Che cos’è un racconto?

Sciamano delle Ande

Lo sciamano don Sergio, Ande

«Le fasi più antiche della storia vengono distinte tradizionalmente in base alla materia degli utensili adoperati: pietra, ferro, bronzo. Si tratta di una classificazione convenzionale, basata su elementi esterni. Ma è stato osservato che l’uso di utensili, per quanto decisivo, non contraddistingue in maniera specifica la specie umana. Anche se in misura molto limitata, esso è condiviso da altre specie animali. Solo la specie umana, invece, ha l’abitudine di raccogliere, produrre, ammassare o distruggere oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare: offerte agli dei o ai morti, suppellettili funerarie sepolte nelle tombe, reliquie, opere d’arte o curiosità naturali conservate in musei o collezioni. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori (come sono stati definiti) hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio o nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi – morti, antenati, divinità. La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione di un’assenza […].

Si potrebbe essere tentati di riproporre la vecchia tesi che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, che l’individuo ripercorre nella sua crescita le tappe percorse dalla specie umana. L’osservazione del presente consentirebbe allora di afferrare un passato altrimenti inattingibile. Nel gesto del bambino di diciotto mesi, che (forse) rivive le reazione suscitate dall’assenza e dal ritorno della madre gettando lontano da sé un rocchetto avvolto in un filo, per ritrovarlo gioiosamente subito dopo, si è riconosciuto un modello di ripetizione simbolica, controllata e non coatta, del passato. Ma è lecito cercare le radici del simbolismo mitico-rituale nella psicologia infantile?
Ammettiamo pure che il bambino usi il rocchetto come un semioforo; che il rocchetto designi la madre, sia la madre. Un esempio basterà a illustrare le potenzialità e i limiti dell’analogia tra individuo e specie. L’uso di raccogliere le ossa degli animali uccisi per farli resuscitare è certamente molto antico. Proviamo a supporre una specie animale che tragga buona parte dei propri mezzi di sussistenza dall’uccisione di altre specie animali, vertebrate, reperibili in quantità non illimitata. Ci sono forti probabilità che questa specie finisca prima o poi con l’utilizzare le ossa degli animali uccisi come semiofori.
Bisogna però che alle condizioni già ricordate se ne aggiunga un’altra, decisiva: la specie in questione deve disporre già di quelle capacità simboliche che attribuiamo in maniera esclusiva alla specie homo sapiens. Con ciò il cerchio si chiude. L’origine ci è, per definizione, preclusa […].

Certa invece è la somiglianza profonda che lega i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà. Questo nucleo narrativo elementare ha accompagnato l’umanità per millenni. Le innumerevoli variazioni introdotte da società diversissime, basate sulla caccia, l’allevamento, l’agricoltura, non ne hanno modificato la struttura di fondo. Perché questa permanenza? La risposta è forse semplicissima. Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice di tutti i racconti possibili».

Carlo GinzburgStoria notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, pp. 244-245 e 288-289.

La psicoanalisi ha ucciso la scienza

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«Né l’ignoranza né le minacce di un’immaginaria inquisizione alessandrina possono spiegare perché gli astronomi greci, dopo aver scoperto il sistema eliocentrico, gli voltarono le spalle. Cicerone, Plutarco, Macrobio, sapevano che il Sole governa i movimenti dei pianeti; al tempo stesso, tuttavia, rifiutavano di ammettere questo fatto. O forse è questa irrazionalità che ci fornisce la chiave del problema, obbligandoci a rinunciare all’abitudine che abbiamo di trattare la storia della Scienza in termini puramente razionali. Perché ammettere che gli artisti, i conquistatori, gli uomini di stato obbediscano a motivi irrazionali e rifiutarlo soltanto agli eroi della scienza? Gli astronomi post-aristotelici negavano e affermavano ad un tempo il dominio del Sole sui pianeti; la ragione cosciente ha un bel respingere questo paradosso, è connaturato all’inconscio simultaneamente affermare e negare, dire di sì e di no alla stessa domanda, in qualche modo sapere e non-sapere».

Arthur KoestlerI sonnambuli, storia delle concezioni dell’universo, Jaca Book, Milano 2010, pp. 74-75.

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Nella foto, gli epicicli e i deferenti di Tolomeo.

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Una delle chiavi per comprendere la rivoluzione che ha apportato la “scoperta dell’inconscio”, o la nascita della psicoanalisi come scienza, consiste nel ruolo che assume la scienza moderna dopo la morte del positivismo.
Come tutte le morti eccellenti, dall’eroe rivoluzionario all’eroe mitico, ogni morte non costituisce una dipartita. Dio è forse morto più di un secolo fa, nel 1882, o addirittura duemila anni fa. Eppure ciò non toglie che esso continui a persistere, a insistere, diciamo in un certo senso ad esistere. La morte in questi casi, riguardi Dio o l’iDeologia della positivismo, non attiene a chi muore, ma a chi vi assiste. La morte di un Illustre (religione o ideologia) è sempre per noi (come può un dio morire?), mai per lui. In altre parole, la morte in questi casi non è la fine di niente fintantoché non ci se ne rende conto.
Cosa ha ucciso la psicoanalisi? La scienza, proprio nel momento in cui ha reso scientifico lo studio di qualcosa che non è possibile osservare oggettivamente: il soggetto. La psicoanalisi ha rivoltato come un guanto il metodo scientifico, costringendolo a ripiegarsi su se stesso, osservando il suo stesso metodo, la sua oggettività. E’ impossibile fare della psicoanalisi una scienza esatta, eppure ha un metodo comprovato, collaudato ed efficace, con la differenza, rispetto alla scienza tout-court (quella dei laboratori e dell’osservazione di oggetti inerti), che non ha una fine: non si “guarisce” dai propri sintomi nevrotici o psicotici, altrimenti uno psicoanalista non sarebbe niente di diverso da un medico (un neurologo?). Ciò che la psicoanalisi garantisce, ed è già un grande successo, è lavorare sui propri sintomi.
Così, dichiarare la morte della scienza, come di Dio o di un’ideologia, non comporta niente di apocalittico. La morte della scienza non è la sua fine (si continuerà a credere, chissà per quanto, all’oggettività per intendere il sapere autentico), soltanto una nuova consapevolezza del suo ruolo: sappiamo oggi che è un metodo conoscitivo come un altro, anche se non tutti lo sanno, come l’inconscio, che è qualcosa di cui si sa che non sappiamo nulla.
Koestler, tracciando una storia della scienza, mostra come non ci sia alcun cammino verso l’oggettività, così come non c’è alcun progresso, semmai una pratica soggettiva che va convalidata dalla collettività, altrimenti non vale niente.

ps: la morte di Dio e della scienza è un’ottima notizia per il comunismo o più in generale per le pratiche politiche di emancipazione. Esperto di fallimenti, il comunismo, pur essendo morto, ha ancora tanto da dire, e ne avrà forse per sempre -come appunto Dio e la scienza- soprattutto in un periodo come questo, pieno zeppo di capitalismo.

Postidealismi psicoanalitici

«Uno degli sketch tipici della commedia televisiva americana è la scena del riconoscimento tardivo: un uomo vede un’automobile che viene portata via dalla stradale; comincia quindi a ridere malignamente della sfortuna del proprietario, prima di sobbalzare per la sorpresa un paio di secondi dopo: “Ma, aspettate, quella è la mia macchina!”. La forma più elementare di questo sketch è, ovviamente, quella dell’auto-riconoscimento ritardato: passo accanto a una porta a vetri e credo di scorgere dietro di essa un individuo brutto e sfigurato; rido, poi, d’improvviso, mi rendo conto che il vetro era in realtà uno specchio e che dunque era me stesso che stavo guardando poco prima. La tesi lacaniana è che questo ritardo è strutturale: non c’è alcun auto-conoscenza diretta; il sé è vuoto».

Slavoj Žižek, Meno di niente, Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, Ponte delle Grazie, Milano 2013, pp. 178-179.

La filosofia della psicoanalisi di Lacan

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Provo a fare un esperimento. Una condensazione filosofica di un testo di Lacan. Si tratta del testo “componibile” per antonomasia, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud. Un testo che è già stato fatto a pezzetti, composto, decomposto, ricostruito e decostruito.
Lo citerò come se sottolineassi, saltando le subordinate, le pause, le parentesi e le esitazioni che rendono la lettura di questo testo la faticosa lettura di un discorso scritto.
Citerò il testo di un autore che non è un filosofo.
Citerò tre pagine de L’istanza, verso la fine, dove Lacan parla del soggetto moderno e dell’importanza della scoperta dell’inconscio. Quelle dove Lacan butta in mezzo Cartesio. Qui sembra in atto lo strapazzamento del soggetto cartesiano ad opera di Freud, ma in realtà non si smette di parlare di psicoanalisi.

Cercherò di citare un Lacan condensato, per dargli un senso “filosofico”. Citerò correttamente il testo, e in un solo caso invertirò le subordinate, verso la fine, nelle due asserzioni in corsivo.

Tutto questo, sostanzialmente, per citare male Lacan. Quindi, per citarlo come si deve.

Proviamo.

Je pense, donc je suis (Cogito ergo sum) non è solo la formula in cui si costituisce, con l’apologeo storico di una riflessione sulle condizioni della scienza, il legame con la trasparenza del soggetto trascendentale della sua affermazione esistenziale.
Forse io non sono che oggetto e meccanismo, e dunque nulla più che un fenomeno, ma sicuramente in quanto io lo penso, io sono, assolutamente. Senza dubbio i filosofi vi hanno apportato importanti correzioni, e in particolare che in ciò che pensa (cogitans), io non faccio mai altro che costituirmi come oggetto (cogitatum). Resta che attraverso questa estrema depurazione del soggetto trascendentale, il mio legame esistenziale col suo progetto sembra irrefutabile, almeno nella forma della sua attualità, e che:

«cogito ergo sum» ubi cogito, ubi sum

Beninteso, ciò mi limita a non esserci, nel mio essere, che nella misura in cui penso che sono nel mio pensiero; in quale misura io lo pensi veramente, non riguarda che me, e, se lo dico, non interessa a nessuno.
Tuttavia, eluderlo col pretesto delle sue sembianze filosofiche, è semplicemente dar prova di inibizione. Perché la nozione di soggetto è indispensabile al maneggiamento di una scienza, i cui calcoli escludono ogni «soggettivismo».
È proibirsi l’accesso a quel che si può chiamare l’universo di Freud. Come si dice: l’universo di Copernico. Infatti è proprio alla rivoluzione cosiddetta copernicana che Freud stesso paragonava la sua scoperta, sottolineando che una volta di più ne andava del posto che l’uomo si assegna al centro di un universo. E il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico? Ecco il problema.
Non si tratta di sapere se parlo di me in modo conforme a ciò che sono, ma se, quando ne parlo, sono lo stesso che colui di cui parla. Il cogito filosofico è nel punto focale di quel miraggio che rende l’uomo moderno così certo di essere sé nelle incertezze su se stesso, o attraverso la diffidenza che da tempo ha potuto imparare a praticare nei confronti delle insidie dell’amor proprio.
Se, rivolgendo contro la nostalgia che essa serve l’arma della metonimia, mi rifiuto di cercare un senso aldilà della tautologia, e se mi decido a non esser altro che ciò che sono, come staccarmi dall’evidenza che sono in questo stesso atto?
Come pure, se mi sposto all’altro polo, metaforico, della ricerca significante, e mi voto a diventare ciò che sono, a venire all’essere, non posso dubitare che anche se mi ci perdo ci sono.
Ora, è proprio su questi punti che si ha la svolta della conversione freudiana. Questo gioco significante della metonimia e della metafora, che incardina il mio desiderio su un rifiuto del significante o su una mancanza dell’essere, si gioca là dove non sono perché non mi ci posso situare.
Sono bastate queste poche parole per lasciar interdetti per un istante i miei uditori: penso dove non sono, dunque sono dove non penso. Parole che all’orecchio teso rendono sensibile con quale ambiguità da furetto sfugga alla nostra presa l’anello del senso sulla funicella verbale.

Ciò che si deve dire è: là dove sono il trastullo del mio pensiero, non sono; là dove non penso di pensare, penso ciò che sono.

La verità non si evoca che nella dimensione di alibi grazie a cui ogni «realismo» nella creazione trae la propria virtù dalla metonimia, e che il senso non offre altro accesso che il duplice gomito della metafora. Il significante e il significato saussuriano non sono sullo stesso piano, e l’uomo s’ingannava a credersi situato nel loro comune asse che non è da nessuna parte.
Questo, almeno, finché Freud non ne ha fatto la scoperta. Giacché se ciò che Freud ha scoperto non è questo, non ha scoperto nulla.

Jacques LacanL’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 2002, pp. 511-513.

Dani Alves, psicanalista

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In psicanalisi si chiama ripetizione, ovvero la persistenza di un concetto o di una sensazione. E’ il punto di ancoraggio del nevrotico, l’allucinazione dello psicotico, o la semplice ansia, l’angoscia, il chiodo fisso per quelli a cui prima o poi passa. E’ in sostanza l’ossessione, la persistenza dell’identico che ritorna, inesorabilmente, incessantemente. Può rappresentare una fonte di ispirazione, ma anche un incubo. E’ la morte, l’orrore del corpo freddo, l’ineluttabile destino di tutte le cose viventi che, nella loro infinita varietà dinamica e mutevole, vanno inesorabilmente verso la cessazione di ogni movimento. Ripetizione è la nausea sartriana della persistenza dell’esistenza.
Dani Alves, giocatore del Barcellona, ha applicato senza saperlo questo principio all’antirazzismo, rendendolo devastante per efficacia. Il 27 aprile, contro il Villareal, gli hanno lanciato una banana. Senza battere ciglio Alves l’ha presa, gli ha dato un morso, l’ha gettata a terra e ha battuto un calcio d’angolo. Il gesto è diventato virale, con tantissimi narcisi che non aspettavano altro per farsi un selfie finalmente diverso, con una banana in mano per esempio. 
L’efficacia antirazzista del gesto del giocatore del Barça sta tutta nella ripetizione. Alves non ha reagito per opposizione (protestando, offendendosi) ma al contrario per affermazione, ripetendo il gesto che ha subìto. Dagli spalti l’invito era chiaro, con tutto il carico di invenzioni che caratterizza l’offesa razzista: “Tu, negro, che sei un gradino sotto la scala evolutiva dell’essere umano [invenzione], mangiati questa banana come fanno le scimmie [invenzione]”. A questo sobrio, scherzoso e leggero messaggio, Dani ha risposto come risponderebbe ogni persona serena in un contesto come quello del gioco: ha accolto l’invito razzista, smontando di fatto ogni possibile provocazione.

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E’ quello che fanno gli afroamericani del ghetto quando tra di loro si chiamano negri (niggernigga). Pronunciano la stessa parola con lo stesso significato ma in un altro contesto: rispettano la sintassi, la semantica, ma non la pragmatica. Il trucco sta nel ripetere, senza badare a chi proferisce, e a proferirla non è più il carnefice, ma la vittima. Attraverso la ripetizione, la parola viene sradicata e riutilizzata nel suo significato più puro, neutro. Il suo senso viene ribaltato, pur mantenendosi inalterato: negri sono e negri rimangono. Con la differenza che il gesto, la profanazione, la profonda offesa della parola nigger viene presa alla lettera: nigger è un termine neutro di origine spagnola che indica la persona con la pelle scura. “Sono io!” afferma il negro ingenuo che non sa cosa nigger significhi, se non, appunto, con-la-pelle-scura. Così il “negro” detto “fra negri” non è più discriminante, anzi lo è (se c’è un negro, è perché c’è un bianco), ma al contrario: sono io, negro, che mi distinguo da te, bianco. E nigga diventa solidarizzante, comunitarizzante. Nigger è tra pari sinonimo di fratello, mentre tra schiavo e padrone indica al contrario il nemico (ancora oggi non conviene a un bianco apostrofare un negro, a meno che non gli sei amico, con un hey nigga!). In entrambi i casi, però, il significato è esattamente lo stesso, non viene alterato. Quando viene ripetuta alla lettera, persistendo identica a se stessa in un nuovo contesto, una parola muore nel suo uso corrente (“negro” è una parolaccia; le banane le mangiano i negri e i finocchi) per svelarsi nel suo proprio significato (“negro” significa “con-la-pelle-scura”; la banana è un frutto che si mangia). La persistenza della ripetizione è la parola nella sua identità propria.
Dani Alves, come tutti i nigger, come tutti gli esseri umani di tutto il pianeta terra, mangia le banane. E quando gli hanno offerto una banana si è limitato a mangiarla, capovolgendo il messaggio:

– “Mangia la tua banana, negro”
– “Ok. Mh, buona”

Quale carceriere non andrebbe su tutte le furie?
Per concludere, il gesto di Alves, ripetendo il movimento vitale dell’offesa razzista, di fatto arresta e annulla l’efficacia del gesto, ammazza il razzismo mettendogli di fronte uno specchio. E l’ondata di selfie con banana al seguito sta lì a sottolinearlo: rafforza e ripete la ripetizione fino alla nausea, fino alla morte.
Il razzismo nello sport – il razzismo urlato per attirare l’attenzione, non quello utilizzato scientificamente per attaccare e isolare una minoranza (come invece ha fatto Donald Sterling proprio negli stessi giorni) – non si combatte con l’antirazzismo, ma assumendo su di sé la sua banalità, il semplicistico e antiscientifico ragionamento che sta alla base di ogni offesa razzista. 
Negli stadi il gioco del razzismo viene preso troppo seriamente, aumentando enormemente il suo impatto sull’opinione pubblica, più di quanto vorrebbe colui che ha lanciato una banana. Dani Alves ha riportato la questione sul terreno che gli compete, fuori dalle trasmissioni tv del pomeriggio e dalle conferenze stampa degli allenatori, piuttosto inchiodandola lì dove nasce.
In questi contesti la ripetizione del gesto razzista da parte di chi subisce l’ingiuria smaschera l’ingenuità dell’ingiuria, la banalità del ragionamento dietro l’offesa. La banalità della banana.

Rebus

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«Mi trovo davanti un indovinello figurato (rebus): una casa sul cui tetto si vede una barca, poi una singola lettera, poi una figura che corre e alla quale è stata cancellata la testa con un apostrofo ecc. Ora potrei erroneamente obiettare che questa composizione e i suoi elementi sono assurdi. Il posto di una barca non è il tetto di una casa e una persona senza testa non può correre; la persona inoltre è più alta della casa e, se il tutto deve raffigurare un paesaggio, le singole lettere, che certo non si trovano in natura, non vi si integrano. La corretta valutazione del rebus si ha evidentemente solo se non sollevo alcuna di queste obiezioni contro l’insieme o i particolari, e mi sforzo invece di sostituire ogni immagine con una sillaba o una parola, che in base a una qualunque relazione possa essere raffigurata da un’immagine. Le parole che così si compongono non sono più senza senso, ma possono creare la più bella e significativa frase poetica. Il sogno è dunque un indovinello figurato di questo tipo e i nostri predecessori nel campo dell’interpretazione dei sogni hanno commesso l’errore di giudicare il rebus come una composizione figurativa. Come tale esso è apparso loro assurdo e privo di valore».

Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2012, pp. 256-257.

Nella foto, il dipinto di Joseph Sutter (1781-1866) Il sogno di Giacobbe.

Traumdeutung

«Scherner ritiene persino che la fantasia onirica possieda un’immagine preferita per raffigurare l’intero organismo: l’immagine della casa. […] Lunghissime strade fiancheggiate da case per indicare lo stimolo intestinale. […] Nel sogno provocato dal mal di testa, il soffitto di una stanza (che il sognatore vede ricoperto da ripugnanti ragni simili a rospi) rappresenta la testa.
“Così il polmone che respira trova il suo simbolo nella stufa infuocata che mugghia come il vento, il cuore in casse e ceste vuote, la vescica in oggetti rotondi, a forma di sacco o semplicemente cavi. Il sogno provocato nell’uomo dagli stimoli sessuali lascia che il sognatore trovi per strada la parte superiore di un clarinetto, poi la stessa parte di una pipa, e ancora una pelliccia. Clarinetto e pipa raffigurano approssimativamente la forma del membro maschile, la pelliccia i peli del pube. Nel sogno sessuale femminile lo spazio stretto fra le cosce unite può essere simboleggiato da un cortile angusto, circondato da case, la vagina da un sentiero molto stretto e sdrucciolevole che attraversa il cortile e che la sognatrice deve percorrere per portare una lettera a un signore”».

Johannes Immanuel Volkelt, Die Traum-Phantasie, Stuttgard, citato in Sigmung Freud, L’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2012, p. 90.

Se nella interpretazione dei Suoi sogni incontra difficoltà così notevoli, e dunque dentro di Lei si sono sollevate resistenze così forti contro una serie di stimoli che si sono prodotti nella Sua psiche, istruirLa nell’interpretazione dei Suoi sogni equivale a farLe imboccare la strada dell’autoanalisi. Ma, una volta che abbia avuto inizio, l’autoanalisi non cessa subito, e forse Ella è occupato da lavori che non tollerano turbamenti e interruzioni. Se è in grado di superare questi pericoli e di perdonarmi l’indiscrezione, con cui dovrò frugare e investigare dentro di Lei, se può tollerare gli effetti penosi che forse dovrò risvegliare in Lei: insomma se intende rivolgere contro la Sua stessa intimità l’amore implacabile della verità proprio del filosofo, sarò ben lieto di fare, per Lei, la parte dell’«Altro» in questo lavoro.

La risposta di Sigmund Freud a Heinrich Gomperz che, un mese dopo l’uscita de L’interpretazione dei sogni, scrive a Freud per dirgli che non riesce a interpretare i propri sogni seguendo il metodo del libro. In Sigmund Freud, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 203.

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In una straordinaria sintesi con pochi punti e molte virgole, Freud condensa la psicoanalisi in queste poche parole, in un momento [1899] in cui la psicoanalisi ancora non esisteva.

1. La psicoanalisi è una certa pratica filosofica: «l’amore implacabile della verità».
2. Il suo metodo è un’autoanalisi che sconvolge l’esistenza, risvegliando «effetti penosi». Insomma non è una spa. Se si è occupati da «lavori che non tollerano turbamenti e interruzioni» meglio lasciar perdere.
3. Infine l’analista non c’entra niente con tutto ciò, occupando «la parte dell’Altro in questo lavoro».

Il maestro assoluto

«Lei sta per distruggere ciò che pretende di fondare, si tratti di una scuola o di un patto di fede con i Suoi amici. 
Lei in realtà delinea soltanto la sua relazione di singolarità, di autoesclusione e di rigetto nei confronti di ogni istituzione collegiale. Nelle Sue requisitorie, Lei confonde strutture e istituzioni. La sola struttura in questione nel Suo atto di fondazione è quella che riguarda Lei più l’analisi più il seminario. Ma Lei ha escluso una quarta componente fondamentale: il riferimento all’avversità.
La difficoltà dei Suoi rapporti con ogni gruppo indipendente, soprattutto se è composto di veri amici, La riconduce sempre al principio del rapporto privilegiato, della fiducia personale che fonda il patto a due solamente sulla complice intesa contro qualsiasi terzo, Lei divide per non regnare mai. La Sua difficoltà a considerarsi riconosciuto, famoso e irrefutabile La porta a ripetere le operazioni di commando sullo stesso terreno di una vecchia guerra in fondo già vinta. Ci attendiamo da Lei un governo sereno, basato su una teoria già ampiamente articolata; e non più esercizi temerari da vecchio partigiano con la vocazione del desperado».

Lettera di François Perrier a Jacques Lacan, 12 gennaio 1965, sette mesi dopo la fondazione dell’École Freudienne de Paris, in Elizabeth RoudinescoJacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 344.

La risposta (in sintesi, sempre in Roudinesco) di Lacan, lo stesso giorno:
«Io non divido, né aspiro a regnare. O siete tutti con me, oppure restate insieme: tuttispero, ma senza di me».

Il piccolo Hans e l’amore

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«Un segno rappresenta qualcosa per qualcuno e, non sapendo che cosa il segno rappresenti, il soggetto, davanti a questo interrogativo, quando appare il desiderio sessuale, perde quel qualcuno a cui il desiderio si rivolge, vale a dire se stesso. E nasce l’angoscia del piccolo Hans.
La madre del piccolo Hans, come tutte le madri, precisa la sua posizione quando, a proposito di quel piccolo guizzo, di quel piccolo ma inequivocabile fremito al primo risveglio di una sessualità genitale che comincia a manifestarsi in Hans, dichiara: Sono cose da sporcaccioni! Il desiderio è ripugnante.
In un modo senza dubbio allusivo ma non ambiguo, quante madri, tutte le madri, davanti al pisellino di Hans o di qualcun altro faranno riflessioni del tipo: è ben dotato il piccolo! Oppure: avrai tanti bambini! Si instaura così una divisione tra quest’oggetto, da una parte, che diventa il marchio di un interesse privilegiato, che diventa agalma, e, dall’altra parte, uno svilimento del soggetto. Egli è apprezzato come oggetto, svalutato come desiderio.
L’amore è dare ciò che non si ha.
Che cos’è che non ha, e in che senso?
Qual è la dimensione nuova introdotta dall’ingresso [del soggetto] nel dramma fallico? Ciò che il bambino non ha, ciò di cui non può disporre in questo momento di nascita e di rivelazione del desiderio genitale, non è nient’altro che il suo atto. Tutto quello che ha è una cambiale sull’avvenire. Egli istituisce l’atto nel campo del progetto.
Vi prego qui di notare la forza delle determinazioni linguistiche. Come il desiderio ha preso, nella congiuntura delle lingue romanze, la connotazione di desiderium, di lutto e di rimpianto, non a caso le forme primitive del futuro sono state abbandonate per un riferimento all’avere. Io canterò è esattamente ciò che vedete scritto: io cantare ho. Che deriva effettivamente da cantare habeo. La lingua latina della decadenza ha trovato la via più sicura per recuperare il vero senso del futuro. Io scoperò più tardiio ho lo scopare nella forma di una cambiale sul futuroio desidererò. Ed è al futuro che questo debito si coniuga quando prende la forma del comandamento: onorerai tuo padre e tua madre ecc.».

Jacques LacanIl seminario, Il transfert, 1960-61, Einaudi Torino 2008, pp. 240-241.