La libertà di espressione in un mondo di pubblicità

Immagine ritagliata da una pubblicità della Lindt

È un fatto notevole il livello di interiorizzazione del linguaggio pubblicitario che abbiamo raggiunto. Mi riferisco al fatto di usare tantissimo le iperboli, le metonimie e le sineddoche in qualsiasi contesto, dalla chiacchierata intima al discorso pubblico. Dire quello che si vuole ma dirlo sempre in modo esagerato o poetico-romantico, affinché possa ottenere la maggior attenzione possibile. Per dire, quando qualcuno ti bussa alla porta mentre sei al bagno, premesso che non vivi da solo, non potrai mai dire semplicemente “sto cagando” oppure “occupato” ma dovrai fare una battuta o chiedere scusa.

È tipico delle sottoculture ridurre parecchia espressività alla retorica dei simboli, dei messaggi immediati. Serve a mantenerne l’identità, costantemente sotto pressione dalla cultura egemone. Si pensi al nerd (che oggi è diventato geek e non è più una sottocultura): ma quanto è stancante fare conversazioni nerd? È tutto così prestazionale, citazionista, ossessivamente sarcastico, brillante (ma solo per dissacrare qualcosa che ti sta sul cazzo, o per dissacrare la brillantezza del ragionamento). In una parola, l’autoreferenzialità.

Il disastro che comporta l’interiorizzazione del linguaggio pubblicitario, così come quando ci si identifica totalmente in una sottocultura, è che tutto è esplicito, mai interpretabile. Una sottocultura, espressione della libertà di espressione, quando è presa alla lettera diventa dogmatismo conformista. Per esempio, il cristianesimo, nato per reazione sottoculturale all’intellettualismo ebraico, si è a sua volta intellettualizzato nella Chiesa. Si crea un enorme carico di lavoro, quello in cui il parlante deve convincere l’interlocutore del senso che vuole dare a quello che dice, invece di limitarsi a dirlo e basta. La scusa che usiamo è che se non facciamo così veniamo fraintesi perché la gente è stupida tranne sé stessi. Il messaggio che passa deve essere uno solo, senza non-detti. Di fatto, non c’è libertà di espressione.

Il problema è che sarei libero di esprimermi solo nella misura in cui non sono interpretabile: il mio messaggio deve essere costruito in modo tale da costringere il mittente a dargli un solo senso, il senso che dico io. In un discorso pubblico questa cosa è importante, perché si condivide una visione del mondo, ma ridurre la socialità a questa grammatica è un disastro perché ci ritroviamo a venderci il costrutto della propria condizione sociale, alimentando la competizione, l’invidia e la depressione invece di condividere pensieri e lasciare che l’imprevedibile faccia accadere qualcosa.

 

Consigli per gli acquisti

Nietzsche is cool (by Amev)

Il linguaggio della pubblicità ci appartiene. Non ci scampa nessuno, da quello che prova a scamparci con tutte le forze, fino all’isteria e al complottismo, a quello a suo agio che non problematizza nulla.

Che ti professi autarchico, autonomo, libertario, progressista, libertino, freakkettino, conservatore, destromane. Sono diventate tutte performance da atteggiare, cioè azioni da disporre con lo scopo di essere osservate e valutate in sé, come un attore sul palco, più che come mezzi con un fine, con un’idea di società alle spalle. Ci vendiamo cose con gran entusiasmo, qualsiasi cosa, perché l’entusiasmo accende l’attenzione. Perseguiamo la felicità stressandoci per rilassarci.

Sono tutti concetti individuati negli anni Sessanta del Novecento dai pubblicitari, dopo decenni di potente psicanalisi, per indurre il desiderio ad acquistare. Oggi ci appartengono con naturalezza. Il consiglio induttivo è preferibile al confronto, perché il confronto è fuori controllo, porta a rendere imprevedibili le posizioni finali e imprevedibile diventa la propria posizione finale. Inaccettabile. L’ironia dissacrante è preferibile alla constatazione riflessiva: meglio collezionare battute, ridere, esorcizzare quella sottile inquietudine facendo finta che non ci sia (entusiasmo!) che parlare e basta. Meglio l’atmosfera elettrica della città che quel mortorio del paesino di origine.

Erano schemi di comportamento funzionali all’acquisto, alla compravendita, al commercio, alla roba, oggi sono categorie esistenziali con cui viviamo il mondo.

Che cos’è il corpo

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«All’inizio degli anni settanta si poteva vedere nelle sale cinematografiche parigine uno spot pubblicitario che reclamizzava una nota marca di collant. Esso presentava di fronte un gruppo di ragazze che danzavano insieme. Chi ne ha osservato, anche distrattamente, qualche immagine, difficilmente avrà dimenticato la speciale impressione di sincronia e di dissonanza, di confusione e di singolarità, di comunicazione e di estraneità che emanava dai corpi delle danzatrici sorridenti. Quest’impressione riposava su un trucco: ogni ragazza era filmata da sola, e, successivamente, i singoli pezzi venivano composti insieme sullo sfondo dell’unica colonna sonora. Ma da quel facile trucco, dalla calcolata asimmetria nei movimenti delle lunghe gambe guainate nella stessa merce a buon mercato, alitava verso gli spettatori una promessa di felicità che concerneva inequivocabilmente il corpo umano.
La mercificazione del corpo umano sembrava insieme riscattarlo dallo stigma dell’ineffabilità che lo aveva segnato per millenni. Sciogliendosi dalla doppia catena del destino biologico e della biografia individuale. Nei balletti delle girls si compiva così il secolare processo di emancipazione della figura umana dai suoi fondamenti teologici che si era già imposto all’inizio del XIX secolo quando l’invenzione della litografia e della fotografia aveva incoraggiato la diffusione a buon mercato delle immagini pornografiche.
In un certo senso, il processo di emancipazione è antico quanto l’invenzione delle arti. Poiché dall’istante in cui una mano delineò o scolpì per la prima volta una figura umana, già in essa era presente a guidarla il sogno di Pigmalione: formare non semplicemente un’immagine al corpo amato, ma un altro corpo all’immagine.
Che ne è oggi della sommessa, insensata promessa di felicità che ci veniva incontro, nella penombra delle sale cinematografiche, dalle ragazze inguainate nei collants Dim? Mai come oggi il corpo umano – soprattutto quello femminile – è stato così massicciamente manipolato e immaginato da cima a fondo dalle tecniche della pubblicità: l’opacità delle differenze sessuali è stata smentita dal corpo transessuale, la mortalità del corpo organico messa in dubbio dalla promiscuità col corpo senz’organi della merce, l’intimità della vita erotica confutata dalla pornografia. Tuttavia il processo di tecnicizzazione, invece di investire materialmente il corpo, era rivolto alla costruzione di una sfera separata che non aveva con esso praticamente alcun punto di contatto: non il corpo è stato tecnicizzato, ma la sua immagine. Così il corpo glorioso della pubblicità è diventato la maschera dietro la quale il fragile, minuto corpo umano continua la sua precaria esistenza, e il geometrico splendore delle girls copre le lunghe file degli anonimi ignudi condotti alla morte nei Lager o le migliaia di cadaveri martoriati nella quotidiana carneficina sulle autostrade.
Appropriarsi delle trasformazioni storiche della natura umana che il capitalismo vuole confinare nello spettacolo, compenetrare immagine e corpo in uno spazio in cui essi non possano essere più separati, questo è il bene che l’umanità deve saper strappare alla merce al tramonto. La pubblicità e la pornografia sono le inconsapevoli levatrici di questo nuovo corpo dell’umanità».

Giorgio AgambenLa comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 41-44.

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Il corpo, di per sé, preso così com’è, desimbolizzato, desessualizzato, è orrendo. Non è il corpo morto, perché il corpo morto è già qualcosa di più di un corpo, è lì in quanto corpo da seppellire. Invece il corpo in quanto è ciò che l’uomo abita per vivere, è una cosa senza cosalità: un ammasso di carne flaccido, un insieme di organi disgustosi. E’ il corpo senza che sia per noi, in realtà non è neanche propriamente un corpo, non essendo proprio di nessuno. Non è neanche un corpo senza di noi (il corpo morto), è piuttosto il corpo senza nient’altro che sé stesso, senza che sia abitato da nessuno. Stiamo parlando quindi di un corpo inesistente nel senso che non può esistere: un corpo o è morto o e vivo, non c’è una terza via. L’immagine di un corpo, l’immagine che raffigura, ritrae, ritaglia, rappresenta, simbolizza è già qualcosa di più di un semplice corpo. Il corpo come corpo è un corpo senza immagine, è un corpo inesistente e inimmaginabile. 
All’opposto c’è l’immagine senza corpo, l’immagine di un corpo che è la sua stessa immagine e nient’altro, che si identifica con la sua immagine: è il corpo venduto, il corpo della pubblicità.
In mezzo, tra il corpo come corpo di se stesso e il corpo come immagine di sé, tra il corpo desimbolizzato e il corpo mercificato, c’è il corpo tal qual è, il corpo qualunque, il corpo che è la sua immagine e di cui la sua immagine ritrae e rappresenta un corpo, e che infine fa di sé stesso e della sua immagine la sua corporeità. E’ il corpo che non fa iato tra sé e la sua immagine, fa differenza ma non fa di questa differenza la sua identità. E’ il corpo che sa di essere un ammasso di carne disgustoso, ma sa anche di essere la sua immagine. E’ quel corpo che non si accontenta della sua statua, della sua immagine, della sua riproducibilità anonima, ma neanche del suo essere un mero corpo.

Tutti buoni

Quando torni a Napoli dopo un periodo di soggiorno all’esterno noti subito l’indulgenza culturale. E’ una sensazione accompagnata da uno stato di guardia: te ne senti immune. Ma questa è la prima fase, poi devolve. Me ne sono accorto guardando giorno dopo giorno un cartellone pubblicitario che campeggia nella metro: una donna che ammicca sulla scritta “Tutti buoni”, pubblicità di buoni sconto per una nota salumeria napoletana.

Appena arrivato in città la vista della reclama mi irritava. Ora quasi mi è simpatica.