Zio Alberto e la voglia di evasione dei napoletani

Ogni volta che zio Alberto – come lo chiama mia madre – fa un programma su Napoli, i napoletani guardano golosi, ne parlano soddisfatti il giorno dopo, ne sono orgogliosi per le settimane successive.

È la terza volta, nel giro di qualche anno, che la bolla social mette in scena questo siparietto, con gli assessori, la gente comune e i quotidiani locali felici. La cosa va letta come una pubblicità, nel senso tecnico del termine: è un contenuto che fa leva sui desideri, le aspirazioni, i progetti, le ambizioni, più che con la realtà vera e propria della città. È un documentario: la splendida vita selvaggia del Montana non racconta cosa fanno tutti i giorni gli abitanti del Montana, però cacchio, il Montana spacca e le aquile volano nel cielo. Ogni volta l’engaging aggrega il contenuto della Napoli di Zio Alberto su questo flusso: e quanto è bello, e quanto è bravo, e quanto è bella Napoli. Non c’è polarità, solo gioia. Il product placement perfetto, senza ambiguità, che chiunque può inoltrare senza sentirsi in colpa. Tanto, si parla di monumenti, di storia e di archeologia. Lamentarsi in questo caso è proprio fuori luogo.

Ignoriamo come vivono quel programma televisivo quelli che non ci vivono, a Napoli. Ignoriamo, in realtà, anche chi ci vive. È un programma che parla in astratto di Napoli: degli edifici, delle strade, dei portoni, del vesuvio e dei basoli. Non c’è niente, letteralmente, di vivo. Il programma, però, serve a noi napoletani, che siamo tanti, milioni di milioni. A pensarci, è bizzarro: nella città che conosco a memoria, perché ci vivo, ogni volta che me la sparano in tv celebrandone la bellezza io DEVO ri-vedermela. E ancora, e ancora. Un imperativo morale.

Indiscutibilmente, ogni volta è tutto bellissimo. Si può dire, però, che noia? Non ho detto gioia, ma noia noia noia. È tutto bellissimo, ma che palle.

Sotto sotto, è una voglia di evasione. Napoli è una città molto povera, scassata, indebitatissima. La viabilità è ingestibile e viverci richiede una sospensione continua dell’incredulità, a cominciare dalla violenza dei rapporti interpersonali tra gli sconosciuti, in genere tradotti come una focosa voglia di vivere. Come quella volta che la focosa gioia di vivere del figlio della padrona del cane vicina di casa ha avuto la brillante idea di prendere a calci, armato, la porta di casa mia minacciandomi di morte perché, esasperato dall’abbaio del cane, mi ero permesso di mandare a fanculo la sua mammina col suo cagnolino. Il risentimento, l’odio, l’insofferenza, l’insicurezza strutturale come gioia di vivere. È una realtà difficile da sopportare. La gente va via come va via da una città povera (e ci ritorna, preferendo giustamente la casetta di proprietà di papino, un modesto reddito, un golfo paradisiaco, al duro mondo della competizione capitalistica delle città ricche). Il mondo è violento ma qui da noi la violenza è fisica, più che psicologica, per cui basta atteggiarsi nel modo giusto per evitarla (tipo, non mandare a fanculo nessuno). Tra l’altro, qui l’inverno dura due settimane. Ma pure raccontare questa violenza, che palle. Un altro modo per evadere: la coolness gangsta.

E così, di fronte alla complessità del reale, alla sopportazione di un ambiente claustrofobico, il linguaggio della pubblicità e della guida turistica ci dà conforto, dicendoci ogni volta cosa è buono e cosa è brutto, cosa è sì e cosa è no, e noi contentissimi a esprimere questa polarità con la padronanza di linguaggio di mia nipote di due anni: è buuuttto, è beeellllo. Tu sei butto, io bello. Napoli bella, tu butto.

Grazie Zio Alberto. Ci fai volare.

Sii turista della tua città

Five of Lord Rockinghams dogs (England 1762) – George Stubbs (1724 – 1806)

Nessuno ha detto che ce ne dobbiamo andare – vi sorprenderà sapere che proprio Eduardo De Filippo, una volta, disse ve n’ata fuji. Il vittimismo sulle condizioni oggettive di una città ne conferma l’oggettività delle condizioni.

“Terzo mondo” è un’esagerazione che serve a sottolineare come in un contesto bianco, industrializzato, europeo, una città come Napoli è in perenne via di sviluppo, ha cronici problemi economici e vive un dissesto delle infrastrutture e dei servizi senza via di uscita, se non sperando che Jovanotti metta una buona parola sulla cancellazione del debito.

Chi tene ‘o mare s’accorge ‘e tutto chello che succede

Il vittimismo non problematizza i problemi perché li vive poco, li scansa, e la mattina sul motorino riesce a ridurre tutta questa complessità alla benevolenza della natura, al sole di via caracciolo. Come fanno i turisti.

po’ sta luntano, e te fa’ senti comme coce. chi tene ‘o mare, ‘o ssaje, porta ‘na croce

Nessuno ha detto che fa schifo, né che bisogna andare via. Qui nessuno sta sputando. Ma è indubbiamente il terzo mondo, cioè un modo provocatorio di esprimerne i problemi strutturali: è bella la natura, è sfasciata la città. Il cortocircuito logico è: poiché è bella la natura, è bella la città. Non ha senso. Non c’è fascino dietro questo contrasto ma sofferenza. Il vittimismo ignora questa sofferenza e come quando andiamo in India ci dice: so poveri ma sorridono.

Il regista che ci racconta l’oggettività di questa condizione se n’è fujuto na vita fa.

Chi tene ‘o mare cammina ca vocca salata. Chi tene ‘o mare ‘o sape ca è fesso e cuntento

Il meccanismo alla base dell’amore per questo contrasto – le banlieue e le ville, il dissesto dei servizi e il golfo – risiede nel sollazzo regale, quel piacere per il pericolo assolutamente non rischioso. Come quando si passa in un brutto quartiere ma in quel quartiere non si vive, per cui c’è quell’inquietudine con la certezza che poi si torna a casa. Come quando guardiamo un film horror. Volendo scomodare Kant, è il sentimento del sublime: ammirare cose spiacevoli, colossali nella loro complessità, provare piacere di fronte all’impossibilità dell’armonia, grazie al fatto che si è in un cantuccio a contemplarla. Il piacere del turista in terra straniera. Come quando il re va a caccia coi cani nella sua tenuta: non potrà succedere niente di imprevisto, mai potrà soccombere e si godrà la sfida della caccia da predatore. Come dice De Giovanni, è un’aristocratica bellezza. E quando qualcuno ce lo fa notare, aristocraticamente alziamo gli occhi al cielo.

chi tene ‘o mare ‘o ssaje
nun tene niente…

Giusto per esser chiari: è stato razzismo

Willy Monteiro Duarte

Alla fine è stato un episodio di razzismo, per il semplice fatto che era nero. Poi uno può pensare quello che vuole, che bisogna prima informarsi, che bisogna prima vedere bene cosa è successo, che ci sono le aggravanti e le attenuanti. Ciò non toglie che sia stato un episodio di razzismo.

Come una buona ipotesi scientifica, bisognerebbe suffragare l’ipotesi più semplice piuttosto che cercare di trovare la conferma a un’ossessione complessa tenendosi la testa tra le mani: [non era razzismo, non era razzismo, non era razzismo ] erano solo pazzi e lui nel posto sbagliato al momento sbagliato. Che sfiga. Che sfigato.

Fondamentalmente, non ce ne frega nulla se sia stato razzismo oppure no. E questo è un peccato, visto che è stato razzismo. Che non ce ne frega nulla lo si vede dal fatto che siamo più pronti a discutere di palestre e arti marziali piuttosto che ragionare sulla qualità razzista dell’evento.

Io le ho fatte arti marziali e non avete idea di quante volte, tra il serio e il faceto, c’è stata la battuta del cazzo “andiamo per strada a menare, così ci alleniamo!”. Alla fine ha anche un suo senso, in linea generale. Sicuramente ci si allena.

Preferisco la semplificazione anti-razzista che il lambiccamento delle attenuanti che già partono sopravvalutando l’attore. Chi se ne frega se era militante, o fascista. A monte c’è una cosa ancora più grave: era gente che non solo aveva voglia di menare quella sera ma che si è scientemente prodigata per farlo, forte delle tecniche di combattimento apprese in palestra. Poi, caduto dal cielo, gli è capitato tra le mani un nero, a cui è più facile dargli calci e pugni. Dubito si possa contraddire un’affermazione del genere, considerando decenni di esperimenti sociali e psicologici sul razzismo inconscio, culturale, che appartiene a tutti. Non basta questa come motivazione razziale?, o dobbiamo aspettare che la legge sentenzi, magari aggiungendo finalmente l’aggravante: era nero.

Non è morto perché era nero, è morto perché, essendo nero, c’era una maggiore disinvoltura nel picchiarlo fino all’accanimento, fino alla morte, così come per Cucchi picchiarlo era semplicemente più facile perché era un tossico di merda. Gli è andata male, poteva uscirne vivo. Ma era nero, era un tossico di merda, e ha rischiato molto di più. Potevano uccidere così anche un bianco, come già succede, come hanno ucciso Cucchi. Ma hanno ucciso un nero e un nero è più facile da uccidere. I neri, i tossici e i ricchioni sono più facili da uccidere.

Il giudice: non me ne frega un cazzo, era nero. Punto. Probabilmente il processo renderà giustizia della bassa pregnanza del dibattito pubblico.

Se il presupposto è che per essere razzisti bisogna essere politicamente istruiti, allora razzista è solo chi ha letto Fanon. Milioni di persone credono pigramente in una congiura di pedofili che si riuniscono in pizzeria però, cavolo, per essere razzista devi esserne consapevole. Nel razzismo ci siamo immersi ed è logico che a volte non ci va di riconoscerlo.

Nnaaah. Questo non è razzismo, è solo sfortuna.

Sfigato.

Ripeto, è difficile entrare nella testa dei picchiatori ma tra le due semplificazioni preferisco la seconda:

• non era razzismo, difficile dimostrarlo

• era razzismo, perché è stato ucciso un nero

A parte le anime belle, non possiamo non riconoscerci in questa distinzione inconscia, culturale: c’è il nero e c’è il bianco, lo sfigato e il figo. È la stessa ragione per cui può venire più facile, sull’autobus, cedere il posto a un bianco piuttosto che a un nero. E non perché queste differenze siano reali, che siamo tutti razzisti blabla. No, no, non è questo il punto.

Decenni di esperimenti sociali e psicologici hanno mostrato una cosa molto semplice: che siamo animali, siamo gregari. È l’atteggiamento culturale, proveniente da istinti naturali, di esercitare il potere su una minoranza. Ce lo dice il nome – minoranza – e ce lo racconta la storia della specie homo che lo sfruttamento delle minoranze e l’esercizio della violenza sulle classi più deboli (i poveri, i giovani, se neri ancora meglio, se pure tossici, se non addirittura ricchioni, allora siamo in paradiso) possono essere sempre, in qualche modo, giustificate. Perché la maggioranza ha sempre ragione e la sopravvivenza della comunità viene prima di tutto. Salvo poi mobilitare una maggioranza di milioni e milioni di schiavi per secoli e secoli (in periodi storici diversi), trasformarla in minoranza e mandare a farsi fottere tutta questa bella filosofia della comunità. E questo non significa che una sana dialettica tra minoranza e maggioranza, quando autentica, non sia essenziale alla sopravvivenza di una comunità. Significa solo che ce ne fottiamo, della comunità.

L’anti-razzismo, così come l’anti-fascismo, non sono predisposizioni naturali ma scelte. Siamo razzisti e fascisti per natura, perché siamo animali. Il fatto è che a un certo punto si sceglie – ah, mi raccomando, non scegliere significa scegliere, volente o nolente, l’astensione non esiste in questo caso: o è bianco o è nero, e se ti astieni sei un fifone, manco le palle di riconoscere il tuo fascismo c’hai. Di fronte all’istinto di sopraffare, umiliare, sfruttare e uccidere tipico dell’animale, che deve sopravvivere, l’uomo, attraverso il formidabile strumento della ragione, si emancipa da questa condizione fino a credere di potersi emancipare dalla natura (che sia possibile, oppure no, staremo a vedere).

Si sceglie semplicemente di non essere razzisti, o fascisti, non si nasce con una predisposizione naturale a non esserlo. La predisposizione naturale è fottere, mangiare e cacare, a ciclo continuo, fino alla morte, e questo il consumismo economico e culturale lo ha capito fin troppo bene.

L’anti-razzismo è un’attività di vigilanza su sé stessi affinché non ci si faccia sopraffare da questi istinti, se non addirittura si lotta affinché, con l’educazione e l’apparato culturale di una società, si insegni a tutti a riconoscere il proprio razzismo, il proprio fascismo. Siamo contraddittori, siamo bestie con un’intelligenza incredibile e l’orientamento politico egalitario è essenziale a questa scelta: la volontà di ridurre al minimo questa contraddizione.

Scusate, ho divagato. Alla fine era solo nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Come Stefano Cucchi.

Abbattere statue. Sì, la società è fondata sul sangue. E ora che l’hai scoperto?

sdf

Walter White. Padre di famiglia, pluriomicida, chimico brillante

Lo sappiamo che il blues è figlio della schiavitù? Che se i bianchi non avessero schiavizzato milioni di persone non ci sarebbe stata la contaminazione tra musica popolare e colta? Che se gli aristocratici compositori bianchi, verso la seconda metà dell’Ottocento, non si fossero messi a trascrivere e saccheggiare quello che ascoltavano per strada col cazzo che oggi avremmo O partigiano portami via? Che se tra il XVII e il XIX secolo non ci fosse stata una immane deportazione continentale oggi non potremmo fraternizzare con i deboli e i disadattati suonandogli la grande musica del blues e del jazz?

Homi Bhabha, pensatore post-coloniale, definisce la cultura come l’oscillazione tra il pedagogico e il performativo: la tradizione e la generazione che la vive. Ogni venticinque anni, circa, le tradizioni sono messe in discussione e hanno l’occasione per trasformarsi restaurandosi, trasmutandosi o cancellandosi. C’è un certo grado di aleatorietà in questo rapporto, una certa precarietà. In altre parole, non sembra che le culture siano oggetti razionali, che riflettano uno stato di natura.

La storia spicca il volo solo quando sono tutti morti, e riscrive a piacimento quello che si è sedimentato. La cronaca, che racconta il presente, è instabile e soggetta agli umori della narrazione dominante. La verità arriva solo quando sono tutti morti, e a volte riscrive meglio quello che è stato scritto velocemente e male con la cronaca. E non possiamo farci nulla, ogni volta.

cover__id204_w800_t1465131609.jpg&

Questo libro vi farà vedere il blues con altri occhi, nonostante sia della casa editrice di Giorgio Agamben

L’abbattimento delle statue è un atto performativo. E il pedagogico, dov’è? La consapevolezza storica – e lo dicono tutti gli studiosi post-coloniali, cioè quelli di colore, i coloni, i buoni, non i cattivi – è che si dovrebbe prima di tutto accettare come un dato di fatto ineluttabile che siamo tutti figli di pezzi di merda.

L’abbattimento di una statua dovrebbe essere il risultato finale di un percorso di autoanalisi culturale, quella che scopre la violenza, il sopruso e lo sfruttamento alla base dei rapporti tra le persone e dello scambio delle merci. Che estende la violenza non solo al retaggio coloniale (ti piacerebbe, vero?) ma alla fondazione di qualsiasi ordinamento sociale.

L’economia, così come lo stato di diritto, sono azioni coercitive, si decidono, non cadono dal cielo, e vengono entrambe decise con qualità determinate dai vantaggi che ne ricava il gruppo di interesse dominante, il quale a volte, raramente, coincide con una maggioranza. A volte può succedere che questo tipo di stato di diritto deciso si riveli anche il più giusto, equo, ma anche questo lo si potrà scoprire solo quando sarà tutto finito, quando saranno tutti morti.

L’abbattimento delle statue senza questa consapevolezza tragica è una posa.

asd

Che c’è, Hank, sei scioccato dal post-colonialismo?

La famiglia è il luogo migliore dove mettere al sicuro le proprie patologie senza che siano mai messe in discussione. In famiglia i disturbi del comportamento sono minimizzati, rafforzati, elusi, ospitati, ingigantiti, senza mai essere curati. È una grande chiattillata social da condividere mentre vi si assiste abbattere statue senza turbarsi, senza lo shock di aver scoperto che il comodo e profumato cuscino della cultura occidentale è anche putrido, oppure che è putrido tanto quanto è accogliente. Una grande presa per il culo, una buffonata melodrammatica, teatrale, performativa, caciaresca.

È una verità constatata da decenni l’indicibile fatto che qualsiasi società (e quella che ha dominato, la bianca, per forza di cose più di tutte le altre) è fondata sul sangue degli innocenti, sulla sopraffazione e la schiavitù. L’abbattimento delle statue è il sintomo di questo lavoro culturale, o piuttosto è l’emblema di un rifiuto a riconoscere -e magari mettere in discussione – le fondamenta della nostra organizzazione economica e sociale?

Riusciremo mai a superare sto fatto che siamo figli di criminali? Che te ne fai di tutto quello che è stato scritto dagli anni Cinquanta in poi, da quando gli ex imperi hanno cominciato a ritirarsi dalle colonie. Che te ne fai di una tesi di laurea triennale sull’interculturalità se poi basta abbattere statue per riuscirci, altro che districarsi nelle contraddizioni dietro qualsiasi narrazione culturale.

Perché è quello che stiamo facendo, giusto, abbattendo le statue? Stiamo superando tutto questo, oppure stiamo conservando, restaurando, proprio la nostra splendida identità coloniale?

I miei colleghi, che osservano questo fenomeno e ci scrivono, sono freelance, non è che possono fare molto. Scrivono certo per un interesse intellettuale, per ragionare sul fenomeno statue e sulla questione coloniale, ma lo fanno prima di tutto perché 15 mila battute sono pagate circa 70 euro e, visto che ora si parla di statue, cazzo allora si scriverà di statue.

(questo articolo lo sto scrivendo gratis)

Però poi Selfieni e Meloncino sono il male, eh. Li prendiamo terribilmente sul serio, che li sfottiamo, li ridicolizziamo o li osanniamo, fa lo stesso: li riconosciamo, li legittimiamo. Ma solo loro sono distruttivi, solo loro inventano i noi e i loro, i buoni e i cattivi. La tragedia del post-colonialismo è proprio che il buono e il cattivo coincidono con la stessa persona. Il post-colonialismo è disorientante, non è orientante. È uno shock.

confused-travolta-meme

Ma da dove verrà il consenso della destra populista? Maledette statue

La nottola di Minerva spicca il suo volo sul far del crepuscolo. La consapevolezza storica post-coloniale è accettare un’impotenza, l’impossibilità di cambiare le cose terribili che sono successe, solide basi della ricchezza e della felicità di milioni e milioni di persone. L’ingiustizia alla base dei rapporti di potere. Tutto ciò che in società sembra giusto, naturale, consequenziale, non è che la decisione di una parte.

Wow. Che figata, vero?

Richie Rich se la prende col paparino che non gli ha permesso di scoprire il mondo. La famiglia americana anni Ottanta di Natale scopre che la sua bontà non è che una facciata. Se si abbattono statue con questo spirito da tossico col senso di colpa, senza rendersi conto che l’autenticità di un tale atto implica necessariamente un auto-abbattimento, allora l’atto è solo performativo, senza dialettica con la pedagogia, non fa i conti con la tradizione. È una posa, è da atteggiati, da turisti del postcolonialismo. Poi passa.

Paura, reverenza, terrore

leviatano

Viviamo in un mondo in cui gli Stati minacciano il terrore, lo esercitano, talvolta lo subiscono. È il mondo di chi cerca di impadronirsi delle armi, venerabili e potenti, della religione, e di chi brandisce la religione come un’arma. Un mondo in cui giganteschi Leviatani si divincolano convulsamente o stanno acquattati aspettando. Un mondo molto simile a quello pensato e indagato da Hobbes.

Ma qualcuno potrebbe sostenere che Hobbes ci aiuta a immaginare non solo il presente ma il futuro: un futuro remoto, non inevitabile, e tuttavia forse non impossibile. Supponiamo che la degradazione dell’ambiente aumenti fino a raggiungere livelli oggi impensabili. L’inquinamento di aria, acqua e terra finirebbe col minacciare la sopravvivenza di molte specie animali, compresa quella denominata Homo sapiens sapiens. A questo punto un controllo globale, capillare sul mondo e sui suoi abitanti diventerebbe inevitabile. La sopravvivenza del genere umano imporrebbe un patto simile a quello postulato da Hobbes: gli individui rinuncerebbero alle proprie libertà in favore di un super-Stato oppressivo, di un Leviatano infinitamente più potente di quelli passati. La catena sociale stringerebbe i mortali in un nodo ferreo, non più contro l’«empia natura», come scriveva Leopardi nella Ginestra, ma per soccorrere una natura fragile, guasta, vulnerata.

Carlo Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, II. Rileggere Hobbes oggi, Adelphi, Milano 2015.

Controlla bene

asd

La sera del 18 luglio a Würzburg, nel sud del paese, un ragazzo ha aggredito quattro turisti di Hong Kong con accetta e coltello […].  Si indaga sul fatto se abbia urlato “Allahu akbar” durante l’attacco.

Internazionale, 19 luglio 2016

Bouhlel aveva manifestato recentemente un interesse per l’islamismo radicale. François Molins [procuratore dei Parigi] ha detto che Bouhlel «non capiva perché il Daesh non potesse pretendere un territorio». Molins ha comunque confermato che Bouhlel conduceva una vita lontana dalle regole dell’Islam, consumando alcol, droghe e carne di maiale, e aveva «una vita sessuale sregolata».

ilPost, 18 luglio 2016

David S., che secondo i giornali tedeschi si chiamava David Ali Sonboly, nel 2015 era stato ricoverato per due mesi in una clinica psichiatrica, e da allora era in terapia. Thomas Steinkraus-Koch, portavoce del procuratore di Monaco, ha aggiunto che la procura non ha trovato prove di motivazioni politiche.

ilPost, 24 luglio 2016

In Germania un richiedente asilo siriano si fa esplodere ferendo 12 persone. L’uomo voleva entrare a un festival musicale ad Ansbach, vicino a Norimberga, ma non aveva il biglietto. Aveva un permesso di soggiorno temporaneo perché la sua domanda di asilo era stata respinta. Il ministro dell’interno bavarese Joachim Herrmann non ha escluso la matrice del terrorismo islamico.

Internazionale, 25 luglio 2016

No no. Non posso continuare a controllare il cellulare.

Non posso smettere di controllare.

No, no.

I can’t keep checking my phone, no
I can’t keep checking my phone, no
I can’t keep checking my phone, no
I can’t keep checking my phone

5184

Coda fuori il porto di Dover per imbarcarsi verso la Francia, 23 luglio 2016

 

Controlla bene

asd

Controlla bene ho detto

dfg

E abbassa lo sguardo

cvb

This dick ain’t free

In tempi di stepchild, qualunque sia il tuo ruolo la cosa importante è non confondere i generi, che restano due.

Il rap, generalmente, ha bisogno di una base stabile, monotona, per rappare, perché improvvisa. È una regola di simmetria. Se anche la base improvvisasse ne uscirebbe un brano difficile da digerire per le orecchie, poco gradevole, scombussolante.

In For free succede proprio questo. Kendrick Lamar rappa su una base sregolata e improvvisata. Perché?

Perché c’è un’inversione di ruoli, o meglio l’inversione di un ruolo. C’è una donna che manda a quel paese il suo uomo. Fottiti stronzo, non chiamarmi più. Allora lui che fa, non reagisce come un uomo ma come una donna. Ah, sì? Questo cazzo non è gratis bella. Ho bisogno di quaranta acri e un mulo, non di quaranta briciole e un pitbull del cazzo. Genital’s best friend, this dick ain’t free. Now my dick ain’t free.

La cosa è spiazzante. Lei ci resta di stucco e lui non può che recitarla effeminata questa parte. Srotola un elenco di fatti di cui è stufo, lui povero negro con aspirazioni emancipatorie, come tutti i negri, che ha le palle piene di soddisfare il desiderio di libertà come fosse un capriccio femminile. Parole su una base musicale a cascata e apparentemente caotica come solo il jazz sa fare. Parole però sulla bocca del genere sbagliato quando dall’altro lato c’è lo stesso genere. Now my dick ain’t free.

È una questione di simmetria. Che sia donna o uomo chi parla, si deve avere la possibilità di speculare: dall’altra parte ci deve essere l’altro genere, che sia donna o uomo.

Di fronte a questa violazione della simmetria, lei, dopo tutta sta tiritera isterica, ristabilisce in una frase l’ordine delle cose, sentenziando chiaro e tondo che solo lei ha il potere della fessa, non esiste il potere del cazzo. L’uomo non ha niente da negoziare, solo da offrire:

Ora ti faccio fottere da Zio Sam bello, tu non hai alcun re.

Tağdid

Prayer_in_Cairo_1865

Preghiera al Cairo, Egitto, 1865 (via)

Tağdid, «rinnovamento», è la parola simbolo di un movimento che, all’alba del XXI secolo cristiano e del XV secolo islamico, si diffonde dall’Africa in tutto il Medio Oriente fino a raggiungere il Pakistan, la Malesia e l’Indonesia! […]. Ricorderemo qui come si è arrivati a questo sorprendente sviluppo.

• La stagnazione culturale dell’islam, latente già dal XII secolo ed evidente dal XV secolo, la perdita di prestigio politico a partire dal XIX secolo e infine l’acuta crisi d’identità provocata dal colonialismo e dall’imperialismo occidentali.

• L’indipendenza politica di molti paesi islamici dalle potenze coloniali durante gli anni 1950-1960 […] creò i presupposti necessari per il rifiorire della religione in questi stati islamici (oggi ammontano a oltre 50 in tutto il mondo e fanno capo all’Organizzazione della Conferenza Islamica, l’OCI). Il 12 e 13 febbraio del 2004 l’OCI si è riunita a Istanbul, manifestando, insieme alla Ue, netta disapprovazione per il concetto geopolitico di «scontro di civiltà» elaborato già da tempo dai teorici americani «neoconservatori».

• Dopo tutte le promesse non mantenute del nazionalismo arabo, del panarabismo e del socialismo arabo, i successi militari-economici conseguiti dal 1973 in avanti, come le vittore nella guerra arabo-israeliana e l’embargo del petrolio, e soprattutto l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979 con la deposizione dello shah e l’umiliazione inferta agli Stati Uniti (vedi la vicenda degli ostaggi di Teheran) hanno contribuito alla nascita di un forte senso d’identità e di orgoglio

• Contemporaneamente, le delusioni del mondo occidentale e l’incapacità di risolvere i problemi economici e sociali interni dimostrata dai governi islamici filo-occidentali hanno messo in profonda crisi il paradigma moderno – sia nella sua versione socialista-sovietico-cinese sia in quella capitalistico-europeo-americana. Nella prima la giustizia sociale sacrificava ogni forma di libertà; nella seconda la libertà sacrificava ogni forma di giustizia sociale.

• Di fronte all’esclusiva attenzione del mondo occidentale e dell’Est europeo verso la soddisfazione dei bisogni materiali, si diffondeva nei paesi islamici una maggiore attenzione verso i valori spirituali, morali e religiosi. La trasfusione tecnologica occidentale, che avrebbe dovuto avviare verso la guarigione i paesi islamici, era fallita: la più lampante dimostrazione era il caso dell’Iran, che aveva rappresentato il fiore all’occhiello della politica degli aiuti occidentali al mondo arabo dopo la Seconda guerra mondiale

E da tali premesse che nasce la domanda: come dobbiamo valutare la rinascita del mondo islamico all’alba del XXI secolo? Si tratta di una semplice reazione militante-politica sia al colonialismo e all’imperialismo occidentali che, dall’altra parte, al crollo del comunismo sovietico? O è la temibile e ambivalente conseguenza della politica degli aiuti dell’Occidente con il suo trasferimento di tecnologia? Risposta: è tutte queste cose insieme!

Hans Küng, Islam: passato presente e futuro, Rizzoli-Bur, Milano 2005, parte V (E).

Cabeza de Vaca e gli Indi

rsz_holmes_1877_kanab_desert_dut0035b

Deserto del Kanab, Grand Canyon, Mohave County, Arizona. William Henry Holmes, 1877.

Dall’isola di Malfato, tutti gl’Indi che in quel paese vedemmo hanno per usanza, dal giorno che le donne loro si sentono gravide, non dormono con esse finché sieno passati duoi anni dall’aver creati i figliuoli, i quali elle allattano finché sono d’età di dodeci anni, che già sono da sapersi da se stessi procacciar da mangiare. Dimandavamoli noi per qual cagione così gli nodrissero, e ci rispondevano che lo faceano per la molta fame che era in quel paese, dove, come noi vedevamo, alcune volte conveniva star tre e alcune volte quattro giorni senza mangiare: e per questo gli lasciavano allattare, perché in quei tempi non morisser di fame; e se pure ancora alcuni ne fussero scampati, sarebbero stati troppo delicati e di poca forza […].

Tutti costoro hanno usanza di separarsi dalle mogli loro quando tra loro non è conformità o accordo, e si rimaritano essi ed esse con chi vogliono: e questo si fa tra i giovani, ma quei che già hanno figliuoli non lasciano mai le lor mogli. E quando contendono con altri popoli e fanno questioni un con l’altro, si danno pugni e bastonate finché sono molto stanchi, e allora si spartono, e alcuna volta gli spartono le donne entrando tra loro, perché uomini non entrano a spartirtli: e per qualsivoglia colera o passione che abbiano, non combattono con archi né frezze. E dipoi che si hanno dati pugni e bastonate e finita la mischia, prendono le case e le donne loro e se ne vanno a vivere per i campi e separati dagli altri, finché lor si passa lo sdegno e la colera; e quando già stanno così senza colera, se ne tornano alla gente loro, e da indi inanti sono amici come se mai non fusse stata tra lor cosa alcuna, né è bisogno che altri s’interponga a far le paci o l’amicizie, perché in questa guisa le fanno da se stessi […].

Tutti sono gente di guerra, e usano tanta astuzia per guardarsi da’ lor nemici, come farebbono se fussero nodriti in Italia e in continua guerra.

Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, cap. XIV, Finisterrae, Mantova 2008

Il selvaggio West e l’Altro

Il Petrified Forest National Park, Arizona, USA

Il Petrified Forest National Park, Arizona, USA

Il Sudovest è la parte meno americana degli Stati Uniti; come osservava la guida Wpa del New Mexico nel 1940, «in alcuni luoghi la vernice dell’americanizzazione è davvero sottile». Per questo motivo la regione attira dalla moderna America anglosassone e dall’Europa persone che sono alla ricerca di ciò che gli antropologi chiamano l’Altro. Il Sudovest consente di incontrare due categorie fondamentali dell’Altro, gli indiani e gli ispanici, senza neppure lasciare il Paese, ed è dunque un logico punto di partenza. Nel 1970 non lo sapevo ancora, ma era anch’io un fuggitivo. Per il momento il mio disagio nei confronti della cultura dominante mi aveva soltanto fatto capire che non volevo vivere in città. Non ero «un uomo da marciapiede» come affermava Georgia O’Keeffe, un altro membro del gruppo. Ma nei successivi venticinque anni, l’interesse per l’Altro, il desiderio di reinventare me stesso all’interno di una cultura alternativa, mi avrebbero portato a viaggiare in tutto il mondo. Le persone che si avventurano in una ricerca di questo genere hanno quattro mete privilegiate: il Sudovest americano, l’Amazzonia, l’Africa e il Tibet. Io le avrei visitate tutte, tornando nel Sudovest più di dodici volte. Il Sudovest sarebbe stato il termine di paragone su cui avrei valutato i miei progressi, e lì avrei incontrato o conosciuto indirettamente altri individui di cultura anglosassone come me, anime affini, compagni di fuga che erano stati attirati da questa assolata e mistica parte del mondo, dove molte zone non sono sintonizzate sulla lunghezza d’onda degli Stati Uniti. E fu nel Sudovest che compresi finalmente come la mia ricerca partisse da un presupposto sbagliato, poiché non esiste un’alterità indipendente dalle proiezioni di ciascuno, e la abbandonai. A quel punto avevo viaggiato così tanto che nulla mi sembrava esotico. Avevo capito che nessun modello sociale è privo di aspetti venali. Potremmo dire che avevo incontrato l’Altro, e l’Altro ero io.

Alex Shoumatoff, Leggende del deserto americano, Einaudi, Torino 2015, p. 16.