Il cinema sta violentando la tv

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Nella letteratura giornalistica più recente c’è un certo parlare di una presunta “maturità” raggiunta dalla tv con le serie tv, a scapito del cinema. Lo spartiacque è stato I Sopranos checon quella narrazione profondamente dickensiana ha fatto capire al mondo che per incollare la gente allo schermo bisogna raccontare le persone più che la natura, la palude dell’inconscio sociale più che l’ariosa socialità pubblica.

«Lavoriamo su un modello che ci permette di fare quello che hanno fatto benissimo i romanzi: raccontare storie lunghe, con dei personaggi solidi e una parabola drammatica. Dickens sapeva farlo bene. Siamo tornati a quello stile».

Elwood Reid, in L’età dell’oro dei teleromanzi, Internazionale 3/9 ottobre 2014, n. 1071, p. 95.

C’è un errore di fondo nel porre la questione nei termini di un confronto tra cinema e tv. Si tende a considerare il fenomeno della “maturità” delle serie tv come una sorta di “vittoria” della tv sul cinema, quando invece è tutto il contrario. È un errore che tendono a fare gli americani, che da imperialisti sono aridi di storia, ed è un errore che tende a fare anche il giornalismo letterario italiano che sbava dietro le produzioni statunitensi. Esemplare è il bell’articolo di Mattia Carzanica su Studio che, pur avanzando il sospetto che la tv se la stia tirando un po’ troppo, non procede oltre questa intuizione (che lo porterebbe a scoprire quello che chiarirò più avanti) e si limita ad affermare superficialmente «la definitiva supremazia della televisione sul cinema».

Osserva giustamente James Wolcott su Vanity Fair: «La tv, inizialmente derisa come una scatola idiota […] è creativamente maturata e si è fatta le ossa», ma poi si precipita a concludere che la scatoletta ha messo «il cinema al tappeto della cultura popolare […]». È vero, continua Wolcott, che le serie tv «hanno trasfigurato gli spettatori e trasformato i critici in evangelici. Per profondità e dinamiche psicologiche dei personaggi, svolte narrative ingegnose, sequenze che lasciano a bocca aperta» ma da qui a sentenziare che «la tv ha superato i film, lasciandoli a giocare coi loro robottoni» è un’ingenuità bella e buona. La scatola idiota erano i telequiz. Mike Bongiorno e Tony Soprano raccontano nella stessa scatola due cose molto diverse.

La glorificazione della tv dopo appena quindici anni di splendide serie tv è manifesta insicurezza della tv stessa, senza dimenticare che la fruizione di un telefilm è al limite dell’anti-televisivo: quasi più nessuno le vede “in diretta”, ma quando ne ha voglia. Ai tempi dei Lumière si glorificava il cinema quasi con terrore: quando l’oggetto è sublime la differenza tra reverenza, ammirazione, rispetto e paura scompare, ed è pericoloso liquidare questo sentimento, basti vedere cosa succede a Fantozzi quando bistratta con sufficienza questa potenza sublime. All’inverso, oggi glorifichiamo le serie tv con la stessa ingenuità di Fantozzi. Non ci vuole quindi molto a capire quanto la cosa puzzi.

È da qui che bisogna partire, dalla potenza dello schermo, dalla potenza della copia, tanto odiata da Platone amante del dire le cose come sono, senza fronzoli. Su questa base è difficile mettere in opposizione cinema e tv, si sfiorerebbe il ridicolo. La letteratura giornalistica tende invece a porre una finta opposizione, come quasi tutte le opposizioni poste dal giornalismo. Sembrerebbe che la tv con la serie tv stia vivendo una primavera, una sorta di rinascita, ma in verità non sta nascendo proprio niente. Tutto è già nato più di cento anni fa e le serie tv stanno qui proprio ad attestarlo.

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Non è un caso che il primo vero serial televisivo, equiparabile per qualità a un’epopea cinematografica, parla fondamentalmente di una persona che va dallo psicoanalista. Tony Soprano è la tv che, per sopravvivere al trauma di essere stata violentata dal cinema, è dovuta passare per la stanza del terapeuta.

Più che la tv abbia sconfitto il cinema, quindi, mi sembra che la tv abbia piuttosto capitolato di fronte all’arte del cinema facendosi contaminare (senza dimenticare che stiamo parlando della stessa famiglia). La tv delle serie tv di oggi intrattiene sempre, e non smette di intrattenere, come ha sempre fatto, letteralmente: ti trattiene sul divano. Ma lo fa in modo qualitativamente diverso rispetto al passato, determinandosi come una qualità che emerge nel tempo attraverso la quantità. C’è alla base un’estensione quantitativa del tempo: ciò che ci piace delle serie tv è molto di più dell’intrattenimento classico di un paio d’ore, piuttosto godiamo nel totalizzare giornate intere in poltrona in un susseguirsi di stagioni televisive come fossero stagioni dell’anno solare. Viaggiamo nel caleidoscopio di personaggi e ci facciamo contaminare dalle emozioni che provano, di cui ammiriamo insieme l’interpretazione e il personaggio, in un corto circuito nel quale non riusciamo più a distinguere dov’è l’attore e dov’è il personaggio (per questo la morte di un attore ci colpisce quasi come se lo conoscessimo di persona).

A me tutto questo sembra romanzo, teatro, cinema. Dov’è la tv? Allora a questo punto, prima di annunciare la capitolazione del cinema di fronte alla tv, bisognerebbe domandarsi che cos’è quest’ultima, perché mi pare ci sia un po’ di confusione. Di cosa parliamo quando parliamo di tv? Della conduzione di Fabrizio Frizzi, dei telequiz di Bongiorno, delle fiction di Bova o della Baltimora nigger di The Wire? Quattro cose nettamente eterogenee tra loro che hanno in comune soltanto il mezzo nel quale vengono messe in scena.

Nelle serie tv la qualità e lo spessore del racconto emergono dalla quantità: un buon telefilm ha bisogno di molto più tempo del cinema (un tempo enorme al confronto) per dirti la stessa cosa. Potrebbe essere questo un punto di partenza per comprendere la loro differenza, senza dimenticare che in entrambi i casi stiamo parlando della stessa cosa: un’immagine-movimento dove il tempo viene trasfigurato.

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