Zio Alberto e la voglia di evasione dei napoletani

Ogni volta che zio Alberto – come lo chiama mia madre – fa un programma su Napoli, i napoletani guardano golosi, ne parlano soddisfatti il giorno dopo, ne sono orgogliosi per le settimane successive.

È la terza volta, nel giro di qualche anno, che la bolla social mette in scena questo siparietto, con gli assessori, la gente comune e i quotidiani locali felici. La cosa va letta come una pubblicità, nel senso tecnico del termine: è un contenuto che fa leva sui desideri, le aspirazioni, i progetti, le ambizioni, più che con la realtà vera e propria della città. È un documentario: la splendida vita selvaggia del Montana non racconta cosa fanno tutti i giorni gli abitanti del Montana, però cacchio, il Montana spacca e le aquile volano nel cielo. Ogni volta l’engaging aggrega il contenuto della Napoli di Zio Alberto su questo flusso: e quanto è bello, e quanto è bravo, e quanto è bella Napoli. Non c’è polarità, solo gioia. Il product placement perfetto, senza ambiguità, che chiunque può inoltrare senza sentirsi in colpa. Tanto, si parla di monumenti, di storia e di archeologia. Lamentarsi in questo caso è proprio fuori luogo.

Ignoriamo come vivono quel programma televisivo quelli che non ci vivono, a Napoli. Ignoriamo, in realtà, anche chi ci vive. È un programma che parla in astratto di Napoli: degli edifici, delle strade, dei portoni, del vesuvio e dei basoli. Non c’è niente, letteralmente, di vivo. Il programma, però, serve a noi napoletani, che siamo tanti, milioni di milioni. A pensarci, è bizzarro: nella città che conosco a memoria, perché ci vivo, ogni volta che me la sparano in tv celebrandone la bellezza io DEVO ri-vedermela. E ancora, e ancora. Un imperativo morale.

Indiscutibilmente, ogni volta è tutto bellissimo. Si può dire, però, che noia? Non ho detto gioia, ma noia noia noia. È tutto bellissimo, ma che palle.

Sotto sotto, è una voglia di evasione. Napoli è una città molto povera, scassata, indebitatissima. La viabilità è ingestibile e viverci richiede una sospensione continua dell’incredulità, a cominciare dalla violenza dei rapporti interpersonali tra gli sconosciuti, in genere tradotti come una focosa voglia di vivere. Come quella volta che la focosa gioia di vivere del figlio della padrona del cane vicina di casa ha avuto la brillante idea di prendere a calci, armato, la porta di casa mia minacciandomi di morte perché, esasperato dall’abbaio del cane, mi ero permesso di mandare a fanculo la sua mammina col suo cagnolino. Il risentimento, l’odio, l’insofferenza, l’insicurezza strutturale come gioia di vivere. È una realtà difficile da sopportare. La gente va via come va via da una città povera (e ci ritorna, preferendo giustamente la casetta di proprietà di papino, un modesto reddito, un golfo paradisiaco, al duro mondo della competizione capitalistica delle città ricche). Il mondo è violento ma qui da noi la violenza è fisica, più che psicologica, per cui basta atteggiarsi nel modo giusto per evitarla (tipo, non mandare a fanculo nessuno). Tra l’altro, qui l’inverno dura due settimane. Ma pure raccontare questa violenza, che palle. Un altro modo per evadere: la coolness gangsta.

E così, di fronte alla complessità del reale, alla sopportazione di un ambiente claustrofobico, il linguaggio della pubblicità e della guida turistica ci dà conforto, dicendoci ogni volta cosa è buono e cosa è brutto, cosa è sì e cosa è no, e noi contentissimi a esprimere questa polarità con la padronanza di linguaggio di mia nipote di due anni: è buuuttto, è beeellllo. Tu sei butto, io bello. Napoli bella, tu butto.

Grazie Zio Alberto. Ci fai volare.

Sii turista della tua città

Five of Lord Rockinghams dogs (England 1762) – George Stubbs (1724 – 1806)

Nessuno ha detto che ce ne dobbiamo andare – vi sorprenderà sapere che proprio Eduardo De Filippo, una volta, disse ve n’ata fuji. Il vittimismo sulle condizioni oggettive di una città ne conferma l’oggettività delle condizioni.

“Terzo mondo” è un’esagerazione che serve a sottolineare come in un contesto bianco, industrializzato, europeo, una città come Napoli è in perenne via di sviluppo, ha cronici problemi economici e vive un dissesto delle infrastrutture e dei servizi senza via di uscita, se non sperando che Jovanotti metta una buona parola sulla cancellazione del debito.

Chi tene ‘o mare s’accorge ‘e tutto chello che succede

Il vittimismo non problematizza i problemi perché li vive poco, li scansa, e la mattina sul motorino riesce a ridurre tutta questa complessità alla benevolenza della natura, al sole di via caracciolo. Come fanno i turisti.

po’ sta luntano, e te fa’ senti comme coce. chi tene ‘o mare, ‘o ssaje, porta ‘na croce

Nessuno ha detto che fa schifo, né che bisogna andare via. Qui nessuno sta sputando. Ma è indubbiamente il terzo mondo, cioè un modo provocatorio di esprimerne i problemi strutturali: è bella la natura, è sfasciata la città. Il cortocircuito logico è: poiché è bella la natura, è bella la città. Non ha senso. Non c’è fascino dietro questo contrasto ma sofferenza. Il vittimismo ignora questa sofferenza e come quando andiamo in India ci dice: so poveri ma sorridono.

Il regista che ci racconta l’oggettività di questa condizione se n’è fujuto na vita fa.

Chi tene ‘o mare cammina ca vocca salata. Chi tene ‘o mare ‘o sape ca è fesso e cuntento

Il meccanismo alla base dell’amore per questo contrasto – le banlieue e le ville, il dissesto dei servizi e il golfo – risiede nel sollazzo regale, quel piacere per il pericolo assolutamente non rischioso. Come quando si passa in un brutto quartiere ma in quel quartiere non si vive, per cui c’è quell’inquietudine con la certezza che poi si torna a casa. Come quando guardiamo un film horror. Volendo scomodare Kant, è il sentimento del sublime: ammirare cose spiacevoli, colossali nella loro complessità, provare piacere di fronte all’impossibilità dell’armonia, grazie al fatto che si è in un cantuccio a contemplarla. Il piacere del turista in terra straniera. Come quando il re va a caccia coi cani nella sua tenuta: non potrà succedere niente di imprevisto, mai potrà soccombere e si godrà la sfida della caccia da predatore. Come dice De Giovanni, è un’aristocratica bellezza. E quando qualcuno ce lo fa notare, aristocraticamente alziamo gli occhi al cielo.

chi tene ‘o mare ‘o ssaje
nun tene niente…

E’ tutta colpa della signora Rinascente

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La retorica dell’emergenza è talmente radicata a Napoli da costituire la sua stessa identità. E’ una vera piaga, molto più grave della camorra e della spazzatura perché strozza ogni tentativo di cambiamento. Il meccanismo viene alla luce ogni volta che succede qualcosa, qualunque cosa. Ieri è stato il giorno delle catastrofi che non vengono mai da sole e in meno di ventiquattr’ore sono venuti giù l’angolo di un palazzo e il più importante polo culturalscientifico della città. E così la retorica dell’emergenza è esplosa in tutto il suo splendore.

E’ esplosa nel posto che oggi più di tutti raccoglie gli umori delle persone: i social network. Si sa quanto valgono gli umori, quanto quelli di un bar sport: lì non si va per cambiare le cose, soltanto per prendersi un caffé. Ma non per questo il bar, la bacheca, il commento, resta un posto dove gli umori restano, e covano. Leggendo i feeds delle ultime ore da parte dei miei concittadini che commentano questi ultimi due eventi, emergono i tratti in comune del napoletano amareggiato che tende a ridurre tutto alla terribile retorica dell’emergenza. “Maledetti”, “La colpa è di noi che restiamo fermi”, “Che il Comune si prenda le sue responsabilità”. Il perito non è stato neanche telefonato ma i napoletani sanno già quali sono le cause. E’ l’ineliminabile piove governo ladro, l’immancabile generalizzazione verso ogni causa di quello che viene semplicemente chiamato “male”.

Non può essere ogni volta un’emergenza, altrimenti è l’emergenza stessa che smette di avere senso. E’ un meccanismo micidiale, soprattutto perché, trattandosi di retorica, ci cadono tutti, anche chi vuol dire qualcosa in buona fede. Purtroppo questa città è già stata divorata dal lupo, da un bel pezzo, anzi, è la città dove i lupi possono venire, perché verranno sempre accolti come agnelli. Napoli è forse l’unica città d’Italia dove nel 2013 valgono ancora gli slogan del dopoguerra. Annunci epici come “Rialzati!”, “Liberiamola!”, “Rinasci”, “Scacciamo il Male”. Se vuoi essere eletto sindaco, vieni armato di queste parole e anche tu una possibilità potrai averla, giacché verrai prima guardato con diffidenza, poi la gente inizierà ad entusiasmarsi. Il risultato paradossale è di trovarsi circondati da tanti “al lupo!”, senza accorgersi che il lupo non è mai esistito.

Piove, sale un nuovo sindaco, c’è un convegno internazionale, un cane si gratta, vinciamo lo scudetto, il concerto di capodanno, un palazzo crolla, un edificio brucia. L’evento può avere una qualunque natura, qualunque origine, non importa, la reazione è sempre la stessa, viene sempre chiamata in causa la città tutta intera. Ogni volta viene scomodata questa entita che non esiste, la città, svuotando anche il contenuto del suo concetto. C’è Delusione, Rabbia, Aspettative, Speranze, Gloria, Onore, Rispetto. Ma sopratutto, più di tutte, Rinascita e Inferno, i due temi su cui è sempre stata orientata la campagna elettorale del Sindaco di Napoli.

Nel centro una facciata di un palazzo è crollata, molto probabilmente a causa della cattiva manutenzione dell’edificio e della terribile lentezza nei lavori di stabilizzazione. Nello stesso giorno Città della Scienza è sparita tra le fiamme. E’ ancora presto per scoprire le cause, ma il sospetto è caduto comunque sulla signora Rinascente

 

La tecnica rotta

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Tra il 1924 e il 1926, il filosofo Sohn-Rethel abitava a Napoli. Osservando il contegno dei pescatori alle prese con le loro barchette a motore e degli automobilisti che cercavano di far partire le loro vecchissime vetture, egli formulò una teoria della tecnica che definì scherzosamente “filosofia del rotto”. Secondo Sohn-Rethel, per un napoletano le cose cominciano a funzionare soltanto quando sono inadoperabili. Ciò vuol dire che egli comincia a usare veramente gli oggetti tecnici  solo dal momento in cui essi non funzionano più; le cose intatte, che funzionano bene per conto loro, lo indispettiscono e gli sono invise. E, tuttavia, ficcando un pezzo di legno nel punto giusto o assestando loro un colpo al momento opportuno, egli riesce a far funzionare il dispositivo secondo i suoi desideri. Questo comportamento, commenta il filosofo, contiene un paradigma più alto di quello corrente: la vera tecnica comincia non appena l’uomo è capace di opporsi all’automatismo cieco e ostile delle macchine e impara a spostarle in territori e usi imprevisti, come quel ragazzo che in una via di Capri aveva trasformato un motorino da motocicletta rotta in una apparecchio per montare la panna.

Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2010, pp. 140-141.

Tutti buoni

Quando torni a Napoli dopo un periodo di soggiorno all’esterno noti subito l’indulgenza culturale. E’ una sensazione accompagnata da uno stato di guardia: te ne senti immune. Ma questa è la prima fase, poi devolve. Me ne sono accorto guardando giorno dopo giorno un cartellone pubblicitario che campeggia nella metro: una donna che ammicca sulla scritta “Tutti buoni”, pubblicità di buoni sconto per una nota salumeria napoletana.

Appena arrivato in città la vista della reclama mi irritava. Ora quasi mi è simpatica. 

Mosciaria

Napoli, città moscia. Flaccida, lenta, pigra. L’evento dell’11 aprile dell’America’s Cup mette bene in scena questa “mosciaria”. E’ un bell’evento, sia chiaro. Bello da vedere, da vivere. Scattare qualche foto, darsi appuntamento sul lungomare per ammirare queste barche eleganti e gigantesche, quasi antitetiche alle navi da crociera che attraccano qualche centinaio di metri più a sud: brutte e gigantesche. Ma non è un evento importante. Per piacere, non chiamatelo importante per la città. E’ stato voluto, fortissimamente voluto. E questo è un bell’esempio.

Il programma attorno all’America’s Cup mostra bene questa mollezza. Dategli uno sguardo e ditemi se non somiglia più a una festa di paese che a un evento internazionale che richiama tutti gli appassionati di vela. Tornei di ping pong, esibizioni di scherma, gare culinarie, dj set, Roy Paci, Francesco Renga. E poi: mostre sulla storia della vela, mostre di fotografia sulla storia della vela, esibizioni sulla storia della vela. Storia. Storia. Storia. Pare che per organizzare questi spettacoli le amministrazioni si siano sforzati di fare qualche telefonata. Tutto qui. Che ci voleva a realizzare un’esibizione che mettesse in scena l’attualità di questa realtà, il suo mondo, le sue strategie. Proiezioni a tema sulle regate, mostre d’arte sulle forme e le sensazioni che la città esprime attraverso questo evento. Ah, già, non possiamo, siamo mosci. Ci scocciamo. Il golfo di Napoli apre le sue gambe a queste barche, le fa entrare e uscire. Tutto qui.

Fermi tutti!

Napoli: una città ferma. Hai voglia di parlare di criminalità, isteria dei passanti, traffico caotico. Fateci caso, tutte queste cose che ho elencato, con le opportune differenze, appartengono a città che hanno un dinamismo e una ricchezza imparagonabile alla mia: Shanghai, Pechino, Londra, New York negli anni ‘80. La criminalità in Italia fattura (in nero) migliaia di miliardi di euro. Loro non stanno certo fermi. Il problema è che tutti gli “altri”, quelli che non accettano compromessi e che lavorano per la loro professione, sono fermi. E’ fermo il mercato del lavoro, è fermo il cervello che non ha scatti di orgoglio. La selezione del personale basata sulle conoscenze e non sui curricula è una scelta lucida che ha i suoi vantaggi. Ma quanto ne vale la pena? Siamo fermi. Questa è la verità.