Scienza e filosofia secondo Enzo Melandri

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«Che le scienze sorgano distaccandosi dalla filosofia è vero; ma è solamente una mezza verità. L’altra metà di questa mezza verità è che la filosofia sorge dalle crisi delle scienze, alimentandosi di quanto vi è in esse di non-scientifico: e le “crisi di fondazione” rivelano periodicamente che in ogni scienza c’è parecchia metafisica. Nondimeno tendiamo tutti a supporre che il distacco della scienza dalla filosofia sia calzante almeno per l’epoca moderna. Da Galilei in poi, tutte le scienze si sono costituite distaccandosi dalla filosofia.

Reciprocamente in epoca antica la filosofia comprendeva tutto e quindi le scienze non potevano rendersene autonome. Ma è proprio vero che sia sorta prima la filosofia e poi le scienze? – Non è vero. Le prime arti-scienze particolari sono sorte nel neolitico. La filosofia greca è la razionalizzazione della crisi che esse subiscono quando pervengono a coesistere nel superiore, più complesso e difficile livello organizzativo della polis. Il progresso accusa quindi una battuta di arresto. Poi, duemila anni dopo, viene il mondo moderno, che è una specie di neo-neolitico. Le seconde scienze-tecniche particolari si distaccano dalla filosofia del primo periodo di crisi e si riapre la vicenda del progresso. Anche qui le cose vanno avanti bene, fino a che le scienze possono sopportare la crisi a cui di nuovo vengono soggette per il fatto stesso di dover coesistere nel superiore, più complesso e difficile livello organizzativo del moderno capitalismo. Ma a questo punto sorge il marxismo, il quale in ultima analisi consiste nella profezia che il progresso dovrà nuovamente accusare – e possibilmente per sempre – una battuta di arresto. La seconda filosofia, se la profezia è vera, sarà la razionalizzazione compendiaria di quest’ultima crisi, che per molti segni si annuncia come definitiva anche nel senso apocalittico.

Lasciamo stare l’inquietante problema del rapporto fra scienze e filosofia. (Noi personalmente tendiamo a credere che anche un mediocre filosofo e per di più del tutto dissenziente con le nostre idee tipo Terenzio Mamiani della Rovere sia superiore per intelligenza complessiva a uno scienziato di tutta simpatia e indiscussa autorità tipo Einstein: ma è una privata opinione che palesiamo per solo scrupolo di onestà e che non vorremmo imporre ad alcuno). Una cosa è certa: ed è che le scienze alimentano la filosofia per lo meno tanto, quanto la filosofia le scienze. Al mondo nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma, e il totale rimane sempre tale e quale».

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 220-221.

Foto in alto (via)

Archeologia filosofica

La radiazione cosmica di fondo fotografata con un radiotelescopio

La radiazione cosmica di fondo fotografata con un radiotelescopio

La relazione tra archeologia e storia corrisponde a quella che, nella teologia islamica (ma anche, sia pure in modo diverso, nella teologia cristiana e giudaica), distingue e, insieme, congiunge redenzione e creazione, «imperativo» (amr) e «creazione» (khalq), profeti e angeli […]. L’opera della salvezza precede, nel rango, quella della creazione: di qui la superiorità dei profeti sugli angeli. (Nella teologia cristiana, le due opere, unite in Dio, sono assegnate nella Trinità a due persone distinte, il Padre e il Figlio, il creatore onnipotente e il redentore, in cui Dio si è svuotato della sua forza).

Decisivo, in questa concezione, è che la redenzione preceda nel rango la creazione. Essa non è un rimedio per la caduta delle creature, ma ciò che soltanto rende comprensibile la creazione, dà ad essa il suo senso. Per questo, nell’Islam, la luce del profeta è il primo degli esseri (così come, nella tradizione giudaica, il nome del messia è stato creato prima della creazione del mondo e, nel cristianesimo, il Figlio, pur generato dal Padre, gli è consustanziale e coevo) […].

La storia delle scienze umane, prima di entrare in una fase di recessione, ha conosciuto un’accelerazione decisiva per tutta la prima metà del XX secolo, quando la linguistica e la grammatica comparata hanno assunto in essa la funzione di «discipline pilota» […]. Proprio nel momento in cui la grammatica comparata, nel suo tentativo di ricostruire, attraverso l’esame di dati esclusivamente linguistici, non soltanto e non tanto i «nomi divini», quanto piuttosto le linee generali delle stesse «istituzioni indoeuropee», raggiungeva col Vocabulaire di Benveniste il suo vertice, si assisteva a una recessione generalizzata di un tale progetto e alla svolta della linguistica verso il modello formalizzato di tipo chomskiano, nel cui orizzonte epistemologico quella ricerca risultava difficilmente proponibile.

Se è vero che la ricerca aveva registrato un progresso significativo quando aveva abbandonato l’ancoraggio a una lingua presupposta come reale e a un popolo che la parlava […], tuttavia non era possibile in quella prospettiva recidere del tutto il collegamento al sostegno ontologico implicito nell’ipotesi.

Nella prospettiva dell’archeologia filosofica che qui si propone, il problema dell’ancoraggio ontologico va integralmente rivisto. L’arché verso cui l’archeologia regredisce non va intesa in alcun modo come un dato situabile in una cronologia; essa è, piuttosto, una forza operante nella storia, così come le parole indoeuropee esprimono un sistema di connessioni fra le lingue storicamente accessibili, il bambino nella psicoanalisi è una forza attiva nella vita psichica dell’adulto e il big bang, che si suppone aver dato origine all’universo, è qualcosa che continua a inviare verso di noi la sua radiazione fossile. Ma a differenza del big bang, che gli astrofici pretendono, anche se in termini di milioni di anni, di datare, l’arché non è un dato o una sostanza, bensì un campo di correnti storiche bipolari, tese tra l’antropogenesi e la storia, fra il punto di insorgenza e il divenire, fra un arcipassato e il presente.

Giorgio Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 107-111.

Agamben, che non è un astrofisico, né a quanto pare un astrofilo, non sapendo che in realtà il Big Bang non si data in milioni ma in miliardi di anni conferma involontariamente ancora di più la concezione di archeologia filosofica che propone. Che il big bang sia avvenuto ieri o quattordici miliardi di anni fa non importa: ciò che è in gioco nella conoscenza scientifica di ciò che accadde quando tutto ebbe inizio non è tanto cosa è veramente accaduto ma come la verità di ciò che è accaduto significhi per noi. La posizione del soggetto nel paradigma della conoscenza pone scienza e religione in una posizione strana, in uno stesso campo di battaglia dove epistemologia (conoscenza certa) ed ermeneutica (interpretazione) entrano in una soglia (per usare un termine caro ad Agamben) di indistinzione. L’assunto è che ogni conoscenza, la più obiettiva concepibile, è già un atto interpretativo, secondo l’efficace nietschismo per cui le interpretazioni sono quello che chiamiamo fatti.

Non ha importanza se esista o meno una lingua indoeuropea. Se fosse mai esistita è ormai andata perduta per sempre, ma anche se non fosse esistita nondimeno il linguista, domandandosi da dove venga la parola “Dio”, può rintracciarne un’origine attraverso la comparazione delle lingue esistenti, alla ricerca di un tessuto comune che non coincide con un’origine felice, con una società senza classi o con una buona società prima della nascita della comunità, piuttosto con una creativa conoscenza delle cose presenti. (Questa “creativa conoscenza delle cose presenti” è ciò che differenzia questa impostazione storico-ermeneutica dalle narrazioni restauratrici dell’estrema destra, che si appellano a un'”origine” letteralmente genealogica, realmente esistita, allontanandosi proprio così da ciò che è decisivo: un’origine indistinguibile dal presente storico; o meglio, un’origine che si “scopre” proprio a partire da ciò che ci preme, che ci urta, oggi).

È una prossimità indistinguibile tra fede e conoscenza, tra filologia e anatomia, tra visione diretta (scienze “tecniche”) e traduzione (scienze “umane”). Una vicinanza che scioglie ogni pretesa di rendere queste due attitudini della conoscenza due approcci separati al mondo delle cose (presunzione che riduce entrambe le “teorie” a una deiezione mondana, alla mercé della masticazione quotidiana dei telegiornali). Ogni volontà di tenere separato cielo e terra è votata al fallimento, perché volente o nolente è opportunista: mio caro Chomsky, questa distinzione tra formalismo ed estetica dell’interpretazione è talmente forzata da determinare una prossimità decisiva della prima alla “mano invisibile” del mercato e dell’economia capitalista, ormai lo sanno tutti.

Questa soglia di indistinzione, che compare ogni volta che la scienza si avvicina all’inizio dei tempi, alla conoscenza ultima, prima della quale c’è soltanto un vuoto pieno di energia – cosa che manda in brodo di giuggiole ogni fricchettone e spiritualista tecno-scientifico (“lo vedi, io l’ho sempre detto che lo Zen Buddista del Tao aveva ragione!) – è un concetto confermato non solo dai filosofi, ma anche dagli scienziati:

La teoria del Big Bang descrive come il nostro universo evolve, non come esso iniziò

James Peebles, in Wikipedia (Wikipé, spero che la citazione sia corretta!)

Insomma siamo sempre in gioco noi come soggetti, qualunque sia il grado di obiettività di ciò che indichiamo come certo.

La scienza e la filosofia

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« […] il libero arbitrio è una questione terribilmente difficile da affrontare per i fisici. Di solito cerchiamo di evitarla. Non fa che confondere questioni che altrimenti apparirebbero chiarissime. Tanto più con le macchine del tempo».

Kip ThorneBuchi neri e salti temporali, l’eredità di Einstein, Castelvecchi, Roma 2013, p. 529.

L’ingenuità con la quale gli scienziati approcciano o, come in questo caso, accennano a temi filosofici è sempre divertente, perché non si rendono conto neanche dell’ingenuità con la quale la pongono. È il segno dei tempi, dei tempi di una scienza senza filosofia, ma non di una filosofia che, nonostante sia in crisi, persiste a ragionare sulla scienza, sul suo ruolo.

Come sempre quando una dottrina della conoscenza sparisce (in questo caso la filosofia), ci si dimentica dei basilari. Il fisico di fama mondiale Kip Thorne, ingenuamente o ironicamente è impossibile da capire (ma forse non ha importanza), sentenzia che la questione del libero arbitrio è “terribilmente difficile da affrontare per i fisici”. Resta da capire cosa intenda per “terribilmente difficile da affrontare”. È sicuramente molto più “terribilmente difficile” da affrontare un’equazione sulle linee di campo piuttosto che la conoscenza della storia delle concezioni del libero arbitrio, perché nel primo caso si tratta di avere conoscenze preliminari (matematiche) che permettano di realizzare complicatissime formule, quindi applicare una tecnica, mentre nel secondo caso si tratta nient’altro che di leggere, leggere cosa ha detto Tommaso D’Aquino, Sant’Agostino, Hobbes, Nietzsche. Il libero arbitrio è una questione “facilissima” se non la si ritiene una cosa come fosse una formula matematica, una tecnica algebrica. Se leggere e riflettere su quello che queste persone molti secoli prima di noi hanno sentenziato sul libero arbitrio significa applicare una tecnica allora il corpo e il respiro sono macchine e non organismi autosufficienti. ”Capire” la filosofia è concentrarsi sul pensiero così come ci si concentra sul proprio respiro. È la cosa più naturale del mondo. È studiare storia e nient’altro, opinioni snocciolate nel corso dei secoli, dibattiti fatti tanto tempo fa su quali conseguenze ci siano in un mondo in cui l’uomo è libero o non libero, fintantoché ci sia messi d’accordo su cosa sia la libertà e la scelta. Questo non significa che filosofia è guardare al passato come fa lo storico, perché significherebbe che la storia è finita, che adesso non stiamo facendo storia e che nel futuro le prossime generazioni se ne fregheranno di quello che abbiamo detto oggi. È un’eventualità possibile solo se ci estinguessimo.

L’ingenuità dello scienziato privo di nozioni filosofiche, che è l’ingenuità di qualunque specialista che ignori o snobbi dottrine della conoscenza che non sono quelle in cui è preparato, è quella per cui egli pensa che la questione del libero arbitrio sia da trovare in una formula, nel giusto esperimento. Ma la questione del libero arbitrio non si risolve, non ha soluzione, non è fatta per essere risolta. Non c’è una risposta netta alla domanda: quanto l’uomo è libero?, perché per qualche decennio della prima metà del XX secolo la riposta è stata “molto poco”, nella seconda metà del XIX “parecchio”. Addirittura secoli prima la questione era tutta incentrata su quanta libertà ci concedeva Dio, pensate un po’.

La “questione filosofica” in filosofia si pone per porsi, per essere discussa, per far esprimere a ciascuno la propria opinione, e alla fine della carrellata riassumere le posizioni in due: esiste/non esiste il libero arbitrio, con tutte le schiere di sfumature semantiche che seguono.

Perché il libero arbitrio non esiste, la libertà non esiste. Esistono le stelle, materialmente, ma credo sia impossibile che un giorno si incontri per strada la Libertà. Il filosofo tedesco Kant riassumeva le cose così: il mondo esiste, ma non puoi incontrare un giorno “mondo” per strada, non vedrai mai qualcosa che sia “mondo”, neanche se ti metti a orbitare attorno alla terra. Mondo è qualcosa di più del pianeta roccioso sul quale viviamo. “Mondo” – come verità, essere, volontà, etc. – è un concetto nel quale sei completamente immerso e pretendere di sentenziare definitivamente su di lui equivale a tirarsi fuori dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. È questo l’errore commesso da chi la filosofia non la conosce e crede nello stesso tempo di poterla valutare (serve? non serve?): è l’errore di credere che la filosofia sia stata una scienza, che la filosofia serva, abbia un’utilità. Fintanto che gli scienziati (dal neurobiologo al medico di base, dal fisico teorico all’ingegnere) credono che la filosofia sia stata una scienza non potranno mai rispondere alla domanda: a cosa serve la scienza?

La filosofia è una riflessione sul pensiero, sul pensiero in generale e su un pensiero in particolare. Filosofia è il modo con il quale ci si pone le domande. Si parte da: che cos’è il libero arbitrio?, e si continua con: che cose la libertà?, che cos’è la scelta?, perché dovrei essere libero, perché non lo dovrei essere, perché mi faccio tutte queste domande nonostante sappia benissimo che non mi aiuteranno a trovare lavoro? Ecco la filosofia: chiedersi le cose disinteressatamente. Avere il tempo di farsi queste domande perché di tutto il resto (necessità vitali e sopravvivenza prima di tutto) ci si è già occupati. Filosofia è essere pronti a mettersi sul pergolato di casa a riflettere, in compagnia o in solitudine, o a rivoltare le cose come un calzino, ma poi mettersi comunque seduti, serenamente, a riflettere.

La filosofia è una carrellata di opinioni in mezzo alle quali è nascosta la verità, verità che sarà destinata un giorno a ritornare opinione. E così via. Ma non si creda che la relatività di questa consapevolezza (l’opinione che diventa verità e la verità che diventa opinione) possa farti snobbare l’opinione vera, tutto è relativo!, sarebbe veramente da paraculo. Perché fintantoché questa opinione resta vera (per cento anni, per dieci anni) dovrai farci sempre i conti, te che in questo periodo storico ci vivi.

Giornalismo e filosofia (si può parlare di guerra fredda?)

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La verità è nel mezzo. O meglio, ci vuole sempre tempo per dire la verità, per dire le cose come sono. E la maggior parte delle volte pur dicendo la verità, le cose come sono, si tratta sempre di un cenno di capo, un’indicare le cose come sono. In una parola: parlarne.

Per questo il giornalismo quotidiano è odiato dalla filosofia. Il giornale pretende di dire le cose come sono subito. Anzi il prima possibile, quasi prima che accadano, perché la notizia non aspetta, va data adesso. Proprio tutto il contrario della riflessione ponderata e attenta che arriva come una testuggine dritta dritta verso la verità.

È questa la spiegazione dietro la metafora della nottola di Minerva di Hegel. Il filosofo tedesco afferma: la nottola di Minerva spicca il suo volo sul far del crepuscolo. Significa: quello che è successo oggi lo capiamo (Minerva/Atena è la dea della saggezza simboleggiata da una civetta che vola) solo alla fine della giornata. È quello che fa lo storico, quello che fa il filosofo. La comprensione di ciò che è avviene soltanto quando ciò che è è stato. Prima che una cosa accade, come posso saperla? Non solo. Anche quando è accaduta, se non do il tempo al mio cervello di capirla come posso pretendere di capirla mentre accade? Al giornalismo tutto questo non piace. Al giornalismo quotidiano la civetta sta sulle scatole. Ma il giornalismo quotidiano si difende bene: non ha la presunzione di dirti la comprensione di quel che succede, ma solo quel che succede, la comprensione sarà una scelta successiva del lettore. Come quando ti capitano le cose senza che ancora non hai capito cosa sta succedendo. Ecco il giornalismo, io ti do quello che accade, senza comprensione. Pensate alle torri gemelle: sapevamo quello che stava succedendo quando accadeva e nei giorni immediatamente successivi? Ancora adesso non abbiamo capito del tutto cosa è successo, ma nel 2014 sappiamo molto più di quello che sapevamo nel 2001. La verità ha bisogno di tempo.

C’è una nuova guerra fredda in atto tra Stati Uniti e Russia, ma non è quella che vorrebbero i giornali con i loro titoli. Questa riproposta nei titoli dei giornali è la classica guerra fredda ante anni ‘90, quella fatta di ideologia politica e religioni, di apparati statali e capitali diversi. Ovvio che qualunque storico e filosofo inorridirebbe a questa sintesi arruffona, sempliciona e fuorviante, allarmista e sensazionalista. Un metodo non senza interesse questo del titolo strillato: il giornale quotidiano, oggi, strilla più di prima perché questo strillo è un urlo di agonia: “Leggetemi!”. Il giornale quotidiano non grida più la notizia ma la sua condizione di giornale quotidiano in crisi. Per questo parecchio giornalismo quotidiano di oggi non fa più giornalismo quotidiano, non ti dice più quello che accade ma scrive articoli che chiedono disperatamente di essere letti.

Ma questo non deve portare a odiare il giornalismo quotidiano, piuttosto la superficialità è la sua condanna e la sua esistenza una necessità. Si deve essere superficiali se si vuole dire quello che accade adesso senza saperlo. Il giornalismo quotidiano deve scegliere: o ti mostra quello che accade o ti dice la verità, ma a quel punto non è più giornalismo quotidiano ma inchiesta, storia, filosofia. 

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Ma non è vero neanche che non siamo di fronte a una nuova guerra fredda. Sarebbe altrettanto fuorviante anche un giudizio così. Un altro eccesso, un’altra semplificazione. È come quando si dice che non essendoci più la sinistra ci si deve accontentare di questo capitalismo, sforzandosi soltanto di renderlo più “etico” e “amichevole”, rendere più etica e amichevole questa economia mondiale basata sullo sfruttamento degli uomini e delle risorse.

Possiamo dire che c’è una nuova guerra fredda in atto senza per questo titolarla? Senza dire con questo la verità?

Si può dire che c’è una nuova guerra fredda, ma per capire che significa ci vuole tempo, non basta allacciarsi con un salto temporale a trent’anni fa, perché trent’anni son passati e non torneranno più.

È innegabile che l’oligarchia russa stia reagendo all’isolamento lento e inesorabile a cui era condannata. Gli Stati Uniti hanno vinto e preso tutto e la Russia semplicemente non ci sta più (proprio perché ne è passata acqua sotto i ponti da quando è caduto il Muro) ad accettare la persistenza americana fin quasi ai confini (ex) sovietici.

E allora di quale guerra fredda si tratta visto che non può più essere la guerra fredda (quella dei libri di storia)? Allora non dovrebbe chiamarsi più guerra fredda perché genererebbe confusione. Ma neanche ci si dovrebbe sforzare troppo a trovare un altro nome, perché qualcosa in comune con la vecchia guerra fredda questa guerra fredda di oggi dovrà averla, altrimenti correremmo lo stesso errore di considerare l’economia mondiale attuale un‘“altra economia”. La new economy, ricordate?

È una guerra, non c’è dubbio, perché ci sono i militari e la gente muore. È fredda perché non ci sono invasioni. Forse la differenza è nelle fazioni: non ci sono più due fazioni contrapposte, forse non ci sono proprio più fazioni. C’è prima di tutto un modello economico a cui aderiscono entrambe, a cui aderisce tutto il mondo. Così cade la differenza ideologica, l’ideologia politica alla base: Stati Uniti e Russia investono e accumulano profitti allo stesso modo, negli stessi posti, con le stesse persone. Tutto il mondo accumula, investe e fa profitto allo stesso modo e nello stesso luogo. È la globalizzazione baby!

Poi, essendosi sciolto il dualismo oppositivo ideologico e politico, sono fioriti tanti altri interessi particolari che prima venivano semplicemente soffocati dai due blocchi: prima del 1989 la parola Medio Oriente era un modo per dire petrolio, oggi è un modo per dire tantissime cose diverse.

La verità è allora che non c’è una sola guerra fredda, ma tante piccole guerre fredde.

La Russia reagisce come un cane che non vuole essere messo all’angolo. Un cane forte che vuole stabilire nuovi confini per aggiornare i punti strategici del gas e della geografia. Forse anche gli Stati Uniti reagiscono come un cane, più forte, ma sempre più messo all’angolo dalla moltitudine di stati che non può più controllare come in passato.

È sbagliato parlare di nuova guerra fredda, così com’è sbagliato dire che non si può più parlare di guerra fredda. La verità sta nel mezzo, e ancora non l’ho trovata.

A che serve la filosofia (e la comunità)

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«Ciò che la filosofia stessa rivela, una volta giunta al limite, è che l’esistenza non è un’autocostituzione di senso, ma ci offre piuttosto l’essere che precede il senso. Di qui l’immancabile effetto comico della filosofia: fallisce a colpo sicuro il reale dell’esistenza.
Immagino che non ci sia nessun vero filosofo che non si sia sentito, almeno una volta nella vita, stretto dall’angoscia di questa beffa. Non uno che si sia detto, almeno una volta, che tutto il lavoro del pensiero è un onere inutile e grottesco, mentre l’esistenza, la vita, la morte, il pianto, la gioia, l’infimo spessore quotidiano lo precedono sempre e di molto. Viceversa la comunità tollera soltanto con humour o con ironia colui che la tradisce più di tutti gli altri. In un certo senso l’unica questione sarebbe questa: perché continuano ad esserci dei filosofi e perché la comunità continua a far loro posto? Perché questa funzione non è scomparsa insieme con la ricerca della pietra filosofale?

Sul suo limite la filosofia ha dunque a che fare col fatto che il senso non coincide con l’essere (almeno finché l’essere è considerato il luogo del senso). E’ quindi il limite dove anche la comunità si sospende: non c’è un’autocomunicazione del senso e la comunità non ha forse niente e soprattutto non è niente di comune. Essa non ha neppure co-umanità, co-naturalità o co-presenza con una qualunque cosa di un mondo che essa rende inabitabile man mano che lo investe. Al limite – della comunità, della filosofia – il mondo non è un mondo – è un cumulo, e forse immondo. Non possiamo più dire: «ecco il senso, ecco la co-umanità ed ecco la filosofia – o le sue filosofie, nella loro feconda competizione…». Si sa soltanto questo: il senso non può appropriarsi il reale, l’esistenza.
Tale è il ‘senso’ di tutti i ‘temi’ maggiori del pensiero contemporaneo – che si tratti dell”essere’, del ‘linguaggio’, dell”altro’, della ‘singolarità’, della ‘scrittura’, della ‘mimesi’, della ‘molteplicità’, dell”evento’, del ‘corpo’ o di molti altri ancora. Si tratta sempre di ciò che si potrebbe chiamare, nel lessico tradizionale delle dottrine, un realismo della verità inappropriabile».

Jean-Luc NancyLa comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 2013, pp.178-180.

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A questo punto, continuando nel percorso decostruzionista, direi che ci calza a pennello Badiou:

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«La filosofia ha in realtà una doppia origine, e credo che non si insista a sufficienza su questo punto. La filosofia non è nata in modo semplice: come tanti altri mostri, è nata due volte. E’ nata una prima volta con tutti quelli che chiamiamo i presocratici: Parmenide, Eraclito, Empedocle. Ma tutti loro erano poeti, dunque la filosofia è nata la prima volta nella poesia. E’ nata una seconda volta, probabilmente con Platone, o con Socrate, e questa seconda nascita era contraria alla prima. La seconda nascita è una critica della prima. 
Il poeta parla mediante l’autorità della parola. Se leggete ciò che rimane di Eraclito e di Parmenide, potrete sentire bene questa autorità pura della parola: “del non-essere non ti permetto di dirlo né di pensarlo”; “tutto scorre, nulla rimane immobile”. Questo è il tono della prima filosofia, un tono ancora molto vicino a quello della parola sacra, quella parola che dichiara che la sua verità è legata a colui che parla. La filosofia è nata con quell’autorità.
La seconda nascita è invece la critica radicale di questo punto e comporta un’idea completamente diversa: l’idea che la verità di ciò che viene detto non deve dipendere da colui che parla, la parola della verità non è parola sacra, bensì parola che deve essere provata. Si tratta di un conflitto molto profondo perché riguarda l’origine stessa della verità. La verità è ispirazione soggettiva? Oppure è un sistema di dimostrazioni e argomenti che chiunque può far proprio, riprodurre e discutere?»

Alain BadiouDel capello e del fango, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2009, pp. 52-53.

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L’affresco di Raffaello Sanzio è quindi sbagliato: non sono Platone e Aristotele i fratelli coltelli, ma Parmenide e Socrate, che guarda caso sono uno sopra l’altro.
Ad ogni modo, filosofia è convincere argomentando. Eggrazie che poi ti si scolla essere e senso, esistenza ed essere, cose e parole. Se davvero filosofia è, nel dire, tenere insieme due intenzioni contrapposte, allora si merita la sua fine, il suo proprio fine, la sua indecidibile scoperta: la verità è inappropriabile.

La filosofia è gaia, ma non è una scienza

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«Corrispondentemente alla disposizione complessiva della storia dell’uomo sulla terra, il carattere tecnico-industriale avviato da circa un secolo e mezzo contribuirà a determinare l’ulteriore destino della scienza odierna. Il contenuto semantico della parola “scienza” si svilupperà quindi in questa direzione che lo porta ad identificarsi con il concetto francese di science, termine con il quale si intendono le discipline matematico-tecniche. Già oggi i grandi rami dell’industria e lo stato maggiore generale sono molto meglio “informati” delle “università” sulle necessità “scientifiche” […].

Le cosiddette “scienze dello spirito” però non si svilupperanno a ritroso fino a diventare una componente delle “belle arti” di un tempo, ma si trasformeranno in uno strumento di educazione “politico-ideologica” […].

A differenza della “scienza”, in filosofia le cose stanno in modo del tutto diverso. Dicendo qui “filosofia” si intende soltanto l’opera dei grandi pensatori. Questa, anche nel modo di comunicare, ha i suoi tempi e le sue leggi. La fretta di pubblicare e la paura di arrivare troppo tardi vengono qui a cascare già per la ragione che dell’essenza di ogni genuina filosofia fa parte l’essere necessariamente fraintesa dai suoi contemporanei. Perfino nei confronti di se stesso il filosofo deve cessare di essere un proprio contemporaneo […], ancora oggi noi dobbiamo durare fatica per capire ad esempio la filosofia di Kant nel suo contenuto essenziale […]. Anche Nietzsche non pretende di essere capito in modo compiuto, ma vuole avviare un cambiamento dello stato d’animo fondamentale, vuole trasformare i suoi contemporanei soltanto in padri e antenati di quello che deve venire».

1937

Martin Heidegger, Nietzsche, Adeplhi, Milano 2005, pp. 227-228.

Competenze

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«Siamo soliti esprimere le nostre conoscenze, ma anche i nostri problemi e le nostre considerazioni, mediante proposizioni. Il fisico ed il giurista, lo storico ed il medico, il teologo ed il meteorologo, il biologo ed il filosofo, tutti parlano mediante proposizioni ed enunciati […]. Così avviene che comunemente non si scorga nessuna differenza, se non di contenuto, tra il discorrere di problemi biologici, quali la scissione della cellula, la crescita, la riproduzione, ed il trattare la biologia stessa, del suo orientamento di ricerca e del suo linguaggio. Si ritene che il parlare biologicamente degli oggetti della biologia si distingua solo dal punto di vista del contenuto dal discutere sulla biologia. Chi può fare la prima cosa, deve certo saper fare, lui medesimo, anche la seconda. Ma questa è un’illusione, perché non si può trattare la biologia biologicamente. La biologia non è come le alghe ed il museo, le rane e le salamandre, le cellule e gli organi. La biologia è una scienza. Non possiamo mettere sotto il microscopio la biologia, come mettiamo i suoi oggetti».

Martin Heidegger, La questione della cosa, Mimesis, Milano 2011, pp.155-156. 

La cosa

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«[“Che è una cosa”?], che è come chiedersi, ha realmente senso porre tali domande? Noi sappiamo che discutendo di tali problemi non si dà principio a niente. Le conseguenze sono le stesse, sia che li poniamo, sia che li tralasciamo. Se non prestiamo attenzione all’avviso di pericolo posto accanto ad una rete d’alta tensione e tocchiamo i fili, siamo morti. Se non prestiamo ascolto alla domanda “che è una cosa?”, “dopo non succede niente”. Se un medico sbaglia nel curare un certo numero di malati, c’è pericolo che costoro muoiano. Se un insegnante interpreta per i suoi studenti una poesia in modo assurdo, “dopo non succede nulla”. Ma forse è bene parlare con maggior cautela: non prestando ascolto alla domanda sulla cosa o interpretando in modo inadeguato una poesia sembra che in seguito non accada nulla. Un giorno – forse 50 o 100 anni – qualcosa tuttavia accade».

Martin Heidegger, La questione della cosa, Mimesis, Milano 2011, pp. 51-52.

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La vita umana è inoperosa e senza scopo, ma proprio questa argia e questa assenza di scopo rendono possibile l’operosità incomparabile della specie umana. L’uomo si è votato alla produzione e al lavoro, perché è nella sua essenza affatto privo di opera, perché egli è per eccellenza un animale sabatico […]. Questa inoperosità è la sostanza politica dell’Occidente, il nutrimento glorioso di ogni potere. Per questo festa e oziosità tornano incessantemente ad affiorare nei sogni e nelle utopie politiche dell’Occidente e altrettanto in essi fanno naufragio. Esse sono i relitti enigmatici che la macchina economico-teologica abbandona sulla battigia della civiltà e sui quali gli uomini tornano ogni volta inutilmente e nostalgicamente a interrogarsi. Nostalgicamente, perché sembrano contenere qualcosa che appartiene gelosamente all’essenza umana; inutilmente, perché non sono in realtà che le scorie del combustibile immateriale e glorioso che il motore della macchina ha bruciato nel suo inarrestabile giro. 

Giorgio Agamben, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza Vicenza 2007, pp. 268-269.

Nella foto, Etimasia, mosaico, XII secolo. Roma, San Paolo fuori le mura, abside.

La tecnica rotta

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Tra il 1924 e il 1926, il filosofo Sohn-Rethel abitava a Napoli. Osservando il contegno dei pescatori alle prese con le loro barchette a motore e degli automobilisti che cercavano di far partire le loro vecchissime vetture, egli formulò una teoria della tecnica che definì scherzosamente “filosofia del rotto”. Secondo Sohn-Rethel, per un napoletano le cose cominciano a funzionare soltanto quando sono inadoperabili. Ciò vuol dire che egli comincia a usare veramente gli oggetti tecnici  solo dal momento in cui essi non funzionano più; le cose intatte, che funzionano bene per conto loro, lo indispettiscono e gli sono invise. E, tuttavia, ficcando un pezzo di legno nel punto giusto o assestando loro un colpo al momento opportuno, egli riesce a far funzionare il dispositivo secondo i suoi desideri. Questo comportamento, commenta il filosofo, contiene un paradigma più alto di quello corrente: la vera tecnica comincia non appena l’uomo è capace di opporsi all’automatismo cieco e ostile delle macchine e impara a spostarle in territori e usi imprevisti, come quel ragazzo che in una via di Capri aveva trasformato un motorino da motocicletta rotta in una apparecchio per montare la panna.

Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2010, pp. 140-141.