Marx: “Non siamo abbastanza pigri”

Intervista al politologo tedesco. “Matrix mi è piaciuto molto”

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Potremmo già non lavorare più, nessuno, e vivere tutti nell’ozio, lasciando fare tutto alle macchine. Ma come potremmo arricchirci altrimenti, accumulare e mantenere privilegi? Così abbiamo avuto la genialata di far diventare gli operai macchine: devono avere il ritmo sempre più vicino possibile a quello di una macchina, devono lavorare più di quando lavoravano senza macchine! Il mondo è connesso ma cazzo non abbiamo un minuto libero. Sembrerebbe un paradosso ma tutto si spiega col fatto che lasciando lavorare le macchine poi noi non avremmo nulla da fare.

Poi dite che Matrix è un brutto film.

È la fine della storia. Siamo alle soglie della fine della storia ma non vogliamo farla finire, vogliamo continuare a fare economia come ci piace a noi

Karl Marx intervistato da Tiziano Terzani, La Repubblica 18 brumaio 1973


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I due errori di Marx

Il primo errore di Marx è il fatto che sia stato insufficientemente dialettico. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei proprio compagni, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?

Sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per scopi liberali. Abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità verso l’Unione Sovietica diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato di lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre di più.

Il secondo errore di Marx è il peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli. Questo è il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo sistema teoretico. Lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Come ha potuto Marx illudersi così? La ragione del suo errore è un po’ sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito, egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.

Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista

Yanis Varoufakis, Confessioni di un marxista irregolare, Asterios, Trieste 2015, pp. 30-35. [citazione non consecutiva].

Un “marxista errante”, come si autodefinisce l’ex ministro delle finanze greco e, chissà, prossimo leader del partito più a sinistra d’Europa. Professore economista awesomissimo che si veste di soli giubbotti di pelle di pastore tedesco, anche d’estate. La sua moto è alimentata con diesel radicale, rigorosamente estratto dalle raffinerie del Capitale.

In questo testo, come in quel bellissimo libro divulgativo che è È l’economia che cambia il mondo, Varoufakis fa un discorso essenziale, che tutti gli studiosi sanno ma di cui poca opinione pubblica è consapevole: le crisi dell’economia non sono propriamente crisi, ma oscillazioni di un sistema che quanto più si avvicina al suo scopo (portare a zero il costo del lavoro attraverso le macchine), tanto più autodistrugge sé stesso.

Un lavoro completamente automatizzato, sogno tanto del padrone-speculatore quanto del lavoratore emancipato, elimina il “surplus” – come il Varoufakis-divulgatore chiama il plusvalore (e “valore d’esperienza” il valore d’uso) -, elimina il guadagno su profitto. È il lavoro automatizzato senza persone, dove non si suda più per vivere: sogno perduto di Adamo ed Eva e incubo di chiunque ha bisogno di fare profitto. E questa tautologica osservazione, tanto ovvia quanto non vista, non la sostiene Yanis, non l’ha teorizzata Lukács, non la diceva Berlinguer, ma l’ha scoperta Marx.

Per questo l’economista tedesco è ancora così fresco, oggi, come strumento di lettura del presente. Perché mostra ogni volta la contraddizione che non vogliamo accettare, quella del processo di produzione: quanto più ci si avvicina alla fine della Storia, tanto più ci si ritrae spaventati di fronte alla fine degli standard di profitto e distribuzione della ricchezza necessari per mantenere un’egemonia.

Che cos’è il capitalismo?

Fréderic Lardon

Fréderic Lardon

Cos’è questo capitale? Piketty, che «non [ha] mai veramente provato a leggere» “Il Capitale”è molto difficile da leggere», intervista, “The new repubblic”, Washington, Dc, 5 maggio 2014), non può che fornire un concetto dei più superficiali: quello patrimoniale. Il capitale è la ricchezza dei ricchi. Per Marx il capitale è tutt’altro: è un modello produttivo, ossia un rapporto sociale. Un rapporto sociale complesso che, al rapporto monetario delle semplici economie commerciali, aggiunge – ed è il cuore della questione – il rapporto salariale, costituito attorno alla proprietà privata dei mezzi di produzione, alla fantasmagoria giuridica del «lavoratore libero», quello stesso individuo però privato della possibilità di riprodurre da sé la propria esistenza materiale, gettato sul mercato del lavoro e, per sopravvivere, obbligato ad andare alle dipendenze di qualcuno e a sottomettersi all’impero padronale, in un rapporto di subordinazione gerarchica.

Il capitale è questo – e non solo la hit-parade dei ricchi della rivista Fortune. Il capitale, anche nella sua versione strettamente patrimoniale, colpisce inevitabilmente l’uomo comune con l’osceno spettacolo delle disuguaglianze economiche. E lo colpisce ancora più profondamente se si considera il capitale come modo di produzione e rapporto sociale, salariale innanzitutto: per mezzo dei vincoli nei quali sigilla la loro stessa vita – perché otto ore sono la metà del tempo di veglia. Gli operai di Continental, di Fralib, di Florange, ecc., sono devastati dalle loro esistenze saccheggiate dalla legge ferrea della valorizzazione finanziaria del capitale prima di essere disgustati dall’insolente ostentazione dei ricchi. E questo vale anche per quanti, nel lavoro, soffrono in silenzio la tirannia della produttività, la massacrante mobilitazione al servizio della redditività, la minaccia permanente – di licenziamenti, delocalizzazione, ristrutturazione aziendale sul modello France Télécom -, la precarietà che rode il fegato, la violenza generalizzata dei rapporti nel luogo di lavoro. Di tutto questo non si trova traccia nel Capitale [di Piketty].

Con Thomas Piketty, il Capitale del XXI secolo non corre pericoli, in Le monde diplomatique, n. 4, anno XXII, aprile 2015.

Partendo da un’analisi critica del best seller di Piketty, l’autore di La Malfaçon fa una delle più efficaci e recenti sintesi del capitalismo. Quando vi sentite dire: “Ancora con sto capitalismo, e basta”, sbattetegli in faccia questa citazione.

“Capitalismo” non significa “capitalista”. Non significa ricco ma (un certo modo di fare) ricchezza. Capitalismo non è l’industria ma il modo in cui è organizzato il lavoro al suo interno. Ci sarà sempre un “capitalista”, uno sfruttatore, un colono, uno speculatore, anche senza capitalismo. La storia ne è piena. Così come dietro la coolness di amministratori delegati della Silicon Valley non ci sono nient’altro che commercianti. Grossi, enormi, ricchissimi commercianti (e non vi fate ingannare se sono magri e vestono sempre uguale, sono sempre squali molto grossi). Piuttosto è una novità, da qualche secolo a questa parte, che l’economia viene concepita esclusivamente come «rapporto sociale di tipo salariale».

Cosa ci dice Lordon con Marx? Che l’uomo coltiva, commercia, fa la guerra, in una parola vive in società, da circa 10mila anni. Che la forma della società è determinata dall’economia che si sceglie di adottare (questo è uno dei primi insegnamenti di Marx). Ma è da pochi secoli che l’uomo, nella generale condizione di sfruttamento che determina qualsiasi economia, ha adottato (oggi a livello planetario) un modello economico straordinario per ricchezza e produttività: il capitalismo.

La novità del capitalismo non è lo sfruttamento delle risorse e delle persone. Già coltivare implica entrambe. Piuttosto è l’intensità ottimale con cui riesce a sistematizzare questa doppia caratteristica di qualunque economia. Quanto più i telefoni si evolvono, tanto più viene generata disuguaglianza. Il che ha anche una sua logica: quando c’è da nutrire il mondo, e l’unico modo è attraverso lo sfruttamento delle risorse e delle persone, è ovvio che bisogna sfruttare perlomeno metà del mondo per soddisfare gli enormi bisogni dell’altra metà.

Al di là di ogni giudizio morale su un mondo concepito così, è indubbio che si tratta di un modo di vivere storicamente determinato, e pure di recente. Marx, sottolinea Lordon, ci insegna nient’altro che il capitalismo è una condizione secolare, non spirituale. Si è schiavizzato, poi vassallato, colonizzato, infine capitalizzato. Lo sfruttamento (delle risorse, delle persone) è il fulcro dell’economia.

Che ci resta da fare se la storia, tutto sommato, è sempre stata capitalista? Forse non ci libereremo mai della imprescindibile necessità di sfruttare (liberismo); oppure se soltanto ci provassimo potremmo invece trovare un’alternativa (comunismo). Una cosa però possiamo farla da subito: essere consapevoli della situazione in cui siamo gettati.

Il sociologo Lordon sottolinea due cose importanti. La prima è che “capitalismo” non è qualcosa di riconducibile a un volto, forse neanche a un simbolo. Sembra ultrastorico, vista com’è segnata la storia da imperi e colonie. Ma in realtà è un fenomeno prettamente storico e umano, un modo di produzione non solo recente, ma anche identificabile: un rapporto salariale (lavoro) fondato su mezzi di produzione (catena di montaggio) che non devono appartenere a chi li adopera (operatore call center). È la ragione per cui oggi il termine è tranquillamente scomparso dall’uso comune: cosa nomini con “capitalismo”?, la tuba?, l’occhiello? un call center? Marchionne? “Capitalismo” è ormai nostalgia di un mondo in cui si poteva nominare ciò a cui opporre una visione alternativa. E visto che oggi di alternative al capitalismo non ce ne sono, è arrivato il momento di non nominarlo più e metterci una pietra sopra. In un mondo di pazzi, che senso ha parlare di “pazzia”?

La seconda cosa che sottolinea Lordon è che capire è il primo passo per capire se ci sono alternative. È esattamente quello che Marx ci insegna, visto che è diventato un autore classico con un libro che non si chiama Come diventare comunista ma [che cos’è] Il capitale. L’alternativa, in realtà, Marx non se l’è mai posta, ha scritto un libro su una cosa che di alternative non vuole proprio saperne. Ha impegnato la sua vita a scrivere un libro che analizza un modello di produzione economica egemone e potente, transnazionale e transculturale, senza volto, ideologicamente indistruttibile grazie a quell’idea di ricchezza che non dipende da nient’altro che dalla propria capacità di fare profitto. Un modello produttivo senza limiti, capace di assecondare, meglio di chiunque altro, quell’impulso tecnologico (τέχνη, saper fare) dell’uomo che lo spinge oltre la natura e la vita. L’idea di Marx era di andare avanti con questa analisi perlomeno per un paio di generazioni, ma poi è morto.

Marx non ci insegna a fare la rivoluzione, a cambiare le cose, ad agire. Ci insegna che per fare qualunque cosa dobbiamo prima capire. Marx era un comunista che scrisse un libro difficilissimo e bellissimo, l’unico che si conosca che sia riuscito ad analizzare, e soltanto in parte, un modello economico devastante.

Quell’idiota di Derrida

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Un anno ho cercato di leggere Il capitale con un gruppo che seguiva il programma di lingue romanze della Johns Hopkins. Con mia immensa frustrazione, dedicammo quasi l’intero semestre al primo capitolo. Io ripetevo: «Dobbiamo andare oltre, per arrivare almeno alla trattazione della “Giornata lavorativa”», e la risposta era sempre: «No, no, no, dobbiamo chiarire bene. Cos’è il valore? Cosa dobbiamo intendere con denaro e merce? Cos’è il feticcio?» e così via. Usavano anche l’edizione tedesca per accertarsi della traduzione. Scoprii anche che essi si ispiravano a qualcuno che non avevo mai sentito nominare, che pensai dovesse essere un idiota dal punto di vista politico, se non addirittura da quello intellettuale, per aver diffuso un approccio simile. Questa persona era Jacques Derrida.

David HarveyIntroduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro, La Casa Usher, Firenze 2012, p. 15.

Proletariato, cent’anni dopo

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«Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione […]? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile che non è una classe della società civile, di uno Stand, che è la dissoluzione di tutti gli Stände […], che non rivendica nessun diritto particolare, poiché su di essa viene esercitata non un’ingiustizia particolare, ma l’ingiustizia assoluta […]; di una sfera, infine, che non può emanciparsi, senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e senza emancipare quindi tutte le altre sfere della società – che, in una parola, è la perdita totale dell’uomo e che potrà raggiungere se stessa solo riscattando integralmente l’uomo. Questa dissoluzione della società come Stand particolare è il proletariato.

Karl Marx e Friedrich EnglesWerke, I, Dietz, Berlin p. 390, in Giorgio AgambenIl tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 34-35.   

                                                       ***                                                       

Non mi pare le cose siano cambiate tanto. Anzi, i proletari di oggi sono più proletari di quelli di ieri. Siamo più veri dei veri. Non a caso “proletariato” è oggi una parola anacronistica. Una parola ha bisogno del suo contrario per esistere, altrimenti decade. E’ come in un mondo di pazzi. Siamo tutti proletari.

Ma il Capitale, non aveva vinto? Sì, però funziona che la ricchezza è distribuita male. Poi ti spiego.

La differenza con i vecchi proletari è che noi oggi vogliamo questa catena radicale, questa perdita totale, la desideriamo come il nuovo tablet che cambierà tutto, tranne la propria condizione sociale. Alcuni hanno addirittura sostenuto, e ancor di più altri sostengono ancora oggi, che non desideriamo più questi oggetti, ma già ne godiamo: le rate insomma son roba vecchia, ora puoi già ottenere (goderne) ciò che desideri, senza bisogno di lavorare. Il lavoro non rende più liberi, ma questo già si sapeva da un pezzo. Ogni oggetto da consumare non sarà mai al di sopra delle proprie possibilità perché già si vive al di sopra delle proprie possibilità, e quell’oggetto, quel feticcio, quella merce, è sempre già nelle tue possibilità.Il “Godi! Godi! Godi!” della generazione che non resiste più a niente si è sostituito a quel “Resistere! Resistere” Restistere!” della generazione che voleva soltanto godere.

Salto di qualità

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«L’oggetto di consumo, nella sua versione moderna, è il feticcio […]. Era il capitalismo, dove valeva la previsione del presidente Hoover nei confronti di Edward Bernays, astuto fondatore dei primi sistemi di marketing e di risorse umane, e nipotino di Freud: “Voi avete trasformato le persone in instancabili macchine della felicità” (constantly moving happiness machine). Quel tempo è ormai alle nostre spalle.

[…]

L’oggetto di consumo, oggi, è diventato un gadget. Intercetta più il nostro godimento che il nostro desiderio […]. In fondo il capitalismo non ci dice più come e cosa dobbiamo pensare o desiderare. Non scrive il fantasma. O almeno non soltanto. La scommessa oggi riguarda i corpi e il loro godimento. L’oggetto gadget non evoca, non illude, non innesca la temporalità propria del desiderio e del fantasma: l’attesa, la speranza, la ricerca, l’aspirazione, l’identificazione immaginaria…L’oggetto gadget inchioda il consumatore al suo godimento autistico: tu sei questo. Non si tratta più di ciò che l’oggetto ti farà diventare, ma qualcosa di molto più forte e singolare. In questo, infatti, il capitalismo segue la logica dell’uno per uno a cui punta anche la psicoanalisi».

Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio, clinica dell’immaginario contemporaneo, Mimesis, Milano 2012, p.79.

Lo sproloquio marxista

E’ ufficiale, nel tempio del liberalismo individualista più sfrenato, l’Inghilterra, Karl Marx va di moda. Non è tornato di moda, perché non lo è mai stato. E’ il suo nome, non il suo concetto, ad essere entrato nella circolarità popolare della passerella dei socialnetwork. Se fosse il suo concetto ad essere presente col cazzo che si risolverebbe tutto con un post o con un cartello agitato in mezzo alla strada. Il suo nome è una cosa banale, come la merce. Come quando si dice che Balotelli è il simbolo dei cittadini stranieri nati in Italia (BUAHAHAHA!).

Karl Marx, la parola totalizzata come merce nella circolarità del mercato, giusto perché l’ingiustizia strutturale su cui si fonda il sistema del capitale, che il concetto di Karl Marx analizza con grande profondità, è ora veramente insopportabile. Ma basta che questa crisi passi che il suo nome passerà di moda. Il capitale, parola nebulosa sul quale il filosofo tedesco ci ha scritto un libro capitale, quello non passerà mai di moda, perché non lo è mai stato, come il comunismo. Karl Marx, suona proprio bene, ci chiamerei il mio cane così.

Marx ha sempre avuto ragione

Quel noi siamo il 99% ha un sapore ironico, quasi della beffa. Verrebbe da chiedersi: ma se siamo il 99% perché ci siamo fatti ridurre così? Oppure: ma se siamo la quasi totalità perché le cose non sono già cambiate? La risposta è ovvia: il numero non basta, è una questione di potere che non è solo quantità ma anche qualità. Qualità dell’azione e qualità dei mezzi, cose su cui, si sa, la massa non ha mai eccelso. Lo slogan quindi ha un significato molto profondo che stuzzicherebbe la fantasia di psicologi, filosofi e antropologi. Mette in scena con una forza micidiale le contraddizioni del capitalismo: è il lavoratore l’ossatura della produzione ma il prodotto è l’ossatura dell’economia. Una schizzofrenia micidiale. Il discorso non cambia: Karl Marx ha sempre avuto ragione. Tra i contatti di facebook ho un amico che lavora alla Tom Tom che non fa altro che lanciare feeds accusatori e dissacranti (alcuni molto divertenti) su queste contraddizioni…continuando a lavorare alla Tom Tom.