Gli universali prima dei particolari: povere creature!

Yorgos Lanthimos ed Emma Stone

La potenza dell’emancipazione sta negli universali. L’autodeterminazione, la libertà culturale, l’uguaglianza, la redistribuzione, per dirne qualcuno, sono degli universali. Il comunismo (redistribuzione), il femminismo (libertà culturale, universale che contiene il sessuale), l’anarchismo (autodeterminazione), il socialismo (uguaglianza), sono i particolari di questi universali: ciascuno di questi particolari contiene quegli universali, altrimenti è farlocco, è fumo negli occhi, è edonismo, è liberismo. Gli universali, infine, sfumano tra i particolari: alcuni particolari contengono specifici universali, oppure li hanno solo per certi periodi.

La prima conseguenza di questo assetto cognitivo del politico è che qualsiasi lotta politica per essere efficace deve essere universale, cioè deve riguardare tutti, indistintamente, anche gli stronzi, anche i nemici, anche chi rema contro. “Universale” è una parola pesante, travalica l’individualità, la scamazza, l’individuo si sacrifica, politicamente, all’universale. O, per dirla in termini meno trascendenti, l’individuo conta molto poco dinanzi all’universale, nonostante sia l’unico su cui l’universalità può contare. L’universalità è la chiave per rendere un’istanza privata un’istanza collettiva, politica. Vuoi fare più soldi? Augurati che possano tutti fare più soldi. Non è sostenibile? Augurati un mondo in cui è sostenibile fare i soldi. “Sostenibile” è l’universale del particolare “soldi”, in questo caso.

Altri particolari sono l’edonismo, il liberismo, l’individualismo, il successo, il merito, la competizione, cioè la società universale in cui viviamo oggi. Sono particolari molto belli, utili per lo sport, la prostata e la libertà d’impresa ma per essere affermati vanno resi universali. Fanno bene alla salute? Sì, ma sono anche dei farmaci: curano e avvelenano allo stesso tempo, vanno usati con cautela e in determinati contesti. Abusarne rende disperati, affamati, infantili, immorali, bugiardi e narcisisti come chi abusa dei video di Tik Tok. I particolari presi a dosi massicce, pisciando sugli universali, ci rendono piccoli piccoli, tutti concentrati sui nostri bisogni. Dei piagnoni senza autonomia. Incapaci di autodeterminarci.

Povere creature di Yorgos Lanthimos parla di femminismo, parla della donna, del corpo, ma anche dell’autodeterminazione. Il fatto che il discorso sul film sia intriso dei primi tre termini particolari e non dell’unico universale, il quarto, vuol dire che la società in cui viviamo è orfana degli universali. Ce lo dice proprio il film e ce lo diciamo tra di noi, senza rendercene conto.

Godwin Baxter (Willem Dafoe), nonostante usi i corpi come oggetti, lascia che la creatura che ha generato possa autodeterminarsi, rischiando anche la vita, rischiando soprattutto la vita, per potersi autodeterminare. Bella (Emma Stone) è una donna e questa libertà, l’autodeterminazione, deve prima di tutto esercitarla tramite il femminismo, il mezzo della sua emancipazione. Poiché è una donna deve usare il suo corpo per emanciparsi, perché il corpo di una donna è sempre espropriato, e per riappropriarselo bisogna prima di tutto tradire e scopare.

Baxter, che maltratta i particolari, le persone, e che non sa cos’è il femminismo, è molto più femminista di chi si professa “femminista”, cioè di chi fa del femminismo una performance. Non bisogna essere educati con le persone, bisogna essere rispettosi con le persone, con tutti, anche con le donne, per quanto riguarda i maschi. Baxter ha un carattere di merda ma rispetta gli universali, e necessariamente allora rispetta anche i particolari, le persone che maltratta. Nessuno vorrebbe vivere con Baxter ma il suo comportamento è esemplare, nonostante molto spesso si comporti una merda.

Lascia stare il particolari, concentrati sull’universale. Non ti distrarre.

L’emancipazione femminile, così come la libertà sessuale, richiede una società egalitaria in cui esercitare la libertà di scopare o di essere donna, altrimenti è edonismo camuffato per libertà collettiva, dove “collettivo” è parente di voyeur: guardami mentre esercito la mia libertà. Il porno può essere un mezzo del femminismo ma di per sé è uno strumento utilizzabile da chiunque. Il sesso, che quando è guardato è porno, è un mezzo per l’emancipazione. Ma la libertà sessuale è un’altra cosa, è più ampia della sessualità femminile, la include, come il sesso rispetto al porno. La libertà sessuale presuppone una libertà più ampia, l’autodeterminazione universale, altrimenti è libertà concessa. La mia libertà dovrebbe essere garantita da una libertà più ampia delle mie capacità particolari di esercitare una certa libertà in cui riconoscermi, magari perché vivo in un contesto privilegiato.

Il punto focale è che il successo di qualsiasi politica di emancipazione, dal femminismo all’ambientalismo, richiede un universale: la realizzazione di un particolare ha un grosso dipende, l’universale. Le istanze particolari delle politiche emancipatorie dovrebbero farsi assorbire da un universale, e dovrebbero farsi assorbire con la stessa determinazione di Bella: spremere l’universale, usarlo come meglio si crede per ottenere quello che si vuole. Bella si autodetermina inizialmente perché, almeno in quella fase della vita, deve scoprire il sesso. Poi, tra una scopata e l’altra, prigioniera di Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), incontra altre due persone che la emancipano facendole scoprire la conoscenza, cioè la capacità di pensare in autonomia, e allora Bella fa un altro salto includendo un universale in un altro universale più ampio: l’autodeterminazione, concessa da Baxter, presuppone la capacità di pensare liberamente. Che tu sia Baxter o Duncan, uno stronzo o un pusillanime, potrai sempre far parte di un universale. C’è posto anche per te, se vuoi.

La storia del XXI secolo inizia con Get Back

Vorrei tanto parlarne con Alessandro Barbero.

Il modo in cui si fa storia, lo storicismo, non è sempre lo stesso, pur essendo rimasto nella sostanza sempre lo stesso. La filosofia della storia, le considerazioni sullo storicismo, ci dicono che ogni generazione percepisce la storia in un certo modo. La scrittura storica evolve, cambia.

Lo storicismo inizia con Tucidide ma è sulla fine dell’Ottocento, con Bloch e Dilthey, come Barbero ci spiega molto bene, che lo storicismo, il funzionamento della storia, diventano quello che sono oggi, cioè il modo in cui studiamo la storia a scuola. Si tratta di un certo modo di organizzare le fonti per narrare una storia fatta non soltanto di grandi personaggi ma anche di gente comune. All’ufficialità dei documenti regali si affiancano i diari, i resoconti dei tribunali, le vicissitudini della gente. Si crea un sottile equilibrio tra i fatti che sono accaduti e la loro narrazione. Non si tratta più di rincorrere l’autenticità, che è impossibile trattandosi di cose che non ci sono più, ma di avvicinarcisi il più possibile. Chi mantiene questo equilibrio è un buono storico e ci consegna narrazioni sufficientemente autentiche.

Ma che sia Tucidide od Hobsbawm, la fonte non è mai cambiata. È la biblioteca, i testi, i documenti. Nulla di più. Lo storicismo evolve, il modo in cui raccontiamo quello che è successo non è sempre uguale, riflette la cultura in cui avviene, ma si è sempre costruito sugli stessi identici materiali, i testi. Cambia l’approccio interpretativo, l’esegesi, ma non la fonte. Il susseguirsi delle generazioni non lascia che carta scritta. Lo storico lavora quasi esclusivamente sulla carta, da sempre, da cui estrae un racconto che renda verosimile una lettera morta. Di fatto, nessuno può raccontare veramente quello che è successo. Non esistono fatti ma solo interpretazioni è un aforisma per dire che è ingenuo pretendere l’autenticità oggettiva se la storia accade quando le soggettività si mettono in moto. Chi potrebbe? Neanche un testimone potrebbe essere sufficientemente autentico, perché è la sua visione parziale. L’unico modo per vivere l’autenticità del passato è tornare indietro nel tempo. La verità storica in assoluto, quindi, non esiste. Il passato è perduto per sempre. Finanche la nostra memoria, quella del nostro autentico passato, viene rimaneggiata dall’inconscio e ci allontana dai fatti accaduti. Quello che possiamo fare è recuperare dagli archivi quello che è possibile comprendere di quello che è accaduto, che sarà sempre parziale, da completare con il lavoro di interpretazione dello storico. Il lavoro dello storico è un sottilissimo equilibrio tra romanzo e fatto.

Nei primi del Novecento arriva prima la fotografia, poi l’audio e il video, e il discorso dello storico cambia. Sono generazioni che, manco ce ne accorgiamo, vediamo e sentiamo letteralmente i grandi personaggi storici. L’inizio della corsa alla Luna è un filmato di un discorso di Kennedy. Non si può dire lo stesso della propaganda di Lincoln e dei suoi leggendari comizi. Ci farà ancora più impressione domani tutto questo, o forse è oggi che ci fa impressione e domani sarà la consuetudine dello storico? Prima, vedere e sentire la storia era impossibile, si poteva soltanto leggerla. È un cambiamento profondo, costante, lento, inesorabile, del modo in cui percepiamo il passato. Non più solo testo ma anche immagini, suoni e visioni. Sono sconvolgimenti ermeneutici.

Con Get Back di Peter Jackson abbiamo uno dei primi esempi meglio costruiti di questo nuovo storicismo. È il lavoro più ricco e sistematizzato mai fatto di questa nuova fonte storica, l’audio-visivo. La sua straordinarietà non risiede semplicemente nell’essersi preso la briga di schiaffarci in faccia centinaia di ore di girato. Non è proprio quello che è successo. Questo siamo capaci di farlo tutti, di raccogliere cose e buttarle in mezzo. È quello che facciamo quando chattiamo e comunichiamo: ci schiaffiamo in faccia roba che condividiamo a catena, assumendo il ruolo di intermediari senza moderazione, senza filtro, investiti di contenuti che facciamo rimbalzare senza riflessione. Lo youtuberaggio è un sapiente lavoro di montatura di materiali ma è senza storicismo, perché non si preoccupa di narrare fatti ma di opinare ossessivamente sulle cose senza limitarsi a narrarle.

Di 200 e passa ore di girato Get Back ne estrae appena 8. È un lavoro storicistico, cioè di montaggio e selezione. Una novità che balza agli occhi nel primo episodio, quando Linda Eastman-McCartney scatta le foto al gruppo. Prima avevamo solo la foto di quei momenti, decine di foto di quei giorni di preparazione al concerto. Ora, quelle foto ci sono state contestualizzate nel momento in cui sono state scattate. Pensateci, è una cosa inaudita. Se prima avevamo lo scatto di quei momenti, moltiplicati sui giornali nei decenni successivi come fonte storica, ora abbiamo il momento in cui quella foto è stata scattata e cosa stava succedendo mentre c’era qualcuno che scattava quelle foto. Come l’immagine del monaco di Saigon in fiamme, di cui abbiamo anche il video di quel momento, che ci permette di guardare quella foto storica con maggiore profondità.

Peter Jackson ha diretto uno straordinario lavoro dei montatori. Non ha fatto il regista di Hollywood ma il professore di cattedra di un lavoro storico, e i montatori gli assistenti ricercatori bibliotecari. Non è la prima volta che succede una cosa del genere ma, sarà che sono i Beatles – che sono un canone, cioè un modello poco controverso, un classico, qualcosa di non opinabile, più facile da maneggiare di un personaggio politico, per esempio -, comunque sia, il livello di sistematizzazione storicistica raggiunto con questo documentario potrebbe non avere precedenti e rappresentare a sua volta un nuovo canone storicistico.

Joker favoleggia sulle cose serie. C’era una volta a…Hollywood le prende seriamente

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Margaret Qualley e Brad Pitt in una scena di “C’era na volta a…Hollywood (via)

Più di Joker, ho trovato che sia stato C’era una volta a…Hollywood il film che ha fatto i conti con più serietà con la nostra voglia di emancipazione. È facile celebrare la ribellione anarchica dal punto di vista degli ultimi (spoiler: fallisce sempre), più difficile è smontare l’immaginario che lo accompagna. Il cinema con l’immaginario ci fa i conti, li smonta e li rimonta, il fumetto li edifica.

Joker di Todd Phillips è una fan opera magistralmente recitata da un attore che ha portato nella violenta New York/Gotham City il suo schizofrenico Freddie Quell di The Master. Un film che accontenta le aspettative dello spettatore e non sorprende, non turba, non fa riflettere. Compiace come un fumetto di Frank Miller. Si regge su un solo attore, come Martin Eden di Pietro Marcello. È responsabile di un’apocalisse culturale, il Leone d’Oro (vedremo altri 40 film intimisti sui villains dei fumetti?). Indugia e dura più del dovuto, cita Durckheim in sociologia, Scorsese in Taxi driver e Re per una notte, Kubrick in Arancia Meccanica. Hanno tutti ragione. A un certo punto Arthur non gliela manda a dire a Murray, prima di spararlo, casomai non si fosse capito nell’ora e mezza precedente: se a un malato di mente appena al di sopra della soglia della povertà gli togli l’assistenza sanitaria questo acquista fiducia in se stesso e diventa un fichissimo criminale psicopatico.

Joker celebra l’impotenza della ribellione anarchica, la sua impossibilità. L’inattualità della ribellione, della protesta. La sua riduzione a performance estetica, a un’attività performativa. Joker è l’estremismo delle folk politics. Ti emancipa come una groupie di una band metallica. La ribellione come uno show. Come in La haine di Kassovitz, non resta che il vandalismo. La sollevazione di classe non esiste più, l’emancipazione è un’esperienza soggettiva fortuita che nulla trasforma di ciò che ci circonda. L’autorità vince sempre. Il Joker di Phillips è un serial-killer sociopatico senza empatia, leader politico a sua insaputa. In piedi, sopra l’automobile, osannato dalla folla, dopo essersi disegnato un sorriso di sangue sulle guance, finisce nella prigione psichiatrica di Arkham Asylum, da dove comanderà, in un epilogo che segue i solchi narrativi di The Killing Joke (Moore) e Arkham Asylum: A Serious House on Serious Earth (Morrison). Phillips ha studiato bene. È ruffiano nell’accarezzare quell’irresistibile voglia della società moderna repressa di sfasciare tutto come un ragazzino. Nell’accarezzare l’idea di ribellione come fosse un capriccio. Joker è il solipsismo dei drughi (droogs). Nella società moderna, più povera di ieri e più ricca di costose tecnologie, non resta che la farsa della protesta. Magari Batman metterà a posto le cose.

Esci dal cinema compiaciuto di come hai assistito alla messa in scena della fragilità del patto sociale. Quando i pazzi sono lasciati a sé stessi, e dagli ospedali sconfinano nelle strade, distruggono in un attimo tutto ciò che è stato accuratamente protetto e immunizzato, rivelando un’immensa precarietà. Foucault aveva ragione, la segregazione dei pazzi ha fatto sparire i giullari, gli scemi del villaggio, permettendo di istituzionalizzare la coercizione e liberalizzando l’autorità. La società è tappata, non sfiata. Ma dobbiamo stare al sicuro, i normali da una parte, gli a-normali dall’altra, salvo ridefinirli a ogni nuova generazione. Roba da diventar matti. Phillips, seguendo la strada tracciata da Moore e Morrison, ci racconta la vita di chi non farà mai parte della nostra opulenta e schizofrenica società del benessere precario. Gente invisibile, irrappresentabile, presentabile solo come una smorfia, un giullare sadico. E una volta palesata, per piacere fuori dai coglioni.

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Joaquim Phoenix e Zazie Beetz (via)

V for Vendetta è la ribellione terrorista pensata per distruggere una società fascista dalle fondamenta, con l’incognita (tipica degli ultimi 200 anni di storia degli Stati nazione) di cosa costruire dopo. Joker è la festa per una ribellione senza fiducia verso una società che non ti vede.

Tarantino, forse meglio di Phillips, ha fatto i conti con l’immaginario emancipante della società. Once upon a time…in Hollywood mette sul piatto tre cose: la gioia della recitazione, la libertà dell’hippie, la crescita economica trainata dall’industria dell’intrattenimento. E le smonta. Tre cose che una volta osservate con attenzione si rivelano ben più complesse dei giudizi stereotipici con cui vengono edulcorati. Già nel 1969 gli attori avevano il catarro e il fegato malandato, una professionalità precaria, una personalità fragile, zero valori familiari; il libertinismo della summer of love è stato per definizione storica la celebrazione dell’edonismo, più vicina a un Lorenzo De Medici e un Marchese De Sade che a un Martin Luther King; infine l’entertainment, il populismo che ti entra nel cervello e ti infetta la visione del mondo. Come raccontare questo orrore?, come una favola, c’era una volta. Sono cose troppo serie da permettersi di raffigurarle per quello che sono. Ma soprattutto sono cose che non vogliamo vedere per quello che sono. Il cinema arriva e ti fa fesso. Tarantino smaschera le favole mentre Phillips favoleggia sulle cose serie. Un personaggio monodimensionale in Philips, che si staglia con un tratto di china, fulmineo, devastante; tanti monodimensionali che rosicchiano le tue certezze culturali glorificandole, con Tarantino. Questo emoziona meno e fa ridere di più, quello è molto serio nell’edulcorare la vittima in una commedia dell’arte. Sotto questo punto di vista Tarantino, notoriamente conservatore (della cultura cinematografica) e per questo gran conoscitore del nostro immaginario, fa un film retromaniaco ma più progressista del Phillips che ti racconta la paralisi di questo nostro presente senza futuro.

La terribile verità del sogno americano viene svelata ad agosto del ‘69 ma ci rifiutiamo ancora oggi di dichiararlo morto, come un comico nevrotico mandiamo avanti il nostro sogno irrealizzabile. L’hippie è figlio della società dei consumi, è ribellione della classe media, emancipazione individualista, ascetismo urbano. L’attore è un lavoratore di teatro iperproduttivo, baciato dalla proporzione delle forme, con un senso dell’arte frammentato nei ciak. C’era una volta a…Hollywood celebra con larghi sorrisi senza edulcorare, senza celebrare il massacro di Cielo Drive, senza accontentare il nostro voyeurismo. Un buon film è una buona seduta di terapia e non accontenta i tuoi desideri. Più efficace è raccontare la quotidianità di un’attrice di seconda categoria, così da provare empatia e comprendere, ancora di più di quanto sarebbe stato possibile in una scena gore, la cosa immonda che l’è successa. Così le si rende giustizia.

Ora, la domanda è: dov’è più facile, immedesimarsi in questa mamma sessantottina, una bella attrice sposata con un ricco regista, o in un malato di mente sociopatico?

Alex Honnold, asceta con poche cose da dire

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Free Solo è un documentario del 2018 diretto dagli statunitensi Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi, coppia nel lavoro e nella vita. Lei è una documentarista, lui un climber professionista che ha scalato montagne in Pakistan, Tibet, più volte l’Everest. Prima di Free Solo, insieme hanno realizzato Meru (2015), la storia della scalata di Chai del monte Meru, ostica montagna dell’Himalaya indiana con picchi da oltre 6 mila metri.

Free Solo (Oscar 2019 per il miglior documentario) racconta la storia dell’arrampicata di El Capitan, montagna di 2,307 metri del parco nazionale di Yosemite, in California, da parte dello scalatore di Sacramento Alex Honnold, nel giugno 2017. Una scalata unica nel suo genere perché realizzata in free solo, senza alcuna assicurazione, ovvero corde, imbragature e qualsiasi altra protezione. Honnold ha affrontato un big wall, la scalata di una parete molto alta, che può richiedere anche giorni – ma con imbracature, caschi, cibo, tende e quant’altro. Il grado di difficoltà della parete scalata da Honnold è classificato come 5.12d VI, ovvero richiede un livello massimo dei requisiti tecnici (la casse 5 è la più alta) e un tempo di ascesa di più giorni (VI). Honnold è asceso per quasi mille metri, quindi partendo circa a metà montagna, in 3 ore e 56 minuti senza neanche una borraccia, solo con i vestiti, le scarpe e una sacca di magnesio.

Per realizzare il documentario sono state affrontate sfide non da poco: come non distrarre Honnold, rischiando di farlo cadere; come registrare i suoni di un’arrampicata a decine di metri di distanza, cosa che ha richiesto il coinvolgimento di un tecnico del suono, Jim Hurst (No Man’s Land).

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«Nel corso della storia, eravamo ossessionati dalla possibilità che la nostra presenza, ogni volta che accendevamo le telecamere, potesse metterlo in pericolo», racconta Vasarhelyi. «Il giorno della scalata ogni singola persona sapeva esattamente quali riprese avrebbero dovuto ottenere», racconta Chin, «quanto saremmo dovuti stare lontani l’un l’altro, come ci saremmo mossi, quando ci sarebbero state le riprese più importanti e quando ci potevamo riposare. Era molto chirurgico».

Free solo è un racconto su un’arrampicata straordinaria, incomparabile, irripetibile, e anche una storia su come riprendere un’arrampicata di questa portata.

Segue il resoconto di una chiacchierata su whatsapp tra Giuseppe Sasso, avvocato e atleta amatoriale, e Paolo Bosso, giornalista autore di questo blog. Abbiamo riflettuto sul significato dell’impresa di Honnold, su cosa possa insegnarci questo gesto straordinario. I suoi limiti, i suoi pregi.

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Vasarhelyi e Chin sul set di Free Solo (National Geographic/Chris Figens)

Giuseppe «Free solo non mi ha convinto. Partendo dal presupposto che si tratta di una grande impresa, e rappresenta un grande gesto atletico, ci sono delle cose che non mi hanno convinto. Innanzitutto Alex Honnold è poco comunicativo, non mi piace, le sfaccettature della sua personalità sono carenti, è un animale: affettivamente arido. Il problema di fondo è che questa grande impresa sportiva non è frutto di un ragionamento, di un sistema organizzato, non si basa tanto sulla forza di volontà del soggetto quanto sulla sua incoscienza. Folli come lui, al mondo, non ce ne sono, Honnold è ineguagliabile. Di conseguenza non c’è tenzone, competizione, nessuno vorrà fare quello che ha fatto lui perché nessuno farebbe un’impresa in cui un solo errore ti costa la vita. È il rovescio dell’impresa delle Coxless Crew, l’equipaggio di quattro donne che ha attraversato a remi il Pacifico (nel documentario Losing sight of shore, ndr). Non erano atlete professioniste, sono partite due volte, una ha mollato, sono state tenaci e ce l’hanno fatta. Al contrario, l’impresa di Honnold mi dice che solo un pazzo può accettare una sfida in cui non sono ammessi errori».

Paolo «È un discorso politico quello che fai: quale valore sociale, universale, può avere l’impresa di Honnold? Per lo spettatore è frustrante vedere quello che fa, nessuno lo potrà emulare, non c’è una comunità che può riconoscersi in un gesto del genere. Proviamo però a salvare qualcosa di quest’opera, qualcosa di criticabile ma comunque esemplare. Credo che stia nel suo valore estetico. Quello che fa appare sovraumano. Da un lato è inarrivabile – e qui giustamente ti chiedi cosa c’è di sano, di etico, in un’impresa del genere -, dall’altro però si tratta sempre di un atleta, quindi quello che fa gli riesce perché si allena. Allenamento che consiste nel trovare la concentrazione. Ti invito a riflettere su questo: lui è la dimostrazione di come con la concentrazione, quindi arrivando a conoscere il proprio stato mentale, si possano fare cose incredibili. Il prezzo da pagare, però, è la rinuncia al mondo: Honnold è incapace di fare qualsiasi cosa che non sia arrampicarsi. Lavorare sulla concentrazione è lavorare sull’isolamento. Il primo tentativo di scalata in free solo di El Capitan è una rinuncia, a un certo punto torna indietro, capisce che non è nello stato mentale per continuare, non è concentrato come lui sa che dovrebbe essere. Questa è una capacità notevole, e forse è l’elemento da salvare, la cosa esemplare: la grande capacità di concentrazione, di focalizzazione. Chiamiamola anche determinazione. Honnold sembra avere una qualità metafisica, estremamente individuale, che fatica ad adattarsi alla società. Si stacca da terra».

G «E bastava che un’ape gli entrasse nella manica per farlo cadere. Le grandi imprese devono farci sognare, ma devono anche essere solide, avere una base reale, come la preparazione a una gara. Qui si parla di un’impresa sportiva fine a sé stessa. Immagino che nel mondo dell’arrampicata libera ci siano tanti atleti bravi come Honnold ma non tanto pazzi da spingersi a fare una cosa del genere. Il gesto tecnico-atletico passa in secondo piano, sembra più determinante il coraggio di mettere in gioco la propria vita, in altre parole di non farsi pesare questa possibilità. Io non credo che gli scalatori del suo livello abbiano questo grado di incoscienza. Ci sarà gente più allenata e più forte di lui ma senza sindrome di Asperger, senza un’amigdala a bassa reattività, quindi incapaci di gestire un free solo di questa portata. L’incoscienza di Honnold, la scalata di El Capitan, non dà valore alla vita, e questo è sportivamente mortificante, non mi piace. Non posso qualificarla come una grande impresa atletica alla pari del record dei cento metri o del giro del mondo a piedi».

P «Facciamo qualche esempio di impresa sportiva estrema ma esemplare»

G «Quella di Felix Baumgartner. Ha rischiato la vita ma ha messo in moto un’equipe di medici e ingegneri che hanno studiato le reazioni del corpo a quelle altitudini e velocità e vestito un uomo di 43 anni che si è lanciato a quasi 40 chilometri di altezza raggiungendo una velocità di punta superiore a quella del suono. È stato una specie di cavia. Le maratone coast to coast statunitensi, le imprese di Lucio Bazzana, mostrano come il corpo non sia fatto per correre decine di chilometri al giorno. In tutti questi esempi si sperimentano limiti a vantaggio tanto della scienza che del fascino dell’impresa in sé, che diventa invitante. Il fascino dell’impresa di Honnold sta nel fatto che può morire, tutto qui. Non c’è calcolo del rischio, non ci sono piani B. Dal punto di vista atletico, del contributo tecnico all’arrampicata in sé, non fa niente di diverso da chi scalerebbe con la corda. Honnold si allena duramente, ma come per raggiungere il grado di perfezione richiesto per scalare in free solo per mille metri? In palestra, o scalando, ma con la corda, decine e decine di volte».

P «Chris Sharma, come racconta il documentario King Lines, ha girato il mondo per trovare la forma fisica e allenare la tecnica che gli ha permesso di arrampicarsi su un arco naturale in mezzo al mare. La sua impresa è uno step per l’arrampicata, un’invenzione, una cosa replicabile in altri contesti. Peter Croft, quando Honnold gli dice cosa sta per provare a fare, gli risponde che lui il free solo lo pratica, appunto, da solo, e senza dirlo a nessuno. Per due motivi: perché è la soddisfazione di un desiderio non condivisibile, una cosa intima, e poi perché non vuole far sentire in colpa nessuno dovesse cadere. Forse ho capito cosa non ci è piaciuto di Free solo: è dissacrante, mette il naso dove non dovrebbe».

G «Il primo tentativo di Honnold fallisce, guarda caso, quando sente la pressione della troupe che lo riprende. È naturale, ma mi ha mostrato anche il lato artificioso dell’impresa: quanto influisce lo sponsor, i diritti, sull’impresa? Se non c’è un effettivo contributo atletico all’arrampicata, perché si fa riprendere mentre lo fa?».

P «Diciamolo anche in termini filosofici. Manca in questa impresa l’elemento ordinario. Le grandi imprese devono far sognare, ma cos’è che ci fa sognare? Lo straordinario nell’ordinario. La trascendenza nella natura. Una spedizione scientifica che diventa un incontro ravvicinato con la morte, come sono state quelle alla scoperta dell’ultimo continente da scoprire, l’Antartide. All’inizio del Novecento la gente entrava in competizione per raggiungere il Polo Nord e il Polo Sud. Erano solo pazzi? No, ci hanno anche permesso, con le loro imprese, di conoscere l’ultimo continente rimasto, un’impresa immensa per impatto storico, culturale, tecnologico, sociale. Ci hanno lasciato un’eredità. Le imprese di Sharma, Baumgartner, Bazzana incuriosiscono scienziati e gente comune, arricchiscono la consapevolezza del mondo. Qualcosa di ordinario, una spedizione, una corsa, che incontra lo straordinario, un continente alieno».

G «Un corpo che si ribella all’allenamento».

P «È questo miscuglio di alto e basso, di ordinario e straordinario, che rende queste imprese esemplari. Un esperimento sulla muffa diventa la scoperta della penicillina. Cosa c’è di ordinario in quello che fa Honnold? Il padre aveva la sindrome di Asperger e, a giudicare dalle cose viste nel documentario, potrebbe tranquillamente essere anche lui un autistico “ad alto funzionamento”, cosa che spiegherebbe facilmente la sua altissima capacità di concentrazione. Detta così, anche quello che avevo salvato all’inizio si allontana, essendo qualcosa con cui non mi posso più misurare. Studio la chitarra e un tale controllo dello stato mentale farebbe comodo: ci riuscirei senza un po’ di Asperger? Il sacrificio di Honnold è ascetico e questo non è giusto, non è esemplare perché ogni volta che mi ci misuro fallisco. La sua impresa è sublime, kantianamente parlando: l’intelletto fatica a seguire l’immaginazione, la ragione viene in soccorso grazie all’idea che, diversamente dal concetto, riesce a comprendere le cose al di là di qualsiasi esperienza. L’impresa di Honnold, non essendo replicabile, mette in scena le virtù di una concentrazione per pochi eletti».

Bandersnatch – sei libero di cambiare qualcosa di questo mondo?

Black Mirror Bandersnatch

William Jack Poulter in una scena di Bandersnatch

Non è che non c’è libero arbitrio perché ‘scelgono altri’ per te, questo piacerebbe a Di Maio e Salvini. La conseguenza logica del postulato le mie scelte sono scelte di altri è una regressione infinita, orgasmo complottistico: anche questi altri – se le mie scelte sono scelte di altri – non stanno in realtà scegliendo autonomamente per te perché c’è necessariamente qualcuno, prima di loro, che sceglie per loro quello che deve essere scelto per te, se si è detto che la propria scelta è la scelta di un altro. In realtà la regressione non è infinita perché se quello che comanda è comandato, sempre, vuol dire che a comandare è un’ideologia assoluta.

Se poi questa eteronomia è solo propria, cioè sono solo le proprie scelte ad essere scelte di altri o da altri, mi dispiace molto.

Le nostre azioni sono determinate dalla Legge della Casualità sin dal big bang, ciò non toglie che siamo liberi come surfisti che surfano su onde che non creano dal nulla.

La questione del libero arbitrio nasce quando a un certo punto l’uomo, quando credeva in dio, chiedendosi se dio gli lasciasse fare qualsiasi, ma proprio qualsiasi cosa oppure no, si domandava che tipo di creatore fosse quello che lascia del tutto libere le sue creature. Si chiedeva anche, a quel punto, quale creatore se la spasserebbe a guardare un orologio, creature che annaspano senza volontà, un po’ come oggi ci si chiede quale spasso ci sia nel ridurre la mente e il pensiero all’attività di un calcolatore. La conclusione a cui arrivarono filosofia e religione fu che non si è liberi di fare qualsiasi cosa, perché a dio non piacerebbe un’onnipotenza liberalizzata, ma si è altresì liberi di fare quello che si vuole e che poi sono cazzi tuoi perché ormai sei grande.

Ma di quale scelta si tratta quando si riflette sulla libertà di scelta? La scelta di un cereale o la scelta tra il capitalismo e un’altra organizzazione economica della società? Esiste una scelta di questo tipo?

Sono libero di sacrificare parte del mio tempo libero per partecipare alla comunità in cui vivo. Ma ne ho voglia? Qualche volta sarebbe giusto fare qualcosa di illegale per il bene della comunità? E non sarebbe meglio invece fare soldi?

In conclusione, l’ipotesi di una libertà di scelta in senso assoluto non si può che escludere, perché non siamo liberi di lasciare la terra e volare leggeri sopra l’universo. Resta insoluta la questione politica: cosa farsene del libero arbitrio.

Nonostante si sia liberi di fare quello che si vuole, questa realtà fa schifo. Pare brutto dirlo perché è sputare nel piatto in cui si mangia, lamentarsi della famiglia che si frequenta. Se non ti piace, non lo mangiare, vattene. Ma te ne puoi andare se non hai un altro posto dove andare? La retromania ti insegna che la realtà fa schifo non perché sia un’illusione, fa semplicemente più schifo di quella che ci si immaginava quando si immaginava come sarebbe stata.

This dick ain’t free

In tempi di stepchild, qualunque sia il tuo ruolo la cosa importante è non confondere i generi, che restano due.

Il rap, generalmente, ha bisogno di una base stabile, monotona, per rappare, perché improvvisa. È una regola di simmetria. Se anche la base improvvisasse ne uscirebbe un brano difficile da digerire per le orecchie, poco gradevole, scombussolante.

In For free succede proprio questo. Kendrick Lamar rappa su una base sregolata e improvvisata. Perché?

Perché c’è un’inversione di ruoli, o meglio l’inversione di un ruolo. C’è una donna che manda a quel paese il suo uomo. Fottiti stronzo, non chiamarmi più. Allora lui che fa, non reagisce come un uomo ma come una donna. Ah, sì? Questo cazzo non è gratis bella. Ho bisogno di quaranta acri e un mulo, non di quaranta briciole e un pitbull del cazzo. Genital’s best friend, this dick ain’t free. Now my dick ain’t free.

La cosa è spiazzante. Lei ci resta di stucco e lui non può che recitarla effeminata questa parte. Srotola un elenco di fatti di cui è stufo, lui povero negro con aspirazioni emancipatorie, come tutti i negri, che ha le palle piene di soddisfare il desiderio di libertà come fosse un capriccio femminile. Parole su una base musicale a cascata e apparentemente caotica come solo il jazz sa fare. Parole però sulla bocca del genere sbagliato quando dall’altro lato c’è lo stesso genere. Now my dick ain’t free.

È una questione di simmetria. Che sia donna o uomo chi parla, si deve avere la possibilità di speculare: dall’altra parte ci deve essere l’altro genere, che sia donna o uomo.

Di fronte a questa violazione della simmetria, lei, dopo tutta sta tiritera isterica, ristabilisce in una frase l’ordine delle cose, sentenziando chiaro e tondo che solo lei ha il potere della fessa, non esiste il potere del cazzo. L’uomo non ha niente da negoziare, solo da offrire:

Ora ti faccio fottere da Zio Sam bello, tu non hai alcun re.

Iñárritu e la suggestione della Frontiera

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Un secolo dopo gli eventi, il Milwaukee Journal pubblica un articolo sulle gesta di Glass (via)

La vendetta è come il senso di colpa: persiste. Non è vero che è una cosa che deve diventare fredda, è sempre stata fredda. Non va servita, non si può servire, non c’è niente da servire. Niente colmerà il vuoto, niente ripara. Non c’è debito da onorare, c’è soltanto il debito.

Fitzgerald è chiaro: niente riporterà indietro il figlio di Hugh Glass come niente cancellerà l’espropriazione dei nativi e il loro sterminio. Non c’è vendetta, c’è solo quel cumulo di ossa che sogna Glass. Non c’è niente da guardare, solo orrore, niente che si possa riparare. Si tratta di torti che sono successi, che non possono più andare diversamente, sono già successi. Non c’è vendetta, anche quando è compiuta: persisterà sempre il fatto che sarebbe potuta andare diversamente.

[Da qui la sana pratica dell’oblio. La rinuncia alla vendetta, al persistente e infestante morto vivente, comporta il perdono, ma non nei termini dell’opportunistico perdoniamoci, piuttosto è soltanto una delle parti che perdona, e bisogna sperare che lo faccia].

Iñárritu è l’entusiasmo per il cinema. Ti entusiasma per il cinema. Un entusiasmo che, come mi hanno fatto notare, è il suo punto debole.

Il cinema è Frontiera. Per quanto sia nata in Europa, per quanto si possa fare cinema anche con le storie del Vecchio continente, è nel Nuovo che accade la magia di un’immagine movimento che si fa arte. Forse sto esagerando, ma alla fine cos’è che emoziona di più su grande schermo dell’evocazione mistica dell’alterità coloniale? «Proprio perché fa così tanto per il cinema – mi spiega un amico – Iñárritu potrebbe fare di più, anzi dovrebbe fare di meno. Non mettere in mezzo una moglie e un figlio. Meno giustapposizioni di storie e più racconti per immagini. Cuarón, un altro messicano, fa la stessa cosa in Gravity piazzando l’ironia di Clooney e la voglia di tornare dalla famiglia. Tutti abbiamo una famiglia. L’astronauta ha la terra sotto di lei, su cui cerca disperatamente di rimetterci i piedi, perché banalizzare la cosa con la famiglia?».

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Al posto del figlio, Iñárritu avrebbe dovuto mettere in scena l’Anstadt del trapper. «Quel fucile – scrive Punke – era l’unico lusso che si fosse mai concesso e, quando strofinava il grasso nel sensibile meccanismo a molla del grilletto, lo faceva con la tenera premura che altri uomini avrebbero riservato a una moglie o a un figlio». Il discorso è chiaro: il fucile sta a Glass come un figlio a un padre. La questione dei nativi sarebbe stata più autentica se fosse stata presentata così, con questo fucile-figlio piuttosto che con un figlio meticcio di madre Pawnee che, seppur verosimile, appare inverosimile per un cacciatore che vive di rivendita all’ingrosso di pellicce. Iñárritu sottovaluta lo spettatore e vuole essere proprio sicuro che abbiamo capito cosa rappresenta lo straordinario ritorno di Glass, il bianco che ha strisciato, zoppicato, camminato e rincorso i suoi creditori senza riuscire alla fine a essere ripagato, come nella maggior parte delle vendette. Una storia con protagonista la natura, i trapper, i coloni e i selvaggi piuttosto che il confortevole binomio natura-cultura/famiglia tanto caro a Hollywood.

Ci sarebbe quindi poco spazio per la Frontiera in Revenant. Iñárritu non mostrerebbe Frontiera ma solo le virtù del cinema. Revenant starebbe a Barry Lyndon come Interstellar 2001:Odissea nello spazio: a differenza del maestro, non si mettono in scena le suggestioni ma si suggestiona soltanto.

Questa non è una pizza

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Nella sua ultima pubblicità Pizza Hut fa assaggiare le sue nuove pizze a dei vecchietti di Sorrento i quali, ovviamente, non apprezzano.

Eccola qui l’essenza del capitalismo: la qualità del prodotto non ha assolutamente importanza (la pizza giudicata non-pizza da chi la pizza l’ha creata), ciò che conta è che si produca il prodotto. La produzione prima della cosa da produrre, con la conseguenza che le cose sono senza contenuto, cosalità, brocche senza acqua, basta che siano prodotte e che qualcuno le compri. Folle catena che per essere giustificata deve essere costantemente rinnovata come le nuove pizze che giustificano questo spot. Tzè, questi anziani prigionieri del passato e dei loro stereotipi, largo alla nuovissima pizza di una catena di fast-food che produce lo stereotipo della pizza.

Così Pizza Hut è ironica (parliamoci chiaro, la nostra pizza non è un granché visto che quelli che ne capiscono non l’apprezzano) e nello stesso tempo autorevole: the tradition is king, change is bad si sente all’inizio dello spot. Ok, facciamo una pizza di merda ma, hey, diamoci un taglio con queste lamentele da vecchio, largo all’innovazione della pizza non-pizza subito pronta e poco costosa.

Quale pazzo si opporrebbe al mantra del cambiamento? Sì, ok, non c’entra con la pizza ma non deconcentrarti, lo spot si chiama the old world…capito dove voglio arrivare? Lo so, non c’è logica, fa nulla, mangia.

The old world sono i prodotti della terra, quelli di cui si nutrivano i nostri nonni e tutte le generazioni precedenti, insomma il cibo che si è mangiato negli ultimi undicimila anni e che oggi costa più di quello industriale e si chiama bio. Anzi, a esser più precisi è il cibo normale, quello semplicemente coltivato, ad esser diventato anch’esso industriale, un prodotto, una cosa svuotata e incatenata in un sistema di produzione e distribuzione. The old world è zappare, the new world is bio (la domanda del comunista è: chi sta zappando?).

Eccolo qui il capitalismo, che trasforma tutto in produzione, anche quello che non ha bisogno di essere prodotto, confezionato e distribuito. Eccolo qui il desiderio mortale dell’uomo che con la tecnica di produzione del capitalismo ottiene il luogo dove portare la tecnica alla sua essenzaprodurre natura. È la ragione per cui il capitalismo sta distruggendo il pianeta: per produrre nuova natura devi rinunciare a quella vecchia. Non vorrai opporti a tutto questo e fare la figura di un vecchiardo paternalista retrogrado come questi teneri nonni di Sorrento? The tradition is king, change is bad.

Lo so, è solo lo spot di una pizza, non esageriamo. E se vogliamo dirla tutta, la pizza di Pizza Hut is good, come sentenzia il vecchietto alla fine. Per poi precisare, dopo esser stato rimbeccato dalla moglie, but is not pizza.

Interstellar

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«Il problema principale di Interstellar è che non ci sono incognite. Tutto in quel film si sforza di dare senso alle cose. Tutto deve avere un perché». Una chiacchierata con Andrea, amico regista, mi aiuta a diradare le perplessità sull’ultimo film di Christopher Nolan.

Sono un fan di Nolan e nonostante Interstellar ci resto. Se vogliamo dirla tutta, nonostante The Prestige Inception. Insomma, sono fan di Nolan per eterna gratitudine per come ha raccontato Batman, i suoi più bei film, non a caso su un soggetto non suo. In altre parole, sono un fan di Nolan nonostante Nolan.

La delusione di Interstellar è la delusione per l’occasione persa di fare un grande film sull’esplorazione spaziale, sulla smisurata solitudine dell’umanità, sull’assordante silenzio indifferente piuttosto che maligno dell’universo. Due scene su tutte: quando Amelia Brand/Hathaway si confronta con Cooper/McConaughey sul problema del male nella natura e quando Romilly/Gyasi esprime la sua solitudine nell’angoscioso centimetro di lamiera che lo separa dalla morte. Potevi soffermarti su questi momenti Nolan, raccontarmi le sensazioni che prova un astronauta di fronte alla sublime bellezza del cosmo.

Ok, Kubrick ha già fatto tutto questo, però era carino rifarlo con sto ben di dio di computer grafica che abbiamo oggi. Il problema di Interstellar, come ha ben sintetizzato Andrea, è la sua volontà di voler spiegare, col risultato, come in qualunque situazione in cui ci sia questa ossessione per lo “spiegone”, di creare buchi narrativi e banalità. «Duel – racconta Andrea – è un bellissimo film che parla di un uomo inseguito da un camion di cui non si sa nulla: né chi sia né perché lo insegue. Il cinema è fondamentalmente tutto questo». Dello spiegone non ce ne frega una mazza.

Il bellissimo buco nero di Gargantua (il cui nome viene da un buco nero immaginario raccontato nel primo capitolo dell’unico libro di Kip Thorne finora tradotto in italianoè un oggetto molto semplice, tra i più semplici dell’universo. Poiché tutto quello che possiamo sapere su di lui si ferma alla superficie, oltre la quale nessuna informazione può fuoriuscire, ci è sufficiente conoscerne, spiega il fisico statunitense, massa, carica elettrica e momento angolare per sapere cosa abbiamo di fronte.

Il buco nero è la metafora della scienza, conoscenza organizzata che mai potrà spiegarti tutto, perché fondamentalmente all’uomo di sapere tutto non gli interessa. Il buco nero è l’oggetto la cui spiegazione si paga al caro prezzo di trasformare la scienza in deismo, sovvertendo la fisica classica con fantasmagoriche teorie del tutto. È la scienza che se soppianta la religione si vede ritornare trascendenza a gogo.

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La scienza non deve soppiantare la religione. Non c’è niente da soppiantare, perché ci sarà sempre una trascendenza connaturata alla conoscenza, la trascendenza è connaturata alla conoscenza. Una lezione che ci ha curiosamente insegnato un uomo dedito alla scienza, o meglio alla divulgazione scientifica, quindi alla sua spiegazione: Carl Sagan. A dimostrazione che la buona scienza, quella al servizio della conoscenza e non della tecnica produttivo-economica, non è niente di più che un sapere ben fondato. 

Un film che insieme a 2001 odissea nello spazio ci insegna questa impossibilità per la conoscenza stessa di sapersi completa, dell’impossibilità della scienza di rivelarci il tutto del sapere, che non è altro che quello che facciamo da millenni col misticismo religioso, è Contact di Robert Zemeckis, la storia di una scienziata che viaggia in un ponte di einsten-rosen, un wormhole, senza essere creduta.

La metafora dell’esploratore, di colui che esplorando non smette di muoversi, che fa del viaggio più che della meta il vero oggetto della scoperta, perde di consistenza nell’universo. L’esploratore spaziale non è niente di romantico, abolisce velocità, tempo e spazio per coprire distanze incommensurabili. Per essere esploratore e mantenersi allo stesso tempo umano, per muoversi tra sistemi solari, galassie e ammassi di galassie senza invecchiare troppo, in realtà non deve muoversi affatto: salta tra un wormhole e l’altro, va da un punto A a un punto B senza percorrere lo spazio per arrivarci.

Ciò che resta è la potenza sublime dell’universo, la magnificenza di Gargantua, l’incommensurabilità del cosmo di fronte alla piccolezza dell’uomo il quale, nonostante questo, grazie alla ragione bastarda che mortifica l’intelletto a fare più di quel che può, riesce a mantenersi di fronte a tutto ciò senza crollare. Una sfida alla natura che più che di hýbris (ὕβϱις) gradassa sa di puro piacere estetico, che è la cosa più bella e moralmente più alta che si possa immaginare. Tutto questo il cinema lo racconta molto bene.

Il cinema di fantascienza, come la ragione che si misura con la potenza sublime, ti mostra quell’insufficienza dell’uomo di fronte alla grandezza della natura che non è che lo spazio nel quale si compie il balzo per ammirarla. Potevi raccontarmi tutto questo Nolan, con riprese di dieci minuti sullo splendido disco di accrescimento di Gargantua e sui ridicoli pianetini che ci girano attorno. Hai perso l’occasione di fare un altro 2011: odissea nello spazio con un buco nero supermassiccio da milioni di masse solari al posto del monolite nero.

Il cinema sta violentando la tv

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Nella letteratura giornalistica più recente c’è un certo parlare di una presunta “maturità” raggiunta dalla tv con le serie tv, a scapito del cinema. Lo spartiacque è stato I Sopranos checon quella narrazione profondamente dickensiana ha fatto capire al mondo che per incollare la gente allo schermo bisogna raccontare le persone più che la natura, la palude dell’inconscio sociale più che l’ariosa socialità pubblica.

«Lavoriamo su un modello che ci permette di fare quello che hanno fatto benissimo i romanzi: raccontare storie lunghe, con dei personaggi solidi e una parabola drammatica. Dickens sapeva farlo bene. Siamo tornati a quello stile».

Elwood Reid, in L’età dell’oro dei teleromanzi, Internazionale 3/9 ottobre 2014, n. 1071, p. 95.

C’è un errore di fondo nel porre la questione nei termini di un confronto tra cinema e tv. Si tende a considerare il fenomeno della “maturità” delle serie tv come una sorta di “vittoria” della tv sul cinema, quando invece è tutto il contrario. È un errore che tendono a fare gli americani, che da imperialisti sono aridi di storia, ed è un errore che tende a fare anche il giornalismo letterario italiano che sbava dietro le produzioni statunitensi. Esemplare è il bell’articolo di Mattia Carzanica su Studio che, pur avanzando il sospetto che la tv se la stia tirando un po’ troppo, non procede oltre questa intuizione (che lo porterebbe a scoprire quello che chiarirò più avanti) e si limita ad affermare superficialmente «la definitiva supremazia della televisione sul cinema».

Osserva giustamente James Wolcott su Vanity Fair: «La tv, inizialmente derisa come una scatola idiota […] è creativamente maturata e si è fatta le ossa», ma poi si precipita a concludere che la scatoletta ha messo «il cinema al tappeto della cultura popolare […]». È vero, continua Wolcott, che le serie tv «hanno trasfigurato gli spettatori e trasformato i critici in evangelici. Per profondità e dinamiche psicologiche dei personaggi, svolte narrative ingegnose, sequenze che lasciano a bocca aperta» ma da qui a sentenziare che «la tv ha superato i film, lasciandoli a giocare coi loro robottoni» è un’ingenuità bella e buona. La scatola idiota erano i telequiz. Mike Bongiorno e Tony Soprano raccontano nella stessa scatola due cose molto diverse.

La glorificazione della tv dopo appena quindici anni di splendide serie tv è manifesta insicurezza della tv stessa, senza dimenticare che la fruizione di un telefilm è al limite dell’anti-televisivo: quasi più nessuno le vede “in diretta”, ma quando ne ha voglia. Ai tempi dei Lumière si glorificava il cinema quasi con terrore: quando l’oggetto è sublime la differenza tra reverenza, ammirazione, rispetto e paura scompare, ed è pericoloso liquidare questo sentimento, basti vedere cosa succede a Fantozzi quando bistratta con sufficienza questa potenza sublime. All’inverso, oggi glorifichiamo le serie tv con la stessa ingenuità di Fantozzi. Non ci vuole quindi molto a capire quanto la cosa puzzi.

È da qui che bisogna partire, dalla potenza dello schermo, dalla potenza della copia, tanto odiata da Platone amante del dire le cose come sono, senza fronzoli. Su questa base è difficile mettere in opposizione cinema e tv, si sfiorerebbe il ridicolo. La letteratura giornalistica tende invece a porre una finta opposizione, come quasi tutte le opposizioni poste dal giornalismo. Sembrerebbe che la tv con la serie tv stia vivendo una primavera, una sorta di rinascita, ma in verità non sta nascendo proprio niente. Tutto è già nato più di cento anni fa e le serie tv stanno qui proprio ad attestarlo.

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Non è un caso che il primo vero serial televisivo, equiparabile per qualità a un’epopea cinematografica, parla fondamentalmente di una persona che va dallo psicoanalista. Tony Soprano è la tv che, per sopravvivere al trauma di essere stata violentata dal cinema, è dovuta passare per la stanza del terapeuta.

Più che la tv abbia sconfitto il cinema, quindi, mi sembra che la tv abbia piuttosto capitolato di fronte all’arte del cinema facendosi contaminare (senza dimenticare che stiamo parlando della stessa famiglia). La tv delle serie tv di oggi intrattiene sempre, e non smette di intrattenere, come ha sempre fatto, letteralmente: ti trattiene sul divano. Ma lo fa in modo qualitativamente diverso rispetto al passato, determinandosi come una qualità che emerge nel tempo attraverso la quantità. C’è alla base un’estensione quantitativa del tempo: ciò che ci piace delle serie tv è molto di più dell’intrattenimento classico di un paio d’ore, piuttosto godiamo nel totalizzare giornate intere in poltrona in un susseguirsi di stagioni televisive come fossero stagioni dell’anno solare. Viaggiamo nel caleidoscopio di personaggi e ci facciamo contaminare dalle emozioni che provano, di cui ammiriamo insieme l’interpretazione e il personaggio, in un corto circuito nel quale non riusciamo più a distinguere dov’è l’attore e dov’è il personaggio (per questo la morte di un attore ci colpisce quasi come se lo conoscessimo di persona).

A me tutto questo sembra romanzo, teatro, cinema. Dov’è la tv? Allora a questo punto, prima di annunciare la capitolazione del cinema di fronte alla tv, bisognerebbe domandarsi che cos’è quest’ultima, perché mi pare ci sia un po’ di confusione. Di cosa parliamo quando parliamo di tv? Della conduzione di Fabrizio Frizzi, dei telequiz di Bongiorno, delle fiction di Bova o della Baltimora nigger di The Wire? Quattro cose nettamente eterogenee tra loro che hanno in comune soltanto il mezzo nel quale vengono messe in scena.

Nelle serie tv la qualità e lo spessore del racconto emergono dalla quantità: un buon telefilm ha bisogno di molto più tempo del cinema (un tempo enorme al confronto) per dirti la stessa cosa. Potrebbe essere questo un punto di partenza per comprendere la loro differenza, senza dimenticare che in entrambi i casi stiamo parlando della stessa cosa: un’immagine-movimento dove il tempo viene trasfigurato.