che nel XVII secolo era posto ai suoi antipodi, come quella necessità di tutelare l’individuo dallo strapotere dello Stato che lascia vivere e fa morire. Oggi si dice che lo Stato, o forse proprio l’assenza di esso, non lascia più vivere e far morire ma lascia morire e fa vivere, ma non è in fondo la stessa cosa? L’esercizio struttural-retorico di questa quadriga foucaultiana (lasciare/fare-vivere/morire) mi ha sempre confuso, perché nella mia testa me la sono sempre raffigurata come una giustapposizione, quando il movimento è dialettico. Lo strapotere sull’individuo non è in contraddizione con la necessità di tutelarlo: l’uno è il rigurgito dell’altro perché se devo difendere l’individuo dal pubblico (di individui) devo sapere tutto di lui. Invaderlo per tutelarlo, distruggerlo per conservarlo.

Privacy è un confine autoincludente tracciato dall’individuo stesso, un’auto-immunizzazione dall’esterno che come un abuso di antibiotici ti rende immunodeficiente. Il confine, essendo artificiale, deve essere ridefinito costantemente, altrimenti svanirebbe.

Ma la vita, al cui interno risiede l’individuo, è proprio ciò che maltratta i confini. Come disse magnificamente Hans Jonas, vita è quell’oggetto in cui il rapporto tra interno ed esterno è indeterminato, che lascia uscire ed entrare qualcosa, tutto il contrario di quello che si vuole sia la polizia di frontiera, a cui qualcosa, ineluttabilmente, sfuggirà sempre. Defecare, godere, mangiare, respirare fanno la differenza tra una pietra e un organismo, e sono tutte azioni che implicano un’indistinzione tra interno ed esterno. L’assenza di uno solo di questi atti rende impossibile la vita stessa (se non si fa sesso ci si masturba). Nella vita c’è la messa in discussione di quella traccia che segna il confine tra ciò che è io e non-io. Individuo – inteso come quella cosa di cui possiamo conoscerne scientificamente l’oggetto – e vita si escludono a vicenda. La vita è ciò che trasforma il confine tra interno ed esterno in un’area, un campo magnetico.

Perciò un mondo “più sicuro”, come ormai si filastrocca dall’11 settembre del 2001, un mondo in cui possiamo sapere tempestivamente se quel pilota sta per fare una strage, se quell’emarginato è un terrorista, è un delirio di onnipotenza, un’enorme presa per il culo. Se la vita è proprio questa esposizione alle intemperie del mondo, sforzarsi di “tutelarla”, con la catalogazione delle vite di tutti, è frutto o dell’ignoranza o di un secondo fine (e la banalità del male ci insegna che l’atto malvagio non avviene nell’ignoranza né nella consapevolezza, perché il piano in cui si muove la moralità non è quello gnoseologico).

“Sicurezza” in politica è la volontà di esercitare un potere, il cui modo è quello dell’egemonia e il cui strumento è il controllo, il catalogo: delle cose, delle persone. In questa folle volontà di archivio rientra anche la vita, catalogata nel “diritto all’umanità”, un diritto magnifico e terribile che inventa umanità, rendendo a tal punto artificiale la natura dell’essere vivente da poter legiferare anche sul suo destino.

Per cui se la vita è ciò che determina l’impossibilità di stabilire confini, la privacy, con la sua ossessione di mantenere confini certi, di sapere in anticipo come un precog o un mentat cosa farà Andreas Lubitz, non è che un istinto di morte.

Edward Snowden, umanista illuminista

Edward Snowden e Glenn Greenwald

Edward Snowden e Glenn Greenwald

Ricordo com’era internet prima che fosse sotto osservazione. Non è mai esistita nella storia dell’uomo qualcosa del genere. Potevi avere discussioni alla pari con ragazzini dall’altra parte del mondo, in cui si sapeva che gli era garantito lo stesso rispetto per le loro idee e conversazioni. Specialisti dall’altra parte del mondo, su qualunque argomento, ovunque, in qualunque momento, tutte le volte. Era libero e senza limiti.

Ne abbiamo visto l’effetto spaventoso, il suo raffreddamento e il cambiamento di quel modello verso qualcosa in cui le persone autocontrollano i propri punti di vista, e letteralmente fanno le proprie battute sul finire su una lista nera se si donassero a una causa politica, se dicessero qualcosa in una discussione. È diventato naturale sentirsi osservati.

Molte persone con cui ho parlato mi dicono di come fanno attenzione a cosa scrivono nei motori di ricerca, perché sanno che viene archiviato, e questo limita i confini della loro esplorazione intellettuale.

Sono maggiormente disposto a rischiare l’imprigionamento o qualunque altro esito negativo personale, di quanto sia disposto a rischiare la riduzione della mia libertà intellettuale, e quella di quelli intorno a me, per i quali tengo egualmente come tengo per me stesso. Non significa che mi stia autosacrificando, perché tutto ciò mi restituisce qualcosa, mi fa sentire bene nella mia esperienza umana sapere che posso contribuire al bene degli altri

Edward Snowden risponde alla prima domanda di Glenn Greenwald: se il tuo interesse è di vivere in un mondo in cui ci sia massima privacy, fare qualcosa che potrebbe farti finire in prigione, in cui la tua privacy viene completamente distrutta è un po’ in antitesi con tutto ciò. Come sei arrivato al punto in cui hai pensato che ne valesse la pena? in Citizenfour.

Citizenfour di Laura Poitras è un documento straordinario che testimonia la ragion d’essere del giornalismo: cane da guardia che non determina democrazia ma vi partecipa e basta. Il presupposto del giornalismo è la democrazia, non il contrario: bisogna già vivere in un paese libero per aprirsi un giornale, non il contrario. È una differenza sottile, utile per comprendere il ruolo del quarto potere, senza confonderlo con i mass-media, di cui il giornalismo è una parte dell’insieme. Altrimenti crederemmo che basti un’inchiesta per cambiare le cose, quando queste cambiano con l’azione politica, che col giornalismo c’entra come la specie col genere.

Non basta scoprire i metadati per far sparire i cattivi. Lo scoop del secolo del Guardian ci ha fatto soltanto scoprire che attualmente i buoni non governano, e forse mai lo faranno. Questo è il giornalismo: toglie il velo, rende il re nudo, ma il re può governare come gli pare finché ci riesce. Il potere non ha pudore. Giornalismo è in-formare: mettere in forma quello che si sa per farlo sapere anche agli altri. Non mette in pratica la libertà di espressione, generica definizione che ti porta a insultare Maometto come a dire che la terra è ferma, ma dà immediatamente, nel momento in cui si legge una notizia, la libertà di pensare.

La libertà di espressione è poca cosa, una banale libertà di dire cose tanto sensate quanto insensate, di insultare quanto di giudicare. La libertà dell’uomo non è questo vociare indistinto, questa è la libertà di ululare dell’animale, che pure appartiene all’uomo, ma non è tutto ciò che fa di un uomo un uomo. La libertà di espressione appartiene anche al cane, ma io coi cani non ci discuto. La libertà umana è invece un passo in più oltre questa condizione, una scelta di azione, di messa in pratica, che ognuno prende su di sé: la libertà di ragionare e fare, di non dire cazzate. Tremendamente difficile. Come afferma Snowden, è la libertà intellettuale. Non siamo tutti uguali, davvero c’è una sostanziale differenza tra gli uomini, una darwinistica varietà di specie, ma tutti abbiamo lo stesso cervello, la stessa intelligenza, di cui ne siamo responsabili, di cui dobbiamo esserne degni. Una sostanziale varietà dei corpi di fronte a un’assoluta identità di cervelli. E questo scompagina un po’ il naturale ordine darwinistico delle cose.

L’eguaglianza delle intelligenze è il legame comune del genere umano, la condizione necessaria e sufficiente affinché una società d’uomini possa esistere

Jacques Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis.

Ecco il passo in più da fare: bisogna rinunciare alla tolleranza verso chi non usa la ragione, verso chi non ha il coraggio di conoscere. Il che non significa fare fuori chi è stupido, soltanto insegnargli a ragionare.

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Evelyn Beatrice Hall (non Voltaire)

Che cosa terribile e ipocrita da dire: non ti sopporto, ma la perbenista società dei costumi mi costringe a sorriderti. Non vi dà questa idea? Mi sembra di dover difendere il diritto di una persona a restare un fesso. Io difenderò il diritto di quella persona ad usare meglio il suo cervello o a studiare le cose che non sa, ma mai difenderò il suo diritto a vociare cazzate se so che quello che dice è frutto di mancata riflessione, di ignoranza. Poi se stiamo discutendo dei sistemi pensionistici, del finanziamento a un’opera, insomma di pratiche democratiche di discussione politica, possiamo non essere d’accordo perché non sappiamo gli effetti delle nostre decisioni, ma anche in questo caso strapparsi i capelli e chiamare in causa la propria vita affinché l’altro mi dica la sua in ogni caso mi sembra un po’ esagerato, perché tanto a passare sarà una delle due posizioni, mica la somma magica delle due. Lo spirito di tolleranza a oltranza non mette al centro quello che dello spirito dell’illuminismo fa luce: la ragione. Il diritto per Sheikh Bandar al-Khaibari di affermare che lui in Cina in aereo non ci arriva se la terra gira è il suo dovere di ritornare a scuola, ma questa volta aprendo i manuali di storia della scienza e i saggi dei filosofi, piuttosto che limitarsi a studiare un solo libro religioso. Io la libertà di dire che la terra è ferma a quello non gliela do, in nome di una libertà di capire perché non è vero che la terra è ferma.

Sapere aude! Siamo tutti uguali in quanto esseri umani dotati di ragione, il che è una definizione universale e insieme particolare, qualcosa di più di quella massima universale e inconsistente della libertà di espressione. Libertà di espressione è foglia di fico per colonialisti, libertà intellettuale è impegno morale ad essere giusti, perché abbiamo un cervello che ci fa capire il mondo. Se avessimo soltanto il diritto di esprimerci, potremmo ridurre il tutto alla libertà di ululare feeds su facebook. Invece, se avessimo anche il diritto di usare il cervello sarebbe molto più difficile controllare una massa di acculturati (magari pure culturisti che ti fanno un culo così).

Dalla riflessione profondamente umana di un ex militare, che per ragioni che forse non sapremo mai decide di rinunciare alla famiglia e alla donna che ama, emergono due cose.

1. Una potenza intellettuale formidabile, degna del miglior illuminista. Sì, è vero, il potere del controllo dei corpi e delle identità che determina l’archiviazione e l’analisi dei metadati rende dispotiche e paranoiche le relazioni sociali, lo sanno tutti quelli che usano i social network. Ma Snowden osserva acutamente che ciò che fa la differenza tra l’Internet ingenuo e libero degli anni ’90 da quello capitalista del XXI secolo non è il semplice controllo, ma la limitazione della libertà intellettuale. Come se Snowden ci stesse dicendo che Internet oggi è diventato un regime formale, una sala da thé castrata che non lascia libera energia al pensiero, o meglio, come dice Snowden, all’«esplorazione intellettuale». Snowden dice le stesse cose che affermava più di due secoli fa Kant quando polemizzava con Jacobi.

In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione

Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi.

2. Una potenza umanistica formidabile, una cognizione della natura umana degna del miglior rinascimentale di corte. Nella risposta a Greenwald, Snowden è molto più sincero di quanto sembri. Non ha sacrificato la sua vita, in realtà non ha sacrificato proprio nulla. Il suo non è propriamente un sacrificio, perché nel sacrificare la sua di libertà ottiene qualcosa di più grande, «sapere che posso contribuire al bene degli altri». Il che sembra pura retorica buonista, ma ascoltiamo (per chi ha il video) o rileggiamo quello che dice: «mi fa sentire bene [I feel good] nella mia esperienza umana sapere che posso contribuire al bene degli altri». Ciò che guida Snowden è un egoismo di specie: sa che una volta toltosi questo peso, quello di far sapere a tutti cose che pochi sanno, si sentirà degno di essere un uomo. Tutto ciò lo fa sentire bene, non male. Dovreste sentire come dice I feel good, guardatevi Citizenfour e ditemi se non sembra James Brown. I feel good, as a mankind.

Snowden è cresciuto a Fort Maude, in Pennsylvania. È sempre stato un militare. Sentirlo parlare è vedere un militare che pensa. Probabilmente ciò che lo ha spinto a parlare è la frustrazione che genera questo mondo in cui è cresciuto, dove “sai già cosa succederà domani”, dove i rapporti sono gerarchici e il controllo è la prima forma di sicurezza delle persone e le cose. «È una sensazione inusuale che è piuttosto difficile da spiegare, da descrivere o comunicare con le parole» spiega il ragazzo chiuso da settimane in una stanza di albergo di Hong Kong, riflettendo sul suo stato d’animo a due giorni dall’uscita dei primi due articoli sul Guardian e il Washington Post.

Non sapere cosa stia per succedere nei prossimi giorni, nelle prossime ore, la prossima settimana, fa paura ma allo stesso tempo è liberatorio.

È un militare che ragiona e che scopre un mondo che non è una caserma:

La pianificazione riesce molto più facile perché non hai tutte quelle variabili da tenere nel piatto, puoi solo agire, e poi agire di nuovo

Magari lo ha fatto per vanità, un magico momento in cui l’egoismo narciso è indistinguibile da un puro gesto di altruismo. E questo, lasciatemelo dire, è proprio dell’uomo. Sublime.

Trent’anni

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Zerocalcare e Valerio Mastandrea.

Il mio analista dice che la fine della mia adolescenza sta iniziando adesso. «La vostra generazione diventa adulta a trent’anni, è tutto spostato di dieci anni».

Michele Rech, alias Zero Calcare, ha confermato lo stesso concetto poco fa da Fazio a Che tempo che fa. «Dai quattordici fino ai trent’anni ho fatto più o meno sempre la stessa vita», per poi correggersi in un «dai diciotto in poi, dopo la scuola». Lapsus rivelatore: l’università, la scuola che dovrebbe insegnarti a vivere da adulto, è più o meno una scuola superiore solo più seria.

Ho un’insofferenza personale verso il personaggio alter-ego di Michele Zero Rech Calcare. Quella sua ironia da studente fuorisede, quella maschera da maschio infantile-passivo aò fozza roma te parlo de temi seri tipo la guera l’amore la crescita ma numme chiede nniente so popolare mio malgrado nun so fa nniente solo disegnà. Tutta sta falsa modestia. Stizza, come stizza lo studente fuorisede che dà addosso al prof mortacci sua c’ho l’ultimo treno per Caserta alle 12.

Non riesco proprio ad accettare la cosa. «Non siamo tutti studenti fuorisede!» mi dico davanti a una striscia di Michele Rech. Non c’è niente di divertente in un irresponsabile, disilluso, spassionato emo con la barba.

Già. Un’insofferenza a pelle. Generazionale.

Papa Bergoglio e la perversione strutturale della cristianità

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Una scena di “Passion”, di Mel Gibson

Caterina Benincasa (1347-1380), conosciuta come Caterina da Siena (fatta santa da Pio II nel 1461 e dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970), beveva il pus delle piaghe infette dei lebbrosi per punire il sentimento di ribrezzo provato alla vista dei moribondi. «Non aveva mai gustato cibo o bevanda tanto dolce e squisita» si legge nelle sue lettere. Caterina era una mistica, e come tutti i mistici aveva un particolare rapporto con il proprio corpo, ovvero quello di esasperare una corporeità che appartiene al cristianesimo stesso.

Cristo è stato crocifisso tra sofferenze atroci, con la carne della schiena strappata a frustate e diversi chiodi impiantati tra gli arti. È la passione, una narrazione in cui si struttura un certo rapporto con il corpo. La stessa passione laica della letteratura moderna, quella che “divora e consuma”, con la differenza che mentre quest’ultima piange romanticamente l’autodistruzione dell’oggetto (l’amore, l’amato) che appassiona, il cristiano esulta per lo scopo ultimo di questo rogo del corpo.

L’inizio della cristianità è questo rapporto con il corpo, questo disprezzo e insieme questa morbosa curiosità di esplorarlo, fisicamente, bevendone il pus o martoriandolo. «Così prego io il dolce nostro Salvatore, che egli ci guidi a sbranare e a macellare, li corpi nostri» (C. da Siena, Le Lettere, Einaudi, Firenze 1939, p. 895).

Generalmente l’idea che si ha della cristianità è quella di un’anima ingabbiata in un corpo, in attesa di una morte che la renda libera di salire in cielo. La cristianità concepirebbe un corpo passivo, un corpo-involucro, immobile, quando invece questo corpo ha una parte massimamente attiva nell’ottenimento della salvezza. C’è piuttosto una dialettica tra il corpo e lo spirito: l’umiliazione del primo serve alla salvezza del secondo. Nella cristianità il corpo è sì uno scarto, ma non lo è di suo, lo deve diventare attraverso la partecipazione attiva di chi lo abita: se non lo si umilia frenandone gli appetiti, si resta peccatori. La carne va pertanto martoriata e disprezzata, pur restando, come dice Caterina, una «navicella» per l’anima.

Bernardino Corio

Bernardino de Conti

Una bellissima xilografia rinascimentale di Bernardino de Conti raffigura lo storico Bernardino Corio, autore della Patria Historia. Sotto, il motto È bello doppo il morire vivere anchora. Per chi ha fatto il classico sa di cosa sto parlando, sta sulla copertina del dizionario di latino Castiglioni-Marotti IL, quel tizio che ingoia una clessidra. Il tempo è stato ingoiato dalla resurrezione di Cristo. Con la cristianità ciò che conta è il tuo posto in paradiso dopo la morte, con la terra luogo in cui espiare le colpe di Adamo e testare la propria salvezza.

Ridurre la cristianità a un disprezzo del corpo è un errore. Abbiamo detto che c’è un disprezzo e insieme una curiosità morbosa per la carne. C’è quindi piuttosto una perversione della corporeità, un’ambivalenza costitutiva fatta di attrazione e repulsione, come quando non resistiamo a odorarci il dito dopo esserci grattati le parti basse: fa schifo, ma è il nostro odore, dolciastro, attraente. La Chiesa è l’istituzionalizzazione di un certo desiderio, di un certo modo di vivere, di una perversione che non è stata inventata dal cristianesimo ma soltanto raccolta: non è il cristianesimo che ci rende perversi ma è una certa perversione (ripeto, attrazione e insieme repulsione, perversione come il gioco in cui si articola questa soglia indistinta tra piacere e dispiacere) della natura umana ad appartenere di conseguenza anche al sentimento cristiano. Perciò lasciate perdere l’ira verso la Chiesa quando colleziona scandali, perdereste solo tempo. C’è qualcosa di molto più profondo di una religione inquietante, piuttosto un’inquietudine che si è fatta religione.

santa caterina da sienaNon riesco a trovare dove ho letto una breve riflessione di Giorgio Agamben sulla perversione costituiva della cristianità (forse in Mysterium iniquitatis, il discorso fatto il 13 novembre 2012 all’Università di Friburgo in occasione della laura honoris causa in teologia, poi edito da Laterza in Il mistero del male). In ogni caso, andando a memoria, il filosofo italiano sostiene che la difficoltà della Chiesa di affrontare una volta per tutte, apertamente, la pedofilia dei suoi preti è in realtà una falsa difficoltà. Non c’è alcun imbarazzo o difficoltà per la Chiesa. Questo perché è lo stesso celibato, spiega Agamben, a mettere il corpo davanti a una sfida impossibile da superare (l’astinenza sessuale), ed è quindi logico che ogni tanto, in qualche posto del mondo, un bambino debole e indifeso venga molestato da un prete. Per sua natura, un corpo non è fatto per l’ascetismo, e nonostante ciò riesce lo stesso a fare dell’ascetismo una pratica. È la perversione: è impossibile astenersi dai desideri sessuali, dagli appetiti della gola e dalle brame di controllo e potere, e nonostante questo qualcuno, qualche volta, riesce ad astenersi per tutta la vita. È la straordinaria natura dell’uomo che lo rende qualcosa di più dell’animale istintuale ma un animale capace di mettere di fronte a sé l’istintualità.

Agamben ritiene che i casi di pedofilia nella Chiesa, e lo scandalo sull’omertà che li accompagna, sono l’occasione per vedere esplicitata la natura perversa del cristianesimo: i casi di pedofilia rappresentano la valvola di sfogo necessaria per mantenere la sacralità del celibato. Rinunciare al celibato per “sconfiggere” la pedofilia nella Chiesa significherebbe scuotere alle fondamenta la cristianità, mettere in discussione quel particolare ruolo del corpo, mettere in discussione la salvezza e rinunciare al paradiso.

Perciò non stupiamoci se Papa Bergoglio afferma che picchiare i bambini senza colpirli in faccia «ha senso della dignità», è una punizione fatta «nel modo giusto». Non scandalizziamoci se afferma che «il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi». Non facciamo i borghesucci ignoranti di storia, la Chiesa è stata per secoli in guerra contro i musulmani (che pure loro so perversi, ma in modo diverso). La Chiesa è fatta così, è sempre stata così. La posizione di Bergoglio non sembra violenta, è violenta, è la stessa violenza nei ricordi di mia madre quando alle elementari dalle suore veniva bacchettata sulle mani, «che si facevano rosse rosse. Come il sangue». Le cape ‘e pezza provavano piacere, un piacere perverso nel punire un corpo che contribuisce alla salvezza dell’anima al prezzo di rinunciare ai suoi desideri.

C’è una profonda passione della cristianità dietro la punizione e l’abuso corporale. La stessa passione che ha spinto il papa, appena qualche settimana fa, a dire che chi mette in mezzo le madri si merita un pugno. Se il corpo non serve a nulla, se non per essere umiliato al fine di rendere lo spirito non ancorato alla materia, allora non c’è nulla di male se lo picchio e ne abuso.

L’antica usanza di insultare la madre

Papa Francesco

Papa Francesco

In volo tra lo Sri Lanka e le Filippine, il 15 gennaio Papa Francesco ha fatto una specie di seduta di catechismo in aeroplano. Una cosa che i papi hanno fatto raramente (non credo Ratzinger l’abbia mai fatta, Giovanni Paolo II sono certo sarà stato il primo) ma che Bergoglio sta invece inaugurando come un’abitudine. Parlare del più e del meno in aeroplano con giornalisti e colleghi religiosi, dissertare sull’attualità, con la differenza che a parlare è il Papa.

La cosa curiosa che ha detto, ripresa un po’ da tutti, e in un linguaggio degno del miglior catechismo di paese, è che se qualcuno gli insulta la madre si merita un pugno.

Chissà cosa avrà voluto dire. Forse che Zidane, alla fine, ha fatto bene a chiavare una testata a Materazzi. Chi lo sa. In ogni caso, quello che Bergoglio dovrebbe sapere è che l’usanza di insultare la madre è un’antica usanza, tutt’altro che spregevole. Tecnicamente si chiama flyting, o fliting. Lo facciamo dalle medie ed è un’attività formativa tra i puberali in odore di adolescenza, soprattutto maschi. Insegna alla leggerezza e all’ironia. Se avessi tirato un pugno a chi insultava mia madre sarei stato preso per un pazzo violento.

Non bisogna tirare pugni, Bergoglio. Bisogna rispondere per le rime, è questo che ti insegnano alle scuole medie quando si mette in mezzo la madre.

Stiamo parlando di un’usanza antica, vecchia come il tempo. Walter J. Ong, nel suo classico Oralità e scrittura, racconta che negli Stati Uniti i ragazzi originari dei Caraibi organizzavano (o organizzano tutt’ora, chi lo sa) dei match verbali a suon di insulti materni. Roba seria, una specie di contest hip-hop con i genitali delle madri degli altri al posto delle rime. Si chiama dozens, joning, o sounding.

Il caso Je Suis Charlie del «Corriere»: la fiera delle ipocrisie

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La vignetta commemorativo di Sio

Il 15 gennaio il «Corriere della Sera» è uscito con un inserto, Je Suis Charlie, matite in difesa della libertà di stampa, che raccoglie 151 vignette di 141 autori che, all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo del 7 gennaio, hanno reso omaggio alla redazione del giornale satirico (la lista, in ordine di apparizione, di tutti gli autori la trovate alla fine del pezzo).

È successo il putiferio. Il «Corriere» non ha chiesto l’autorizzazione alla pubblicazione praticamente a nessuno. Si è giustificato – in un post-scriptum dopo le lettere al veleno di Giacomo Bevilacqua, alias A Panda Piace, e di Roberto Recchioni – che se avesse telefonato a tutti sarebbe uscito fuori tempo massimo: «Aspettare di avere l’assenso formale di tutti gli autori, a nostro giudizio, avrebbe rallentato in maniera sensibile l’operazione» si legge nel ps del «Corriere».

Il libricino è valido, raccoglie contributi solidali di grandi e piccoli vignettisti che, alcuni con ingenuità altri con sensibilità, hanno voluto ricordare la morte di altri vignettisti. Alcune immagini sono in bassa risoluzione, addirittura una non ha l’indicazione dell’autore, evidentemente non sono riusciti a risalire al nome (è una copertina di un vecchio numero di Charlie Hebdo). Manca un indice degli autori e in terza pagina c’è una furbizia: “L’editore dichiara la propria disponibilità verso gli aventi diritto che non fosse riuscito a reperire”. Praticamente tutti. Il libro costa 4,90 euro e, a detta del «Corriere», il ricavato «sarà devoluto interamente a favore delle vittime della strage e del giornale Charlie Hebdo», precisazione arrivata guarda caso nel post-scriptum post-polemiche. Ma non mi dire che non farai una trattenutina sulle tasse poi.

È insomma un prodotto raffazzonato, uno dei tanti che andrà a ingrossare le file di commemorazioni commerciali che nei prossimi mesi faranno fare un po’ di cassa a tanti editori. «Il Mattino» di Napoli, per esempio, oggi è uscito con un libricino tascabile su Pino Daniele che già alle 9 del mattino non si trovava più.

Ma all’iniziativa del quotidiano di Milano, bella ma scorretta, si è aggiunta però una reazione scomposta di un paio di vignettisti. «Magari non amo essere scopato a mia insaputa. Almeno mandami dei fiori» ironizza Recchioni nella lettera da cui è partita la segnalazione del “furto”. A un certo punto però si contraddice. In uno stile scanzonato prima afferma che «magari io non ho piacere di collaborare con il tuo gruppo editoriale [Rcs]», per poi concludere che non ha nulla «contro l’iniziativa del Corriere». Insomma, se ti avessero telefonato avresti dato il tuo assenso oppure no? Così non si capisce e sarebbe stata una chiarificazione fondamentale.

Perché la protesta dei vignettisti è doverosa, ma soltanto in nome della trasparenza: caro Corriere che hai inserito un allegato a 4,90 euro i cui ricavi andranno in beneficenza, per piacere indicami i ricavi finali (i dati devono essere quelli dei distributori, incluse le rese) e il percorso che faranno questi soldi fino a Parigi. Ma Bevilacqua parla di furto, di vignette rubate, eppure non erano disegni commemorativi consegnati al mondo contro il terrorismo? Allora c’è qualcosa di più della lamentela per non essere stati avvisati, c’è la frustrazione di artisti non riconosciuti che nutrono rancore verso un quotidiano in cui, e vale un po’ per tutti i quotidiani, si riconoscono in pochi. Ditelo.

Ma il diritto d’autore qui c’entra molto poco, e più i vignettisti insistono su questo tasto più rischiano di passare per degli ipocriti, ed è un peccato perché sono quelli che in questa storia sono dalla parte della ragione. I motivi di questo scivolone sono due. Il primo è che si tratta di vignette commemorative che celebrano, in nome della libertà di espressione, un evento tragico. Quindi sono, necessariamente, per loro natura, libere da diritto d’autore. Disegnare in nome della libertà di espressione vincolando il tuo prodotto al diritto di esercitare il consenso alla pubblicazione, o peggio di richiedere compensi, è una contraddizione in termini. O quello che fai è libero (di essere pubblicato), lo consegni al mondo con tutti i rischi (di essere pubblicato a tua insaputa per esempio) o non lo è. Il secondo motivo è che sono immagini che hanno roteato vorticosamente sul web, un luogo in chiaroscuro dove il diritto d’autore si applica in modo molto diverso dalla carta e dal video. Anzi, in realtà non si applica proprio, se non in minima parte. Quindi quale diritto si rivendica, quello del tradizionale diritto d’autore che in rete semplicemente non esiste, o quello del web che ancora nessuno ha capito come funziona?

Che i vignettisti traditi facciano da oggi i cani da guardia sul Corriere e sorveglino il percorso che faranno i soldi da Milano a Parigi. Che alcuni ringrazino per il posto di onore che hanno ottenuto come vignettisti impegnati politicamente, quando fino a ieri facevano video demenziali. Continuate a difendere la libertà di espressione e l’onestà intellettuale. E lasciate stare il diritto d’autore.

In ordine di apparizione, tutti gli autori di Je Suis Charlie, matite in difesa della libertà di stampa:

1. Luz
2. Philippe Honoré
3. Cabu
4. Senza autore
5. Charb
6. Charb

(Fin qui le vignette realizzate prima dell’attentato a Charlie Hebdo, a seguire quelle realizzate dopo)

7. Satish Acharya
8. Christian Adams
9. Khalid Albaih
10. Don Alemanno
11. Giovanni Angeli
12. Arnald
13. Bobo Artefatti
14. Alessio Atrei
15. Paolo Bacilieri
16. Florence Bamberger
17. Neelabh Banerjee
18. Paolo Barbieri
19. Giovanni Beduschi
20. Nate Beeler
21. Chedly Belkhamsa
22. Steve Benson
23. Joep Bertrams
24. Giacomo Bevilacqua
25. Stéphane Blanquet
26. Serge Bloch
27. Didier Boisson
28. Boulet
29. Bruno Bourgeois
30. Bruno Bozzetto
31. Marco Careddu
32. Paolo Castaldi
33. Chappatte
34. Lucille Clere
35. Conc
36. Conc
37. Conc
38. Alberto Corradi
39. Gianluca Costantini
40. Chiara Dattola
41. Hajo de Reijger
42. Dario De Simone
43. Frédéric Deligne
44. Guy Delisle
45. Tommy Dessine
46. Lorenza Di Sepio
47. Ali Dilem
48. Jean Duverdier
49. El Jueves
50. Bernardo Erlich
51. Arcadio Esquivel
52. Fifo
53. Manuele Fior
54. Dario Fo
55. Sarah Fouquet
56. Fran
57. Fred
58. Checco Frongia
59. Marco Fusi
60. Garnotte
61. Philippe Geluck
62. Etienne Gendrin
63. Sergio Gerasi
64. Beppe Giacobbe
65. Emilio Giannelli
66. Emilio Giannelli
67. Vittorio Giardino
68. Gipi
69. Alessia Glaviano
70. Xavier Gorce
71. Ignant
72. Ixène
73. Jean Jullien
74. Gwen Keraval
75. Gérald Lacipière
76. Carlos Latuff
77. Giulio Laurenzi
78. Lectrr
79. Louison
80. MacLeod
81. Fabio Magnasciutti
82. Maicol&Mirco
83. Malaimagen
84. Rémi Malingrëy
85. Milo Manara
86. Riccardo Mannelli
87. Loenzo Mattotti
88. Maumont
89. Stefano Misesti
90. Sébastien Mourrain
91. Catel Muller
92. Na!
93. Shreyas Navare
94. Jerome Nicolas
95. Grazia Nidasio
96. Nono
97. Francisco Javier Olea
98. Ruben L. Oppenheimer
99. Ruben L. Hoppenheimer
100. Ornikkar
101. Leo Ortolani
102. Lorenzo Palloni
103. Giuseppe Palumbo
104. Plantu
105. David Pope
106. Portos
107. Paride Puglia
108. Roberto Recchioni
109. Tiziano Riverso
110. Gilles Rochier
111. Umberto Romaniello
112. Guido Rosa
113. Tjeerd Royaards
114. Alberto Ruggieri
115. Joe Sacco
116. Giulia Sagramola
117. Miguel Villalba Sánchez
118. Loïc Sécheresse
119. Loïc Sécheresse
120. Sylvie Serprix
121. Joann Sfar
122. Silver
123. Sio
124. Fabio Sironi
125. Angelo Siviglia
126. Fred Sochard
127. Doriano Solinas
128. Doriano Solinas
129. Doriano Solinas
130. Soulcié
131. Sergio Staino
132. Stephff
133. Ann Telnaes
134. Davide Toffolo
135. Tom Toles
136. Rob Tornoe
137. Albert Uderzo
138. Tomi Ungerer
139. Vadelfio
140. Gary Varvel
141. Vauro
142. Vauro
143. Stien Verbelen
144. Martin Vidberg
145. Vanna Vinci
146. Vincino
147. Vincino
148. Marco Vuchich
149. Yoda
150. Zep
151. Silvia Ziche

Chi sono i terroristi/6 – Gli editoriali di Fallaci e Terzani

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Il 29 novembre del 2001 usciva sul «Corriere» un editoriale di Oriana Fallaci intitolato La rabbia e l’orgoglio. Si racconta che fu l’allora direttore del giornale, Ferruccio De Bortoli, a chiedere alla Fallaci, che viveva a New York, di scrivere qualcosa. All’editoriale della giornalista risposero in tanti, ma la risposta che tutti ricordano è quella di Tiziano Terzani, del 7 ottobre 2001, sullo stesso giornale, Il Sultano e San Francesco.

Tiziano scriveva guardando le montagne dell’Himalaya, Oriana da un grattacielo che guardava altri grattacieli, alcuni dei quali in fiamme. Il primo era immerso nel silenzio e nella pace, il secondo a New York, nel pieno del caos.

La vera radicalità di una scelta non viene dettata dall’orgoglio ferito ma dal coraggio di farsi domande. Essere orgogliosi e rabbiosi è facile, ma rivela miopia dell’autocoscienza, la volontà di mantenere le cose come sono, senza capire, senza cambiare, arroccandosi nei propri privilegi. Domandarsi perché, invece, mette tutto in discussione, rivoluziona le prospettive e apre alla possibilità di un mondo migliore, fregandosene se sia più sicuro: se un mondo è migliore perché più giusto, a che serve domandarsi se sia al sicuro? Chi vuole sicurezza sa di essere in torto.

Voglio riprendere, alternandoli, i passi degli editoriali di Fallaci e Terzani che più mi hanno colpito. Creare una specie di confronto, fittizio, arbitrario, ma capace di mostrare come da un lato con la Fallaci ci sia la facile polarità della discussione, menzognera, impegnata com’è a difendere il più forte. Dall’altro con Terzani una saggezza dispersiva, responsabile, tosta, molto più difficile dei nervi tesi e logorati della Fallaci perché capace di chiedersi, ancora una volta, perché.

Se c’è un elemento che fa la differenza tra i due scrittori/giornalisti, è senza dubbio lo studio, delle persone e delle cose di cui è fatto il mondo.

Riproporre oggi questi passi mostra come in poco più di tredici anni poco o nulla sia cambiato. Bastano due vecchi editoriali del Corriere per comprendere le strutture narrative che ci aspettano nei prossimi mesi. I quotidiani da FLASH/BREAKING NEWS già sottolineano la “nuova era” e il “nuovo fronte europeo” che si è aperto con l’attentato di Charlie Hebdo, quando all’opposto il peggio che ci possa capitare non è che lo status quo, inaugurato il 26 ottobre 2001, giorno della firma del Patriot Act, promulgato da Obama per altri quattro anni il 26 maggio 2011.

(L’editoriale di Fallaci lo trovate qui, quello di Terzani qui)

F: Sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso.

T: Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia» […]. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

F: Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d’ Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi.

T: “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

F: A me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c’è Omero […], l’antica Grecia e la sua scoperta della Democrazia. C’è l’ antica Roma con la sua grandezza […] e il suo concetto della Legge. C’è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell’ amore e della giustizia […]. E infine c’ è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l’automobile, l’aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove […].
Dietro all’altra cultura che c’ è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adoperiamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya.

T: Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.

T: L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo [Warren Anderson, presidente della Union Carbide, accusato dall’India di essere responsabile dell’esplosione nel 1984 della fabbrica chimica di Bhopal: 16mila morti]. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

F: L’ America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele […].  Gli voglio bene e m’ è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa.

T: La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.