Post-verità non è il contrario di fact-checking

È se l’epoca della post-verità – lo sguazzar dolce e consapevole nel mar delle cazzate – fosse stata in qualche modo sospinta dall’ossessione per il fact-checking?

L’intuizione mi viene da questa immagine vera con didascalia post-veritiera:

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La quantità di cazzate che dice è scientifica, tutt’altro che sibillina. La sintassi è regolare e quello che argomenta (ne siano esclusi gli etologi) è perfettamente credibile. Tutto totalmente inventato e tutto totalmente credibile. Un taglio estetico a queste stesse parole avrebbe avuto un effetto decisamente più onesto e poetico:

Immaginiamo che questa bella immagine di un branco di lupi in viaggio sia la fotografia di un gruppo sociale utopico dove, dalla testa alla coda, i più deboli capeggiano la fila, i più forti subito dietro, i più fecondi al centro e il leader, come nelle carovane, alla fine. Non sarebbe un bel quadretto? Non ci farebbe ben sperare di fare altrettanto nella società umana? Purtroppo una composizione di questo tipo darebbe ben poche speranze di sopravvivenza a un branco di lupi. Questo significa che anche noi dovremmo abbandonare i più deboli per sopravvivere? Lasciar naufragare gli immigrati in mare per vivere al sicuro? Tutto al contrario, nelle società umane le cose possono andare diversamente: la potenza dell’uomo è proprio questa sua capacità di andare contro natura, contro la legge di natura.

Non male eh? Bastava dire questo per esprimere la stessa cosa: il desiderio di sentirsi protetti e nello stesso tempo capaci di fronteggiare le avversità. Proteggere i deboli senza indebolirsi. Essere di sinistra senza perdere vigore. Non è un caso che il post l’ho trovato nella bacheca di una mamma incinta. Purtroppo, come riferisce la CNN, la foto è solo un branco – guidato dalla femmina alpha – di 25 lupi timberwolf a caccia di bisonti nel nord del Canada che viaggia su un’unica fila attraverso la neve per risparmiare energie. Stop. Il resto sono proiezioni di angosce personali, figlie dell’epoca del trionfo della solitudine. Così cerchiamo barlumi di associazionismo gerarchico nei lupi, e se non li troviamo ce li inventiamo, sti cazzi che se fossero veri comporterebbero l’estinzione di tutti i lupi, assiderati dal freddo e dalla fame a seguire un trio di moribondi mentre il leader langue nelle retrovie.

Mammamia sempre in prima linea tutti quanti…vabbe anche se irreale dovrebbe essere così. Domani inizio una campagna tra i lupi per insegnarglielo!!!

Risponde la postatrice dell’immagine dei lupi a chi le spiega, con le prove, che si tratta di una bufala.

Dovrebbe essere così. Non c’è frase migliore per spiegare la post-verità. Dovrebbe essere così nella società umana, che vive in città e si ripara dal freddo, no di certo in un branco di lupi, poveretti.

Anche il fact-checking puro, l’ossessione per la verifica, è di per sé una bufala, un’ossessione appunto. Non esiste l’articolo totalmente veritiero. In ogni pezzo ci sarà sempre un’imprecisione, un non detto, un’approssimazione. È naturale. È impossibile strutturare un articolo in una totalitaria verità assoluta. L’unico modo per farlo è esperire il fatto, trovarsi davanti a ciò che accade. Fact-checking, quindi, di per sé, è un nonsense: si verificano sempre parole che riferiscono fatti, mai i fatti. Una delle prime cose che ti insegnano alla scuola di giornalismo (non è assolutamente vero, ma dovrebbe essere così) è che non esiste l’articolo vero. Questo non significa che gli articoli sono falsi. Significa che la verità si trova soltanto fuori dalla finestra e quando leggi il giornale, considerando che chi scrive è bravo e in buona fede, puoi solo limitarti a sapere ciò che è accaduto, senza esperirlo, senza vederlo. E non è poco. Ci si deve fidare di chi scrive, non tanto come si avrebbe fede in dio quanto come si crederebbe a un articolo scritto bene. Non sarà la Verità ma sarà certamente vero ciò che riferisce di accaduto. Hegel ha scritto che la lettura del giornale è una sorta di preghiera mattutina, ovvero che il quotidiano, il culto dei fatti accaduti, dei media, ha sostituito la chiesa. Rendiamoci conto dell’incredibile intuizione profetica che ha avuto un tizio vissuto nel XIX secolo (non è profetica: probabilmente già nel XIX ci abboffavamo di media, altrimenti non l’avrebbe potuto pensare).

È più facile di quello che sembra verificare l’attendibilità di un articolo, capire se quello che leggi è una cazzata o meno. Tornate un po’ più su e andate a leggere che ho scritto poc’anzi: RIFERISCE LA CNN, significa che ti sto dicendo che quello che è accaduto (una foto) esiste e puoi andare a verificarlo tu stesso. Perché io giornalista credo in te, caro lettore, ti rispetto e ti reputo una persona intelligente. In sostanza, basta soffermarsi su due cose per capire se un articolo è attendibile o meno: la sintassi e la fonte, se scrive bene e riferisce (“dichiara tizio”, “secondo una ricerca di”, “afferma caio”) quello che sostiene a qualcuno o qualcosa di facilmente googlabile, l’articolo state certi che è attendibile. La didascalia post-fattuale della foto dei lupi rispetta il primo criterio ma non il secondo: è scritta bene ma non mi dice assolutamente nulla su whowhenwhy, where (what lo dice la foto). Chi ha detto sta tiritera sui malati d’avanti, i forti subito dietro, le femmine al centro e il leader in coda? Dove sta scritto, dov’è stato proclamato?, quando è successo? Perché me lo dici? Se in un articolo non c’è risposta per lo meno a tre di queste cinque W state certi che è una cazzata.

Pugnette, non fatti
I trollisti del web, i pigroni polemici sono dei nietzschiani perversi: non credono nei fatti ma solo nelle interpretazioni che gli fanno comodo. Ma Nietzsche affermava questa cosa in un senso del tutto diverso. Non esistono fatti ma solo interpretazioni significa essere consapevoli di essere dei soggetti, che tutto ciò che accade passa attraverso un resoconto, un racconto, un filtro soggettivo. Questo non significa che tutto ciò che accade è impossibile da comprendere perché passa sotto la lente dell’interpretazione ma, al contrario, che tutto ciò che accade è perfettamente comprensibile perché interpretabile, e pure in modo corretto, arricchito inoltre dall’esperienza soggettiva di un’esperienza vissuta. Significa che la verità non è solo vera, pura, fattuale, nuda, morta come un’oggetto, ma anche viva grazie a chi la proclama, la afferma, la sostiene. Ma il nietzschismo perverso dei post-veritieri dice addio ai fatti e dà il benvenuto alle invenzioni.

Comunque, in conclusione, quello che volevo dire all’inizio di questo post è che l’ossessione in sé per il fact-checking potrebbe portare alla post-verità (non il fact-checkin in sé, che è sacrosanto, ma l’ossessione) seguendo questa parabola: il fact-checker ossessionato dalla verifica scopre che è impossibile totalizzare la verità in un articolo e così, invece di accontentarsi del resoconto, si converte disilluso alle bufale perché tanto “la verità non esiste”. Ma aveva solo capito male che cos’è la verità dei fatti quando questi non ti accadono davanti agli occhi ma ti vengono soltanto riferiti.

Il punto è che c’è un’approssimazione intrinseca alla verità quando si raccontano i fatti, un’interpretazione appunto. Si è solo capaci di sfiorare la verità quando si parla, e già questo basta a capire cos’è successo davvero, a fare giornalismo. Pensate allo sfiorare il fuoco: è già una bella esperienza veritiera del fuoco, non serve che ci si bruci, giusto? Il giornalismo non racconta la verità, quella è fuori dalla finestra. Il giornalismo è l’esperienza di quello che succede e che non vedi l’ora di raccontare a qualcuno senza dimenticare mai di riferire le fonti. Perché chi ascolta va rispettato.

Riformisti/comunisti: diatheke

Gauchet_Badiou

Badiou: Marcel Gauchet, per concludere vorrei renderla partecipe dell’intuizione che ho avuto sentendola parlare di Rousseau e della possibilità di quel soggetto politico collettivo che va sotto il nome di democrazia. Penso di poter dire che, in realtà, non sono il solo ad essere in attesa di un evento…
Gauchet: In che senso? Cosa intende dire?
Badiou: Ritengo che, nonostante la sua prudenza, lei creda nella politica e che per questo sia in attesa di un evento nel senso in cui io l’ho definito. Un evento imprevedibile, come qualsiasi altro evento, ma che consenta l’emergere di una soggettività riformista…
Gauchet: Forse…
Badiou: Affinché quest’evento faccia la sua comparsa, vorrei farle ammettere che anche lei ha un bisogno vitale dell’ipotesi comunista. Mi permetta di esporle questo aspetto che ha un carattere insieme storico, tattico e filosofico. Lei mi sembra convinto del fatto che l’ipotesi comunista non presenti alcun interesse ai fini della realizzazione della sua ambiziosa versione del riformismo. Io vorrei ribatterle che le cose non stanno affatto così. In realtà, essa è per lei assolutamente necessaria. Se guardiamo alla storia recente, i rari momenti che più o meno si avvicinano allo scenario che lei ha in testa si sono realizzati proprio a causa della presenza reale di un universo altro, di un’ipotesi altra, ovvero dei comunisti. Il grande sussulto riformista successivo al 1945, che lei ha spesso menzionato, è stato possibile grazie al fatto che de Gaulle ha dovuto mettersi d’accordo col Pcf, all’epoca il partito più forte che ci fosse in Francia, fregiantesi dell’etichetta di «partito dei centomila fucilati». Al momento della Liberazione il generale aveva senz’altro degli alleati internazionali, poteva vantare un certo credito presso le autorità militari, ma le truppe civili, se così posso dire, si concentravano per lo più dall’altra parte… Non penso che de Gaulle fosse in cuor suo un nemico giurato del capitalismo o un ardente sostenitore delle nazionalizzazioni. Sta di fatto che è stato costretto a negoziare, a fare delle concessioni… Il programma del Consiglio nazionale della Resistenza viene oggi sventolato come un esempio di ritorno alla democrazia. Ma la stessa esistenza del Consiglio era la prova del fatto che de Gaulle era obbligato a venire a patti coi comunisti! Tale patto non va visto come qualcosa di interno alla dinamica generale dello sviluppo capitalistico, ma come il prodotto dell’esistenza dei partiti comunisti e del blocco socialista. E il contesto della ricostruzione, con i suoi imperativi economici e politici specifici, spiega la circostanza per cui gli squali capitalisti hanno all’epoca rigato dritto tollerando riforme di vasta portata che non andavano nella direzione da loro auspicata. Quest’ampio consenso si è in seguito sfaldato mano a mano che il blocco comunista cominciava a manifestare crepe sempre più vistose. Da quando il comunismo storico è crollato definitivamente, le democrazie non sono più state soggette alla sfida del loro avversario. L’ondata neoliberista contro la quale lei insorge è quindi dilagata, andando a riempire il vuoto che si era creato. In assenza di un Altro che le minacci, le democrazie liberali sono tornate ad essere i fedeli vassalli del capitale e dei suoi detentori, i quali non si sentono più obbligati ad accettare i princìpi della moderazione e della redistribuzione.
Gauchet: Per quanto riguarda la congiuntura del 1945, quello che dice è storicamente esatto.
Badiou: Sì, ma questo fatto storico ha anche delle conseguenze tattiche e filosofiche per l’oggi. Se non viene rilanciata l’ipotesi comunista, l’ipotesi riformista che lei sostiene non ha alcuna speranza di realizzarsi. Al di là della strategia, ciò significa forse anche che la stessa democrazia ha bisogno di essere pungolata da una qualche alterità, sia essa interna o esterna alla forma democratica stessa. Insomma, tutto sommato, dovrebbe ringraziarmi! Non andrebbe in pratica da nessuna parte senza di me. Sto solo cercando di aiutarla!
Gauchet: Sì, la prego, mi dia una mano facendo prendere ai miei avversari un bello spavento! Per quel che mi riguarda, continuo a voler rimanere nell’alveo della democrazia liberale, e penso che il vero cambiamento sia alla mia portata molto più di quanto non sia alla sua, se così posso esprimermi. Tuttavia non resisto alla tentazione di risponderle nel seguente modo: proponendosi di aiutarmi, lei riconosce implicitamente che l’ipotesi comunista che intende rilanciare è in realtà priva di consistenza e che i suoi «effetti di realtà» si limitano al compromesso che consentirà di ottenere all’interno delle democrazie rinnovate. Mi vuol far dire che un riformismo conseguente ha bisogno del sostegno dell’ipotesi comunista? Ebbene, ammetto volentieri che per far sì che la politica riprenda il controllo della globalizzazione neoliberista tutte le forze disponibili allo scopo sono necessarie. Aggiungo anche che l’ipotesi comunista, che personalmente preferirei chiamare «utopia comunista», è necessariamente parte dell’orizzonte delle nostre società, al pari dell’utopia anarchica, in quanto è un prolungamento del principio di eguale libertà su cui esse si fondano. Penso pertanto che non possiamo farne a meno. Ma lei, interpretando l’ipotesi comunista come un alleato necessario del realismo democratico, trasforma la sua prospettiva radicale in un’anatra zoppa. È una bella ammissione, la sua! Stanti così le cose, posso anche sottoscrivere il patto che mi propone.
Badiou: Una grande alleanza al termine di questa discussione così accesa? Il patto fra di noi non potrà mai eliminare le nostre differenze e, quanto a me, non entrerò mai nell’alveo della democrazia parlamentare, eppure certo, perché no, eccoci di fronte a un epilogo quanto meno inaspettato! Anche gli avversari più irriducibili possono trovare un accordo se sanno comprendere che, in fin dei conti, ciascuno a modo suo e con le proprie armi, combattono lo stesso nemico.

Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia, in Micromega 1/2016, capitolo Alla ricerca di un patto perduto?, poss. 2179-220 (Kindle). Titolo originario: Que faire? Dialogue sur le communisme, le capitalisme et l’avenir de la démocratie © Philo éditions, Paris 2014.

L’avvenire dura a lungo

pablo

Pablo Iglesias su una motocicletta

I compagni greci ce lo hanno detto: i nostri buoni risultati nei sondaggi non sono necessariamente una buona notizia per loro [Berlino]. I nostri avversari infatti temono che ogni vittoria di Syriza possa alimentare il nostro successo, darci altro ossigeno. Il loro obiettivo non si limita dunque a tenere in scacco il governo greco: si tratta anche di sbarrare la strada ad altre minacce, come quella che rappresentiamo ai loro occhi. Mettere Syriza sotto pressione equivale a fare lo stesso con Podemos, dimostrando che non c’è alternativa. «Volete votare Podemos? Guardate che cosa succede in Grecia»: ecco in sostanza il ritornello che si recita agli spagnoli in questo periodo.

Dal nostro punto di vista, Alexis Tsipras si è dimostrato molto abile. È arrivato a dare corpo all’immagine di una Germania isolata, i cui interessi non coincidono necessariamente con quelli del resto dell’Europa, anche in termini di politica estera. È quel che ha cercato di far valere con Francia e Italia, con un successo limitato, ma anche con i paesi dell’Est. Dunque non bisogna stupirsi troppo che la Germania si mostri così dura nei negoziati

Pablo Iglesias, Le Monde Diplomatique, n.7/8, anno XXII, luglio-agosto 2015, p. 1.

L’avvenire dura a lungo, diceva il filosofo francese Louis Althusser. Quello che accade all’improvviso, quando meno te lo aspetti, stravolgendo gli equilibri – quello che il più famoso dei discepoli di Althusser, Alain Badiou, chiama Evento – accade sì una volta sola, e determina un nuovo tempo (politico, economico, sociale, messianico), ma accade anche in un lasso di tempo più lungo dell’evento stesso. Ciò è dovuto all’aspetto soggettivo dell’evento, al fatto che per rendere significativo un evento, per farlo entrare nella storia, un soggetto vi si deve legare retroattivamente, riconoscersi in esso, determinando la natura stessa di ciò che è accaduto come Evento. È solo un soggetto (politico, sociale, economico) che può dire che un evento è un Evento. L’evento è come l’albero nel bosco: se nessuno lo sente non è caduto. Questo è l’atto di riconoscimento di un evento come Evento (Rivoluzione francese, ritorno alle regole di Bretton Woods), qualcosa in cui un soggetto, riconoscendosi nello spirito, vi riconosce un cambiamento che vuole. E ci può voler tempo per capirlo. L’avvenire dura a lungo.

Di questa coscienza dell’Evento, che ha un tenore metafisico-religioso ma è più semplicemente una considerazione filosofica degli avvenimenti storici, ne sono consapevoli Pablo Iglesias e Alexis Tsipras. Il premier greco ha ceduto a parte delle richieste dei paesi del Nord Europa. Ha perso. Un po’, un po’ del tutto. Ha perso. Ma ha provocato cambiamenti di cui ne avremo la percezione soltanto alla fine dell’anno, e non è detto che saranno a vantaggio soltanto di chi ha vinto. Perché alla fine non è in gioco la salvezza della Grecia ma la scelta tra un’Europa politica o economica, e l’establishment economico-finanziario dell’Unione europea ha vinto, pagando però un po’ di egemonia.

Nonostante il tenore metafisico dell’Evento, il principio di realtà è forte. Pablo Iglesias ha scritto questo articolo molto prima della “capitolazione” della Grecia, ma sono parole ancora fresche nonostante la Grecia abbia perso. Chi vinca o chi perda, in gioco c’è molto più di un paese. La posta in gioco supera gli interessi particolari, nonostante gli interessi della società si vogliono sempre più piegati a interessi particolari. E questo lo sanno tutti. Tutti guardano avanti, a lungo, come l’avvenire. La Merkel, Hollande, Iglesias, Tsipras, sono molto meno nel presente di quanto lo sia l’opinione pubblica e i giornali, condannati a vivere in un eterno presente. Cos’è in gioco nei prossimi mesi? Il mantenimento dello status quo, delle rendite di posizione dei singoli Stati dell’Unione europea, o il suo squilibrio. Questo è in gioco.

Podemos e Syriza stanno squilibrando le posizioni senza mandare nessuno a casa. Anzi. Il loro scopo è costruirla, finalmente, questa casa comune.

Le insicurezze della divulgazione scientifica

Carlo Rovelli

Carlo Rovelli

«Per millenni l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate e odori stagnanti. Ha imparato a fiutare, registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come fili di bava.

Ciò che caratterizza questo sapere è la capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente. Si può aggiungere che questi dati vengono sempre disposti dall’osservatore in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa, la cui formulazione più semplice potrebbe essere “qualcuno è passato di là”. Forse l’idea stessa di narrazione (distinta dall’incantesimo, dallo scongiuro o dall’invocazione) nacque per la prima volta in una società di cacciatori, dall’esperienza della decifrazione delle tracce. Il fatto che le figure retoriche su cui s’impernia ancora oggi il linguaggio della decifrazione venatoria – la parte per il tutto, l’effetto per la causa – siano riconducibili all’asse prosastico della metonimia, con rigorosa esclusione della metafora, rafforzerebbe questa ipotesi – ovviamente indimostrabile. Il cacciatore sarebbe stato il primo a raccontare una storia perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi».

Carlo GinzburgMiti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 2013, pp. 166-167

«Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos’altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell’alba, che cerca fra la polvere della selva le tracce di un’antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo. Questo è la scienza.

La confusione fra queste due attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è l’origine dell’incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l’antilope cacciata all’alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l’antilope possiamo mangiare».

Carlo RovelliSette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Torino 2014, pp. 74-75

Il fatto non è che una certa cultura contemporanea, facendo confusione tra traccia e racconto, sia diffidente verso la scienza, ma al contrario che è la forzata, e inconsistente, distinzione che la scienza fa tra traccia e racconto a far insospettire una certa cultura contemporanea. Quella forzata separazione alla nascita tra indizio scientifico e ricostruzione indiziaria, tra racconto (scientifico) e magia.

Sono entrambe la stessa cosa. Rovelli fa la classica distinzione tra scienza e mito, per arrivare a dire che è il racconto di cose reali che ti porta a cacciare l’antilope e sopravvivere, mentre il mito del dio antilope non ti sfamerà. Una polemica bell’e buona, un’ubriacatura illuministica, quando si sa che il mito è la cristallizzazione di un racconto ad uso immediato. Si pensi al tabù dell’incesto, che vieta l’accoppiamento tra consanguinei sulla base del fatto (scientifico, ovvero basato sull’esperienza) che farlo non genera prole in salute. L’ingenuità sta nel fatto che il tabù è criticabile perché storicamente Edipo Re non è mai esistito. Però l’atomo esiste, eh.

Ho voluto mettere a confronto due citazioni complementari dello storico Ginzburg e dello scienziato Rovelli, per mostrare le insicurezze della divulgazione scientifica, di come a volte, nella sua missione di “educare alla ragione”, si arrovelli in autodistinzioni di sorta volte a sottolineare la sua novità, in uno slancio che non è che un rimasuglio positivistico. Dove lo storico Ginzburg dà per scontata l’inutilità di una distinzione netta tra linguaggio magico e scientifico, lì lo scienziato divulgativo Rovelli si arrovella in distinzioni capziose.

Si sa che tra magia e racconto (scientifico) c’è una differenza. La prima è una formula utile per se stessa, il secondo è il riferire ciò che si è visto. La magia proferisce su un evento che accade nel dirlo (“vi dichiaro marito e moglie”, “scudo energetico”), il racconto proferisce su un evento accaduto indipendentemente dal fatto che lo si racconti o meno. Ma entrambe, magia e scienza, fanno parte di una stessa classe: quella indiziaria, dell’indicare cose con le parole, il linguaggio. Questo è quello che sfugge alla scienza divulgativa, e che dovrebbe invece divulgare. Nella sua ansia da prestazione, vuole distinguere fra genere e genere, senza rendersi conto che ha a che fare con lo stesso genere. Ha paura di far parte della realtà artificiale del linguaggio. Ha paura di essere un sapere tra gli altri, un sapere storico. Paura giustificata dal pregiudizio secondo il quale ammettendo l’aspetto magico della scienza crolli l’impalcatura razionalistica.

Ginzburg, e tanti altri prima e dopo di lui, ci mostrano come la dialettica magia-scienza non è tra irrazionalità e razionalità. La distinzione è a monte. La storia della scienza ci mostra che la ragione è un modo per indicare i progressi di un procedere a tentoni, a passi falsi, uno strumento che, quando ha raggiunto il suo obiettivo, la scoperta, illumina retroattivamente un cammino alla cieca. Lo scrittorefilosofoparapsicologo (come lo chiama wikipedia, cioè divulgatore) Arthur Koestler chiama “sonnambuli” gli scienziati più importanti degli ultimi secoli.

Inventare racconti, seguire tracce, formulare ipotesi, sperimentare teorie, raccogliere le prove, trovare il colpevole, ricostruire civiltà sulla base delle rovine. Ma anche immaginare mondi, raccontare favole, formulare incantesimi, maledire, promettere e supplicare. Tutto questo rientra in uno stesso gioco, di cui lo stesso Rovelli è consapevole: scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguirne le tracce. È l’arte venatoria, l’arte della caccia, l’arte indiziaria. Che sia scienza o letteratura, conoscenza certa o approssimazione metaforica, si tratta sempre di un oscuro scrutare. Che ti riferisca agli elementi atomici, alla gravità, al funzionamento termodinamico del calore, o alla realtà invisibile delle anime che popolano animali e cose, si tratta sempre di parlare di cose che non esistono, che non sono qui, visibili, di cui ci si può solo limitare a parlarne, il che non è poco, visto che si può, parlandone, arrivare a costruirci una teoria.

Che questa paura della scienza divulgativa di essere contagiata dalla magia sia immotivata lo si vede dal fatto che anch’essa usa formule magiche: le equazioni. Scaccia la magia dalla porta per farla rientrare neanche dalla finestra, ma di nuovo dalla porta principale. Buttate in un testo divulgativo, tra un capoverso e l’altro, le formule algebriche sono lì proprio per attestare l’ignoranza di chi legge e la sapienza di chi scrive. Alla faccia della divulgazione! Accompagnate da un “lo so che non significa niente per voi, ma osservatene la bellezza”, le equazioni sono le nuove formule magiche: solo pochi possono capirle, ma tutti ne intuiscono la bellezza-semplicità.

Sì, è vero, le formule funzionano. Le equazioni sono fondamentali per costruire i palazzi. Ma la scienza divulgativa deve sapere che nel momento in cui comunica in questo modo, alludendo a enunciati simbolico-numerici che non può spiegare, pena la fine del testo divulgativo, non è più quella forma di sapere aperto a tutti – quella ragione naturale che tutti adoperano in modo universale -, ma proprio quel sapere ermetico, dogmatico, che combatte. La divulgazione scientifica affascina perché è emancipatrice, come ogni spiegazione, come la ragione. Sapere aude! Nello spiegarti semplicemente cose complicate, allude inevitabilmente a un sapere esotico, indiziario, elitario, speciale, inconoscibile, e insieme accessibile: emancipante! Ma il divulgatore, forse perché deve spiegare tutto e non lasciare nulla insoluto, ha paura di ammettere questa proprietà della conoscenza stessa: il conoscibile include, nella sua struttura, l’inconoscibilità. Siamo tutti d’accordo che la scienza esplora e scopre. E se finisse per spiegare TUTTO, cosa resterebbe? Il nulla, la morte. La scienza, e questo è il mantra della divulgazione, si limita ad allungare l’orizzonte del conoscibile all’infinito. Però nello stesso tempo la divulgazione ci tiene a distinguersi dal linguaggio metaforico, allusivo, magico, delle altre scienze, quando poi ci tiene ad utilizzare la metafora più adatta (e fuorviante) per spiegare gli eventi più violenti dell’universo.

La scienza divulgativa è combattuta tra la buona novella della spiegazione chiara per tutti e quel sapere esclusivo che solo pochi possono capire. Questo genera un’insicurezza di fondo che la porta a volersi distinguere da tutte le altre scienze, dalla letteratura, dalla psicoanalisi. Ossessionata dal terrore per l’irrazionalità, commette disastri, portando a esempio della potenza della scienza gli strumenti terribili della tecnica: la scienza accumula dati come nessuno, e questo sarebbe meraviglioso. Mappa i geni, mappa il cervello di piccoli mammiferi, e questo sarebbe promettente per l’umanità. Per farci cosa, non si sa. Un accumulare che non ricorda la serena osservazione del cielo galileiano, la mendeliana conta dei piselli, quanto piuttosto quei metadati di cui la National Security Agency non sa che farsene, finché non gli servono. La scienza divulgativa è ubriacata di illuminismo, scaccia la fede e nutre un’incrollabile fede per la conoscenza certa, inorridisce del trascendente per glorificare la ragione come un organo che trascende l’apparenza delle cose.

Su questo Piero Angela ha una marcia in più. Poiché ha nel sangue la missione educativa della Rai, non perde di vista l’obiettivo. Non ha l’arduo compito di educare gente laureata, a differenza dei grandi divulgatori da best-seller mondiali. Vola basso, senza mostrare formule, senza vantarsi della difficoltà delle spiegazioni, senza distinzioni forzate tra sé e tutte le altre scienze. Una distinzione che riflette, alla fine, distinzioni di classe (tanto lo studio delle equazioni quanto la formula magica, tanto la conoscenza scientifico-matematica quanto quella esoterica, richiedono tempo libero per studiare e reddito per mantenersi). La scienza di Piero Angela è emancipatrice, quella di Rovelli o di Hawking no.

I divulgatori partono dal presupposto che “tutte le intelligenze sono uguali” (Rancière), che tutti, se usassero la disarmante semplicità della spiegazione razionale, potrebbero comprendere tutto, anche le ingiustizie. Ma Rovelli & Co. si arrovellano in autodistinzioni di sorta, mentre Piero Angela ammette i limiti del potente strumento della ragione, rimandando alle generazioni future la comprensione di ciò che oggi non possiamo sapere, piuttosto che alludendo a formule che capiscono un pugno di persone. La comunicazione scientifica dei grandi best-seller rifugge inorridita l’irrazionalità, per ammaliarsi del conflitto tra teoria della relatività e modello standard, il cui simbolo, come un geroglifico magico, è il buco nero. Divulgare significa far sapere quello che si sa a quante più persone possibili, e per farlo bisogna giocare esattamente con l’ambiguità magica della scienza. Come il cristianesimo, che per essere il più popolare possibile ha dovuto sacrificare un po’ di monoteismo per abbracciare i riti pagani dei loro fedeli.

Che cos’è il capitalismo?

Fréderic Lardon

Fréderic Lardon

Cos’è questo capitale? Piketty, che «non [ha] mai veramente provato a leggere» “Il Capitale”è molto difficile da leggere», intervista, “The new repubblic”, Washington, Dc, 5 maggio 2014), non può che fornire un concetto dei più superficiali: quello patrimoniale. Il capitale è la ricchezza dei ricchi. Per Marx il capitale è tutt’altro: è un modello produttivo, ossia un rapporto sociale. Un rapporto sociale complesso che, al rapporto monetario delle semplici economie commerciali, aggiunge – ed è il cuore della questione – il rapporto salariale, costituito attorno alla proprietà privata dei mezzi di produzione, alla fantasmagoria giuridica del «lavoratore libero», quello stesso individuo però privato della possibilità di riprodurre da sé la propria esistenza materiale, gettato sul mercato del lavoro e, per sopravvivere, obbligato ad andare alle dipendenze di qualcuno e a sottomettersi all’impero padronale, in un rapporto di subordinazione gerarchica.

Il capitale è questo – e non solo la hit-parade dei ricchi della rivista Fortune. Il capitale, anche nella sua versione strettamente patrimoniale, colpisce inevitabilmente l’uomo comune con l’osceno spettacolo delle disuguaglianze economiche. E lo colpisce ancora più profondamente se si considera il capitale come modo di produzione e rapporto sociale, salariale innanzitutto: per mezzo dei vincoli nei quali sigilla la loro stessa vita – perché otto ore sono la metà del tempo di veglia. Gli operai di Continental, di Fralib, di Florange, ecc., sono devastati dalle loro esistenze saccheggiate dalla legge ferrea della valorizzazione finanziaria del capitale prima di essere disgustati dall’insolente ostentazione dei ricchi. E questo vale anche per quanti, nel lavoro, soffrono in silenzio la tirannia della produttività, la massacrante mobilitazione al servizio della redditività, la minaccia permanente – di licenziamenti, delocalizzazione, ristrutturazione aziendale sul modello France Télécom -, la precarietà che rode il fegato, la violenza generalizzata dei rapporti nel luogo di lavoro. Di tutto questo non si trova traccia nel Capitale [di Piketty].

Con Thomas Piketty, il Capitale del XXI secolo non corre pericoli, in Le monde diplomatique, n. 4, anno XXII, aprile 2015.

Partendo da un’analisi critica del best seller di Piketty, l’autore di La Malfaçon fa una delle più efficaci e recenti sintesi del capitalismo. Quando vi sentite dire: “Ancora con sto capitalismo, e basta”, sbattetegli in faccia questa citazione.

“Capitalismo” non significa “capitalista”. Non significa ricco ma (un certo modo di fare) ricchezza. Capitalismo non è l’industria ma il modo in cui è organizzato il lavoro al suo interno. Ci sarà sempre un “capitalista”, uno sfruttatore, un colono, uno speculatore, anche senza capitalismo. La storia ne è piena. Così come dietro la coolness di amministratori delegati della Silicon Valley non ci sono nient’altro che commercianti. Grossi, enormi, ricchissimi commercianti (e non vi fate ingannare se sono magri e vestono sempre uguale, sono sempre squali molto grossi). Piuttosto è una novità, da qualche secolo a questa parte, che l’economia viene concepita esclusivamente come «rapporto sociale di tipo salariale».

Cosa ci dice Lordon con Marx? Che l’uomo coltiva, commercia, fa la guerra, in una parola vive in società, da circa 10mila anni. Che la forma della società è determinata dall’economia che si sceglie di adottare (questo è uno dei primi insegnamenti di Marx). Ma è da pochi secoli che l’uomo, nella generale condizione di sfruttamento che determina qualsiasi economia, ha adottato (oggi a livello planetario) un modello economico straordinario per ricchezza e produttività: il capitalismo.

La novità del capitalismo non è lo sfruttamento delle risorse e delle persone. Già coltivare implica entrambe. Piuttosto è l’intensità ottimale con cui riesce a sistematizzare questa doppia caratteristica di qualunque economia. Quanto più i telefoni si evolvono, tanto più viene generata disuguaglianza. Il che ha anche una sua logica: quando c’è da nutrire il mondo, e l’unico modo è attraverso lo sfruttamento delle risorse e delle persone, è ovvio che bisogna sfruttare perlomeno metà del mondo per soddisfare gli enormi bisogni dell’altra metà.

Al di là di ogni giudizio morale su un mondo concepito così, è indubbio che si tratta di un modo di vivere storicamente determinato, e pure di recente. Marx, sottolinea Lordon, ci insegna nient’altro che il capitalismo è una condizione secolare, non spirituale. Si è schiavizzato, poi vassallato, colonizzato, infine capitalizzato. Lo sfruttamento (delle risorse, delle persone) è il fulcro dell’economia.

Che ci resta da fare se la storia, tutto sommato, è sempre stata capitalista? Forse non ci libereremo mai della imprescindibile necessità di sfruttare (liberismo); oppure se soltanto ci provassimo potremmo invece trovare un’alternativa (comunismo). Una cosa però possiamo farla da subito: essere consapevoli della situazione in cui siamo gettati.

Il sociologo Lordon sottolinea due cose importanti. La prima è che “capitalismo” non è qualcosa di riconducibile a un volto, forse neanche a un simbolo. Sembra ultrastorico, vista com’è segnata la storia da imperi e colonie. Ma in realtà è un fenomeno prettamente storico e umano, un modo di produzione non solo recente, ma anche identificabile: un rapporto salariale (lavoro) fondato su mezzi di produzione (catena di montaggio) che non devono appartenere a chi li adopera (operatore call center). È la ragione per cui oggi il termine è tranquillamente scomparso dall’uso comune: cosa nomini con “capitalismo”?, la tuba?, l’occhiello? un call center? Marchionne? “Capitalismo” è ormai nostalgia di un mondo in cui si poteva nominare ciò a cui opporre una visione alternativa. E visto che oggi di alternative al capitalismo non ce ne sono, è arrivato il momento di non nominarlo più e metterci una pietra sopra. In un mondo di pazzi, che senso ha parlare di “pazzia”?

La seconda cosa che sottolinea Lordon è che capire è il primo passo per capire se ci sono alternative. È esattamente quello che Marx ci insegna, visto che è diventato un autore classico con un libro che non si chiama Come diventare comunista ma [che cos’è] Il capitale. L’alternativa, in realtà, Marx non se l’è mai posta, ha scritto un libro su una cosa che di alternative non vuole proprio saperne. Ha impegnato la sua vita a scrivere un libro che analizza un modello di produzione economica egemone e potente, transnazionale e transculturale, senza volto, ideologicamente indistruttibile grazie a quell’idea di ricchezza che non dipende da nient’altro che dalla propria capacità di fare profitto. Un modello produttivo senza limiti, capace di assecondare, meglio di chiunque altro, quell’impulso tecnologico (τέχνη, saper fare) dell’uomo che lo spinge oltre la natura e la vita. L’idea di Marx era di andare avanti con questa analisi perlomeno per un paio di generazioni, ma poi è morto.

Marx non ci insegna a fare la rivoluzione, a cambiare le cose, ad agire. Ci insegna che per fare qualunque cosa dobbiamo prima capire. Marx era un comunista che scrisse un libro difficilissimo e bellissimo, l’unico che si conosca che sia riuscito ad analizzare, e soltanto in parte, un modello economico devastante.

Diritto all’omosessualità o alla sessualità?

Una pubblicità Dolce e Gabbana

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Il dibattito mondiale sui diritti dei gay fa un altro passo da gigante: alcuni artisti che amano vestire di marca boicotteranno una famosa marca di vestiti fondata da un’ex coppia omosessuale.

L’appiccico su twitter e instagram di Courtney Love ed Elthon John contra le dichiarazioni di Domenico Dolce in un’intervista su Panorama dona un tocco glamour al dibattito sui “diritti dei gay”. È un segno di questi tempi dove la privacy è scoperta come un guanto rivoltato, esposta alle intemperie e alle infezioni, e lentamente sparisce come una ferita cauterizzata. Per cui se hai un’opinione tua personale e la dici a un giornale diventa subito una questione ideologica. È il piano politico e privato che fa cortocircuito. Cazzo devi essere d’accordo nel dare ai gay il diritto di sposarsi e avere figli, si porta, altrimenti sei una merda bigotta. «Saremmo contrari alle adozioni gay. Non è vero. Domenico – lo difende Stefano Gabbana – ha semplicemente espresso la sua opinione sulla famiglia tradizionale e sulla fecondazione assistita. Altri fanno scelte diverse? Liberissimi». Ora non lo so quanto è opportunista sta difesa del socio in affari, non so se lo stilista Domenico Dolce è così illuminista da essere pronto a vivere in un mondo dove le coppie gay hanno un figlio pur volendo vivere in un mondo dove esiste solo la famiglia tradizionale. Una posizione di questo tipo, così tollerante, è difficile da mantenere nel mondo di oggi così intollerante. Se c’era bisogno di dirlo, la sua posizione è ovviamente una paraculata visto che i consumatori di prodotti D&G sono anche omosessuali omofobi per cui bisogna stare attenti alle vendite.

Ma Domenico Dolce, nell’intervista oggetto di scandalo per Sir John, dice una cosa interessante: i figli di una coppia omossessuale sono «artificiali» (synthetic). Il che è un’affermazione filosofica, antropologica, più che bigotta. Senza dilungarmi troppo, c’è un’artificialità connaturata alla specie uomo, si pensi al mondo simbolico del senso e del linguaggio che lo emancipa dalle necessità naturali e insieme lo danna. Una natura dell’uomo che proprio nella fecondazione assistita, artificiale, spunta fuori come un’istanza che brucia e fa male, perché ancora non ci abbiamo fatto i conti. Domenico Dolce, filosofo della natura suo malgrado.

Questa polemica fashion solleva un problema non da poco: un mondo che riconosce famiglie omosessuali è un mondo più giusto? È una domanda parziale, mal posta, la stessa che si pongono Elton John e Courtney Love. Lo so, c’è l’insopprimibile voglia di rispondere “sì!”, ma stiamo attenti, non per essere omofobi o di quelli per cui ci sono “problemi più importanti”, ma perché in genere quando rispondiamo entusiasti a domande così facili in realtà abbiamo già l’ano inumidito di vasellina. La questione della sessualità è centrale, ma è solo strumentale se viene posta così, mancando di un pezzetto fondamentale: cos’è una società giusta, uguale? La risposta della logica è secca: non è una società giusta quella che dà diritti ai gay, ma una società giusta e uguale darà necessariamente un diritto universale a vivere la propria sessualità.

Fa figo supportare i diritti dei gay, ma quanto siamo disposti ad andare al fondo di una questione superficiale come i “diritti dei gay” e approdare alla questione capitale: come la politica deve gestire i corpi e la sessualità. Una società che riconosce matrimoni omosessuali non è il segno di una società democratica, se questa è la stessa società che decide anche quando devi partorire; che dà un “libero uso del corpo” sposando i gay e insieme garantisce prosperità a un pugno di società informatiche nel gestire le nostre identità reali in un formidabile flusso di metadati; che ti permette di acquistare qualunque cosa da qualunque parte del mondo comodamente seduto sulla tua sedia da ufficio grazie a un esercito di schiavi che garantisce una logistica della distribuzione impeccabile (è facile poi dire che le poste italiane fanno schifo). Così facendo i pregiudizi atavici sull’omosessualità vengono distrutti solo sul piano istituzionale, lasciando intatte le resistenze culturali, e la libertà di Salvini di esistere.

Viviamo insomma in un mondo profondamente disuguale nel quale una parte del mondo ricco lotta per il diritto a farsi riconoscere la sessualità dal comune di residenza. Il fatto non è che non è democratico un mondo che riconosce diritti ai gay ma, al contrario, è soltanto in un mondo democratico, libero e uguale, dove il governo dei corpi è limitato, la ricchezza ben distribuita, che ognuno è libero di vivere la propria sessualità. La questione è la società libera e uguale, non la libertà di una società di riconoscere quello che gli pare. E no, o l’emancipazione è universale o non è emancipazione, ciccio, altrimenti sembra che la scelta è soltanto tra la posizione “fascista” di Elton John e quella ipocrita degli stilisti italiani.

La coazione a ripetere delle polemiche fashion sui diritti dei gay è il sintomo di una resistenza, il fatto che la questione della sessualità non viene nemmeno sfiorata, ridotta com’è a una questione puramente politica, di classe. Elton John e il suo agente attuano un efficace marketing comunicativo, boicottano stilisti omosessuali omofobi, sperando di sensibilizzare l’opinione pubblica verso un maggior riconoscimento dei diritti dei gay. E il piano culturale, ovvero la persistenza, nel privato – come per Domenico Dolce che, educato alla maniera cattolica, non può sopprimere l’idea che amare lo stesso sesso è peccato – di preconcetti e condizionamenti resta irrisolto. Elton John, che con le sue splendide canzoni e il suo stile contribuisce allo stereotipo del gay (il gay si veste un po’ come Elton John, no?), avrà le sue ragioni, personali, di ottenere i diritti di una coppia gay benestante. Ma la società e le sue libertà, la politica e la sua pratica sono qualcosina di più di tutto questo.

Il problema è che si crede che solo la politica debba occuparsi della sessualità. È una cosa tragica, perché vuol dire che accettiamo il governo dei corpi, il controllo delle identità, ma cazzo vogliamo che in Comune debba sposarsi chiunque. Certo, è ormai ineluttabile la natura bio-politica della politica, con il suo enorme controllo delle nascite, della vita, del sesso e della morte, ma pretendere che debba fare tutto da sola senza coinvolgere educazione e coscienza, significa illudersi di emancipare la società anteponendo radicalchicchismo e conservatorismo di destra. È ovvio che i diritti dei gay si conquistano, proprio in quanto diritti, sul piano politico prima di tutto, ma, proprio in quanto si tratta di un piano politico, il presupposto deve essere universale e non riguardare solo chi si può permettere un fantastico matrimonio gay. La finalità dell’emancipazione sessuale è molto più ambiziosa di una semplice legge.

A che serve la filosofia (e la comunità)

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«Ciò che la filosofia stessa rivela, una volta giunta al limite, è che l’esistenza non è un’autocostituzione di senso, ma ci offre piuttosto l’essere che precede il senso. Di qui l’immancabile effetto comico della filosofia: fallisce a colpo sicuro il reale dell’esistenza.
Immagino che non ci sia nessun vero filosofo che non si sia sentito, almeno una volta nella vita, stretto dall’angoscia di questa beffa. Non uno che si sia detto, almeno una volta, che tutto il lavoro del pensiero è un onere inutile e grottesco, mentre l’esistenza, la vita, la morte, il pianto, la gioia, l’infimo spessore quotidiano lo precedono sempre e di molto. Viceversa la comunità tollera soltanto con humour o con ironia colui che la tradisce più di tutti gli altri. In un certo senso l’unica questione sarebbe questa: perché continuano ad esserci dei filosofi e perché la comunità continua a far loro posto? Perché questa funzione non è scomparsa insieme con la ricerca della pietra filosofale?

Sul suo limite la filosofia ha dunque a che fare col fatto che il senso non coincide con l’essere (almeno finché l’essere è considerato il luogo del senso). E’ quindi il limite dove anche la comunità si sospende: non c’è un’autocomunicazione del senso e la comunità non ha forse niente e soprattutto non è niente di comune. Essa non ha neppure co-umanità, co-naturalità o co-presenza con una qualunque cosa di un mondo che essa rende inabitabile man mano che lo investe. Al limite – della comunità, della filosofia – il mondo non è un mondo – è un cumulo, e forse immondo. Non possiamo più dire: «ecco il senso, ecco la co-umanità ed ecco la filosofia – o le sue filosofie, nella loro feconda competizione…». Si sa soltanto questo: il senso non può appropriarsi il reale, l’esistenza.
Tale è il ‘senso’ di tutti i ‘temi’ maggiori del pensiero contemporaneo – che si tratti dell”essere’, del ‘linguaggio’, dell”altro’, della ‘singolarità’, della ‘scrittura’, della ‘mimesi’, della ‘molteplicità’, dell”evento’, del ‘corpo’ o di molti altri ancora. Si tratta sempre di ciò che si potrebbe chiamare, nel lessico tradizionale delle dottrine, un realismo della verità inappropriabile».

Jean-Luc NancyLa comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 2013, pp.178-180.

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A questo punto, continuando nel percorso decostruzionista, direi che ci calza a pennello Badiou:

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«La filosofia ha in realtà una doppia origine, e credo che non si insista a sufficienza su questo punto. La filosofia non è nata in modo semplice: come tanti altri mostri, è nata due volte. E’ nata una prima volta con tutti quelli che chiamiamo i presocratici: Parmenide, Eraclito, Empedocle. Ma tutti loro erano poeti, dunque la filosofia è nata la prima volta nella poesia. E’ nata una seconda volta, probabilmente con Platone, o con Socrate, e questa seconda nascita era contraria alla prima. La seconda nascita è una critica della prima. 
Il poeta parla mediante l’autorità della parola. Se leggete ciò che rimane di Eraclito e di Parmenide, potrete sentire bene questa autorità pura della parola: “del non-essere non ti permetto di dirlo né di pensarlo”; “tutto scorre, nulla rimane immobile”. Questo è il tono della prima filosofia, un tono ancora molto vicino a quello della parola sacra, quella parola che dichiara che la sua verità è legata a colui che parla. La filosofia è nata con quell’autorità.
La seconda nascita è invece la critica radicale di questo punto e comporta un’idea completamente diversa: l’idea che la verità di ciò che viene detto non deve dipendere da colui che parla, la parola della verità non è parola sacra, bensì parola che deve essere provata. Si tratta di un conflitto molto profondo perché riguarda l’origine stessa della verità. La verità è ispirazione soggettiva? Oppure è un sistema di dimostrazioni e argomenti che chiunque può far proprio, riprodurre e discutere?»

Alain BadiouDel capello e del fango, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2009, pp. 52-53.

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L’affresco di Raffaello Sanzio è quindi sbagliato: non sono Platone e Aristotele i fratelli coltelli, ma Parmenide e Socrate, che guarda caso sono uno sopra l’altro.
Ad ogni modo, filosofia è convincere argomentando. Eggrazie che poi ti si scolla essere e senso, esistenza ed essere, cose e parole. Se davvero filosofia è, nel dire, tenere insieme due intenzioni contrapposte, allora si merita la sua fine, il suo proprio fine, la sua indecidibile scoperta: la verità è inappropriabile.

Nun se po’ sentì

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«Nun se po sentì un nobile declassato che non solo abusa di un “compagno”, ma che addirittura l’appella a un tizio di cui avrà ascoltato sì e no due canzoni sfrecciando con la Jaguar di papà sulla costa Azzurra. No, in nome di quel briciolo di dignità che è rimasto alla sinistra, in nome di Lenin, Marx e di un eroinomane newyorkese che cantava l’amore trans nella capitale del capitalismo underground, no». Questo avranno pensato i Wu Ming.

Che cosa non è l’ateismo

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«L’ateismo di Nietzsche è un ateismo del tutto particolare. Nietzsche non deve essere incluso nella problematica compagnia di quegli atei superficiali che negano Dio se non lo trovano in provetta, e che al posto di Dio, negato in questo modo, “divinizzano” il loro “progresso”. Non dobbiamo scambiare Nietzsche per uno di quei “senza-dio” che non possono nemmeno essere tali, perché non hanno mai lottato né sono capaci di lottare per conquistarlo […].

Non possiamo fare del termine e del concetto “ateismo” una parola di battaglia, e di difesa, cristiana, come se ciò che non corrisponde al Dio cristiano fosse “in fondo” già per questo ateismo […]. Solo gli ignavi e coloro che si sono stancati del loro cristianesimo vanno a cercarsi nelle affermazioni di Nietzsche una conferma a buon mercato del loro problematico ateismo». 

Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 2005, p. 272.