Articoli scritti da: La materia non è solida

Ho creato un giornale online che redigo, Informazioni Marittime (informazionimarittime.it). Ho collaborato con Repubblica, Nazione Indiana, Linkiesta. Collaboro con NOT, Il Post, Corriere del Mezzogiorno. Studio chitarra classica. Questo blog esiste su Tumblr dal 2007. Nel 2014 si è trasferito su Wordpress. Qui scrivo di politica, cultura e filosofia di Maria Elena Boschi.

La libertà di espressione in un mondo di pubblicità

È un fatto notevole il livello di interiorizzazione del linguaggio pubblicitario che abbiamo raggiunto. Mi riferisco al fatto di usare tantissimo le iperboli, le metonimie e le sineddoche in qualsiasi contesto, dalla chiacchierata intima al discorso pubblico. Dire quello che si vuole ma dirlo sempre in modo esagerato o poetico-romantico, affinché possa ottenere la maggior attenzione possibile. Per dire, quando qualcuno ti bussa alla porta mentre sei al bagno, premesso che non vivi da solo, non potrai mai dire semplicemente “sto cagando” oppure “occupato” ma dovrai fare una battuta o chiedere scusa.

È tipico delle sottoculture ridurre parecchia espressività alla retorica dei simboli, dei messaggi immediati. Serve a mantenerne l’identità, costantemente sotto pressione dalla cultura egemone. Si pensi al nerd (che oggi è diventato geek e non è più una sottocultura): ma quanto è stancante fare conversazioni nerd? È tutto così prestazionale, citazionista, ossessivamente sarcastico, brillante (ma solo per dissacrare qualcosa che ti sta sul cazzo, o per dissacrare la brillantezza del ragionamento). In una parola, l’autoreferenzialità.

Il disastro che comporta l’interiorizzazione del linguaggio pubblicitario, così come quando ci si identifica totalmente in una sottocultura, è che tutto è esplicito, mai interpretabile. Una sottocultura, espressione della libertà di espressione, quando è presa alla lettera diventa dogmatismo conformista. Per esempio, il cristianesimo, nato per reazione sottoculturale all’intellettualismo ebraico, si è a sua volta intellettualizzato nella Chiesa. Si crea un enorme carico di lavoro, quello in cui il parlante deve convincere l’interlocutore del senso che vuole dare a quello che dice, invece di limitarsi a dirlo e basta. La scusa che usiamo è che se non facciamo così veniamo fraintesi perché la gente è stupida tranne sé stessi. Il messaggio che passa deve essere uno solo, senza non-detti. Di fatto, non c’è libertà di espressione.

Il problema è che sarei libero di esprimermi solo nella misura in cui non sono interpretabile: il mio messaggio deve essere costruito in modo tale da costringere il mittente a dargli un solo senso, il senso che dico io. In un discorso pubblico questa cosa è importante, perché si condivide una visione del mondo, ma ridurre la socialità a questa grammatica è un disastro perché ci ritroviamo a venderci il costrutto della propria condizione sociale, alimentando la competizione, l’invidia e la depressione invece di condividere pensieri e lasciare che l’imprevedibile faccia accadere qualcosa.

 

Che cos’è il mondo?

La storia accelera perché viviamo nell’epoca moderna, di cui l’accelerazione è una delle sue caratteristiche (ma non da ora, perlomeno dal XIX secolo).

In due anni abbiamo vissuto due eventi epocali che hanno prima mondializzato e poi ristretto il mondo in cui viviamo. La pandemia ha interessato tutti allo stesso modo tramite l’universalità delle restrizioni (con tutte le differenze materiali di classe). Tutti, come mondo, abbiamo vissuto la pandemia. La guerra, al contrario, ha ristretto il mondo e ristabilito i confini, rendendo più complicato pensare l’evento come un evento che interessi il mondo, visto che interessa solo l’Ucraina.

La questione è più complessa di così. Le ondate di contagio seguono i confini delle nazioni e non permettono di spostarsi, a volte nemmeno di lasciare casa. Dall’altro lato, una guerra d’invasione e di territorio ha effetti economici e politici mondiali immediati per tutti.

Comunque sia, è il mondo, come concetto, che sta sempre lì, e ci guarda spaesato.

Zio Alberto e la voglia di evasione dei napoletani

Ogni volta che zio Alberto – come lo chiama mia madre – fa un programma su Napoli, i napoletani guardano golosi, ne parlano soddisfatti il giorno dopo, ne sono orgogliosi per le settimane successive.

È la terza volta, nel giro di qualche anno, che la bolla social mette in scena questo siparietto, con gli assessori, la gente comune e i quotidiani locali felici. La cosa va letta come una pubblicità, nel senso tecnico del termine: è un contenuto che fa leva sui desideri, le aspirazioni, i progetti, le ambizioni, più che con la realtà vera e propria della città. È un documentario: la splendida vita selvaggia del Montana non racconta cosa fanno tutti i giorni gli abitanti del Montana, però cacchio, il Montana spacca e le aquile volano nel cielo. Ogni volta l’engaging aggrega il contenuto della Napoli di Zio Alberto su questo flusso: e quanto è bello, e quanto è bravo, e quanto è bella Napoli. Non c’è polarità, solo gioia. Il product placement perfetto, senza ambiguità, che chiunque può inoltrare senza sentirsi in colpa. Tanto, si parla di monumenti, di storia e di archeologia. Lamentarsi in questo caso è proprio fuori luogo.

Ignoriamo come vivono quel programma televisivo quelli che non ci vivono, a Napoli. Ignoriamo, in realtà, anche chi ci vive. È un programma che parla in astratto di Napoli: degli edifici, delle strade, dei portoni, del vesuvio e dei basoli. Non c’è niente, letteralmente, di vivo. Il programma, però, serve a noi napoletani, che siamo tanti, milioni di milioni. A pensarci, è bizzarro: nella città che conosco a memoria, perché ci vivo, ogni volta che me la sparano in tv celebrandone la bellezza io DEVO ri-vedermela. E ancora, e ancora. Un imperativo morale.

Indiscutibilmente, ogni volta è tutto bellissimo. Si può dire, però, che noia? Non ho detto gioia, ma noia noia noia. È tutto bellissimo, ma che palle.

Sotto sotto, è una voglia di evasione. Napoli è una città molto povera, scassata, indebitatissima. La viabilità è ingestibile e viverci richiede una sospensione continua dell’incredulità, a cominciare dalla violenza dei rapporti interpersonali tra gli sconosciuti, in genere tradotti come una focosa voglia di vivere. Come quella volta che la focosa gioia di vivere del figlio della padrona del cane vicina di casa ha avuto la brillante idea di prendere a calci, armato, la porta di casa mia minacciandomi di morte perché, esasperato dall’abbaio del cane, mi ero permesso di mandare a fanculo la sua mammina col suo cagnolino. Il risentimento, l’odio, l’insofferenza, l’insicurezza strutturale come gioia di vivere. È una realtà difficile da sopportare. La gente va via come va via da una città povera (e ci ritorna, preferendo giustamente la casetta di proprietà di papino, un modesto reddito, un golfo paradisiaco, al duro mondo della competizione capitalistica delle città ricche). Il mondo è violento ma qui da noi la violenza è fisica, più che psicologica, per cui basta atteggiarsi nel modo giusto per evitarla (tipo, non mandare a fanculo nessuno). Tra l’altro, qui l’inverno dura due settimane. Ma pure raccontare questa violenza, che palle. Un altro modo per evadere: la coolness gangsta.

E così, di fronte alla complessità del reale, alla sopportazione di un ambiente claustrofobico, il linguaggio della pubblicità e della guida turistica ci dà conforto, dicendoci ogni volta cosa è buono e cosa è brutto, cosa è sì e cosa è no, e noi contentissimi a esprimere questa polarità con la padronanza di linguaggio di mia nipote di due anni: è buuuttto, è beeellllo. Tu sei butto, io bello. Napoli bella, tu butto.

Grazie Zio Alberto. Ci fai volare.

La storia del XXI secolo inizia con Get Back

Vorrei tanto parlarne con Alessandro Barbero.

Il modo in cui si fa storia, lo storicismo, non è sempre lo stesso, pur essendo rimasto nella sostanza sempre lo stesso. La filosofia della storia, le considerazioni sullo storicismo, ci dicono che ogni generazione percepisce la storia in un certo modo. La scrittura storica evolve, cambia.

Lo storicismo inizia con Tucidide ma è sulla fine dell’Ottocento, con Bloch e Dilthey, come Barbero ci spiega molto bene, che lo storicismo, il funzionamento della storia, diventano quello che sono oggi, cioè il modo in cui studiamo la storia a scuola. Si tratta di un certo modo di organizzare le fonti per narrare una storia fatta non soltanto di grandi personaggi ma anche di gente comune. All’ufficialità dei documenti regali si affiancano i diari, i resoconti dei tribunali, le vicissitudini della gente. Si crea un sottile equilibrio tra i fatti che sono accaduti e la loro narrazione. Non si tratta più di rincorrere l’autenticità, che è impossibile trattandosi di cose che non ci sono più, ma di avvicinarcisi il più possibile. Chi mantiene questo equilibrio è un buono storico e ci consegna narrazioni sufficientemente autentiche.

Ma che sia Tucidide od Hobsbawm, la fonte non è mai cambiata. È la biblioteca, i testi, i documenti. Nulla di più. Lo storicismo evolve, il modo in cui raccontiamo quello che è successo non è sempre uguale, riflette la cultura in cui avviene, ma si è sempre costruito sugli stessi identici materiali, i testi. Cambia l’approccio interpretativo, l’esegesi, ma non la fonte. Il susseguirsi delle generazioni non lascia che carta scritta. Lo storico lavora quasi esclusivamente sulla carta, da sempre, da cui estrae un racconto che renda verosimile una lettera morta. Di fatto, nessuno può raccontare veramente quello che è successo. Non esistono fatti ma solo interpretazioni è un aforisma per dire che è ingenuo pretendere l’autenticità oggettiva se la storia accade quando le soggettività si mettono in moto. Chi potrebbe? Neanche un testimone potrebbe essere sufficientemente autentico, perché è la sua visione parziale. L’unico modo per vivere l’autenticità del passato è tornare indietro nel tempo. La verità storica in assoluto, quindi, non esiste. Il passato è perduto per sempre. Finanche la nostra memoria, quella del nostro autentico passato, viene rimaneggiata dall’inconscio e ci allontana dai fatti accaduti. Quello che possiamo fare è recuperare dagli archivi quello che è possibile comprendere di quello che è accaduto, che sarà sempre parziale, da completare con il lavoro di interpretazione dello storico. Il lavoro dello storico è un sottilissimo equilibrio tra romanzo e fatto.

Nei primi del Novecento arriva prima la fotografia, poi l’audio e il video, e il discorso dello storico cambia. Sono generazioni che, manco ce ne accorgiamo, vediamo e sentiamo letteralmente i grandi personaggi storici. L’inizio della corsa alla Luna è un filmato di un discorso di Kennedy. Non si può dire lo stesso della propaganda di Lincoln e dei suoi leggendari comizi. Ci farà ancora più impressione domani tutto questo, o forse è oggi che ci fa impressione e domani sarà la consuetudine dello storico? Prima, vedere e sentire la storia era impossibile, si poteva soltanto leggerla. È un cambiamento profondo, costante, lento, inesorabile, del modo in cui percepiamo il passato. Non più solo testo ma anche immagini, suoni e visioni. Sono sconvolgimenti ermeneutici.

Con Get Back di Peter Jackson abbiamo uno dei primi esempi meglio costruiti di questo nuovo storicismo. È il lavoro più ricco e sistematizzato mai fatto di questa nuova fonte storica, l’audio-visivo. La sua straordinarietà non risiede semplicemente nell’essersi preso la briga di schiaffarci in faccia centinaia di ore di girato. Non è proprio quello che è successo. Questo siamo capaci di farlo tutti, di raccogliere cose e buttarle in mezzo. È quello che facciamo quando chattiamo e comunichiamo: ci schiaffiamo in faccia roba che condividiamo a catena, assumendo il ruolo di intermediari senza moderazione, senza filtro, investiti di contenuti che facciamo rimbalzare senza riflessione. Lo youtuberaggio è un sapiente lavoro di montatura di materiali ma è senza storicismo, perché non si preoccupa di narrare fatti ma di opinare ossessivamente sulle cose senza limitarsi a narrarle.

Di 200 e passa ore di girato Get Back ne estrae appena 8. È un lavoro storicistico, cioè di montaggio e selezione. Una novità che balza agli occhi nel primo episodio, quando Linda Eastman-McCartney scatta le foto al gruppo. Prima avevamo solo la foto di quei momenti, decine di foto di quei giorni di preparazione al concerto. Ora, quelle foto ci sono state contestualizzate nel momento in cui sono state scattate. Pensateci, è una cosa inaudita. Se prima avevamo lo scatto di quei momenti, moltiplicati sui giornali nei decenni successivi come fonte storica, ora abbiamo il momento in cui quella foto è stata scattata e cosa stava succedendo mentre c’era qualcuno che scattava quelle foto. Come l’immagine del monaco di Saigon in fiamme, di cui abbiamo anche il video di quel momento, che ci permette di guardare quella foto storica con maggiore profondità.

Peter Jackson ha diretto uno straordinario lavoro dei montatori. Non ha fatto il regista di Hollywood ma il professore di cattedra di un lavoro storico, e i montatori gli assistenti ricercatori bibliotecari. Non è la prima volta che succede una cosa del genere ma, sarà che sono i Beatles – che sono un canone, cioè un modello poco controverso, un classico, qualcosa di non opinabile, più facile da maneggiare di un personaggio politico, per esempio -, comunque sia, il livello di sistematizzazione storicistica raggiunto con questo documentario potrebbe non avere precedenti e rappresentare a sua volta un nuovo canone storicistico.

Consigli per gli acquisti

Nietzsche is cool (by Amev)

Il linguaggio della pubblicità ci appartiene. Non ci scampa nessuno, da quello che prova a scamparci con tutte le forze, fino all’isteria e al complottismo, a quello a suo agio che non problematizza nulla.

Che ti professi autarchico, autonomo, libertario, progressista, libertino, freakkettino, conservatore, destromane. Sono diventate tutte performance da atteggiare, cioè azioni da disporre con lo scopo di essere osservate e valutate in sé, come un attore sul palco, più che come mezzi con un fine, con un’idea di società alle spalle. Ci vendiamo cose con gran entusiasmo, qualsiasi cosa, perché l’entusiasmo accende l’attenzione. Perseguiamo la felicità stressandoci per rilassarci.

Sono tutti concetti individuati negli anni Sessanta del Novecento dai pubblicitari, dopo decenni di potente psicanalisi, per indurre il desiderio ad acquistare. Oggi ci appartengono con naturalezza. Il consiglio induttivo è preferibile al confronto, perché il confronto è fuori controllo, porta a rendere imprevedibili le posizioni finali e imprevedibile diventa la propria posizione finale. Inaccettabile. L’ironia dissacrante è preferibile alla constatazione riflessiva: meglio collezionare battute, ridere, esorcizzare quella sottile inquietudine facendo finta che non ci sia (entusiasmo!) che parlare e basta. Meglio l’atmosfera elettrica della città che quel mortorio del paesino di origine.

Erano schemi di comportamento funzionali all’acquisto, alla compravendita, al commercio, alla roba, oggi sono categorie esistenziali con cui viviamo il mondo.

Sii turista della tua città

Five of Lord Rockinghams dogs (England 1762) – George Stubbs (1724 – 1806)

Nessuno ha detto che ce ne dobbiamo andare – vi sorprenderà sapere che proprio Eduardo De Filippo, una volta, disse ve n’ata fuji. Il vittimismo sulle condizioni oggettive di una città ne conferma l’oggettività delle condizioni.

“Terzo mondo” è un’esagerazione che serve a sottolineare come in un contesto bianco, industrializzato, europeo, una città come Napoli è in perenne via di sviluppo, ha cronici problemi economici e vive un dissesto delle infrastrutture e dei servizi senza via di uscita, se non sperando che Jovanotti metta una buona parola sulla cancellazione del debito.

Chi tene ‘o mare s’accorge ‘e tutto chello che succede

Il vittimismo non problematizza i problemi perché li vive poco, li scansa, e la mattina sul motorino riesce a ridurre tutta questa complessità alla benevolenza della natura, al sole di via caracciolo. Come fanno i turisti.

po’ sta luntano, e te fa’ senti comme coce. chi tene ‘o mare, ‘o ssaje, porta ‘na croce

Nessuno ha detto che fa schifo, né che bisogna andare via. Qui nessuno sta sputando. Ma è indubbiamente il terzo mondo, cioè un modo provocatorio di esprimerne i problemi strutturali: è bella la natura, è sfasciata la città. Il cortocircuito logico è: poiché è bella la natura, è bella la città. Non ha senso. Non c’è fascino dietro questo contrasto ma sofferenza. Il vittimismo ignora questa sofferenza e come quando andiamo in India ci dice: so poveri ma sorridono.

Il regista che ci racconta l’oggettività di questa condizione se n’è fujuto na vita fa.

Chi tene ‘o mare cammina ca vocca salata. Chi tene ‘o mare ‘o sape ca è fesso e cuntento

Il meccanismo alla base dell’amore per questo contrasto – le banlieue e le ville, il dissesto dei servizi e il golfo – risiede nel sollazzo regale, quel piacere per il pericolo assolutamente non rischioso. Come quando si passa in un brutto quartiere ma in quel quartiere non si vive, per cui c’è quell’inquietudine con la certezza che poi si torna a casa. Come quando guardiamo un film horror. Volendo scomodare Kant, è il sentimento del sublime: ammirare cose spiacevoli, colossali nella loro complessità, provare piacere di fronte all’impossibilità dell’armonia, grazie al fatto che si è in un cantuccio a contemplarla. Il piacere del turista in terra straniera. Come quando il re va a caccia coi cani nella sua tenuta: non potrà succedere niente di imprevisto, mai potrà soccombere e si godrà la sfida della caccia da predatore. Come dice De Giovanni, è un’aristocratica bellezza. E quando qualcuno ce lo fa notare, aristocraticamente alziamo gli occhi al cielo.

chi tene ‘o mare ‘o ssaje
nun tene niente…

Green pass o obbligo vaccinale? Piuttosto lo Stato

Non c’entra niente la foto di Bach, però rilassa

Il punto è che il green pass esautora lo Stato dalla responsabilità di vaccinare tutti, in questo caso di proteggere la popolazione da un’epidemia. Dall’altro lato un obbligo vaccinale – cioè l’impegno dello Stato a vaccinare tutti – potrebbe essere la strada per pretendere l’abolizione del green pass (con potrebbe intendo un’ipotesi che sarebbe bene discutere, così da rendersi conto se sia una sciocchezza o meno).

La terza opzione – né green pass, né vaccino – è precaria perché ad oggi non è corroborata da condizioni alternative oggettive: in genere è la pazza voglia di una sacrosanta opposizione politica, purtroppo senza contenuto.

Il dibattito pubblico tende alla polarizzazione da stadio fatta di slogan e narcisismo. In questo modo il discorso non si compatta pretendendo dallo Stato la piena responsabilità sulla cosa pubblica perché, distratto dall’untore su cui scaricargli i problemi esistenziali, non lo chiama in causa a proteggere tutto il suo gregge. Saremmo noi nella nostra singolarità a doverci proteggere, come se uno Stato non esistesse.

A decidere è lo Stato, a discutere la nostra solitudine, quella delle persone bombardate dagli schieramenti mediatici posticci fatti di invidia e odio sociale, ottimi per alimentare il flusso di traffico, fondamentali per l’apparato, inutili per rispecchiare la realtà delle cose, dove i “no vax” non esistono e i “rigoristi” sono calciatori rari.

La questione sollevata dagli accademici (con Barbero a spalare il fango) è molto importante: se pago le tasse per iscrivermi all’università, io l’università la devo frequentare. Ma se lo Stato mi dà la libertà di non vaccinarmi si crea una contraddizione: come frequentarla senza diffondere il virus? Il punto è che è lo Stato che deve risolvere questa contraddizione, non tu che ti abboffi di articoli di giornale. La solitudine dell’analfabeta funzionale, la cui particolare condizione analfabetica non è niente di tragico, è reversibile e risolvibile solo dallo Stato. Ma noi ci sguazziamo, godiamo nel riconoscerli, ci piace polemizzarci, come ci piace dare elemosina, così che possiamo redimerci. E intanto lo Stato non sarà mai responsabilizzato a istruire adeguatamente le persone.

Lo Stato è assente nella discussione ma non di fatto (uno Stato che vaccina gratis e raddoppia il debito pubblico in un anno è un signor Stato). È assente il dibattito, cioè le posizioni razionali. È innegabile che il green pass operi una divisione tra cittadini di serie A e B. È innegabile perché io, da vaccinato col green pass, semplicemente non mi sento un cittadino di serie A, lo sono. Da vaccinato ho una dignità maggiore di un non vaccinato, e non per superiorità morale ma per vantaggio naturale, di specie. Questa questione viene completamente elusa perché di fatto siamo tutti d’accordo a volere una società come la champions league, dove le comunità minoritarie sono le squadre che non vi accederanno mai.

La tragedia è che omessa la discussione sul diritto universale alla salute, all’istruzione, alla libera circolazione, e lasciando la gente a discutere solo su chi è più stronzo, si depotenzia la pressione che le persone dovrebbero fare sullo Stato. Quando discutiamo di queste cose, essendo pieni di invidia e odio sociale, noi questa pressione ce la facciamo tra di noi. Lo Stato svanisce, non è nei nostri pensieri.

Per esempio, in un contesto in cui lo Stato debba vaccinare tutti, magari tramite l’obbligo per legge, a quel punto si potrebbe criticare il green pass come la lesione di una serie di diritti. Nell’esprimere questa opinione – invece di incazzarsi contro le mamme incinta degli scemi – ci si responsabilizza nel dibattito assumendo una posizione. Si esce allo scoperto, ci si espone: sono contro il green pass e a favore dell’obbligo vaccinale. E non è detto che non possa cambiare idea. È un inizio, un’opinione su cui sarebbe bello confrontarsi.

Il punto non è azzeccare l’opinione corretta, quella più ganza, il punto è responsabilizzare lo Stato nel dibattito e smetterla di responsabilizzare i singoli. Quando vivremo in un mondo senza Stato sarà giusto responsabilizzare i singoli, bacchettarli, plauderli, mortificarli, premiarli, coccolarli e picchiarli. Ma fino ad allora io le persone – che prese singolarmente sono stupide e intelligenti, perché sono persone – le lascio stare e pretendo uno Stato che le protegga.

Parliamo di vaccini perché Giorgio Gambe gambizza il ragionamento

(Fotogramma /Ipa) via

Viviamo di scienza, di gps, di equazioni matematiche einsteiniane che correggono lo spazio-tempo affinché si possa sapere con precisione metrica dove sta il bar sotto casa. È la scienza che permette di comunicare con chiunque, continuamente, incessantemente, ossessivamente. La prima foto del buco nero è il frutto di un processo di selezione umana di una serie di immagini ricostruite da un’intelligenza artificiale. Non vuol dire che un’IA ha fatto la prima foto di un buco nero al posto nostro ma che avendo noi creato una parabola grande quanto l’emisfero terrestre, la quantità esorbitante di dati prodotta ha richiesto l’elaborazione di un’IA, cosa che ha permesso di fare in qualche mese quello che l’uomo da solo, centinaia di migliaia di persone, avrebbe fatto in anni. L’IA ha compresso il tempo e accelerato i risultati, non ha lavorato al posto nostro, ci ha aiutato. Questa compresenza delle macchine è la cifra della modernità, ma non da oggi, da tipo trecento anni. Volendo esagerare, da quando abbiamo scoperto il fuoco, da quando cachiamo semi per far crescere le piante.

La scienza non è esatta ma perfettibile. Siamo cresciuti con Piero Angela, stiamo crescendo con Neil deGrasse Tyson. L’abbiamo fatta la filosofia della scienza. Il vaccino non è la cura di tutti i mali e metterlo in dubbio non aiuterà a trovare quel paradiso perduto di sinistra. Ha una copertura di un anno, di sei mesi? Boh. Questa incertezza sconvolge? Benvenuti nella realtà da cui nessuno ci salverà.

Il vaccino non è distribuito allo stesso modo ovunque e non risolverà la crisi economica, e non possiamo rompergli i coglioni di questa maniera caricandogli sulle spalle tutte queste responsabilità. Vivere immersi nella tecnologia delle interfacce ci dà il privilegio di poter ignorare gli algoritmi che le fanno funzionare, il funzionamento di un sacco di cose che si usano per vivere. Per esempio, ignoriamo il fatto che le mappe satellitari funzionano grazie agli orologi atomici, che non sappiamo come funzionano. Sono talmente tante le cose che fanno funzionare il mondo senza che noi sappiamo come funzionano che possiamo permetterci di giocare a metterle in dubbio. Tanto, siamo mica noi a mandarle avanti? Siamo pre-adolescenti che subodorano la vita adulta, ci atteggiamo ad adulti senza responsabilità materiali, col cocco ammunnato della mammina e la casa comprata col mutuo del papino. È l’opulescenza della modernità, l’invenzione dei giovani. Ma non da oggi, da tipo centoquant’anni.

Se abbiamo smesso di capire il mondo non significa che il mondo smette di funzionare. Così come se pompiamo gas serra non accoppiamo il pianeta ma la nostra specie. Il pianeta sta bene.

Di fronte alle cose che non possiamo cambiare sclerotizziamo e ci inventiamo gli antagonismi. Per esempio, non lottiamo per l’equa distribuzione del vaccino ma opiniamo aristocraticamente sul gusto del gelato: e me piace alla vaniglia, a me alla fragola, a me fa venire mal di testa. Siamo sempre meno emancipati e di emancipazione ne capiamo sempre meno.

Le polemiche sulla pandemia fatte di tre decenni di dibattito politico sono il sintomo dell’irrisolvibilità di una serie di istanze politiche. In primo luogo l’egalitarismo: abbiamo rinunciato alla redistribuzione della ricchezza e all’universalità dei diritti. Ma non da oggi, da tipo sessant’anni. Solo che questa rinuncia avviene lentamente, come la rana nella pentola, non te ne accorgi, puoi sempre avere la percezione che non sia cambiato nulla, tanto gli schermi e le interfacce ti creano la realtà che ti pare. Della crisi economica non ci abbiamo capito nulla. Decenni di assetto iperliberale della società ci hanno reso cinici come Mickey Rourke e comici come Maccio Capatonda, e realisti verso il capitalismo, assunto come un fatto. Ed è tutto già accaduto. Parliamo del vaccino ma vorremmo disperatamente affrontare un’irrisolvibile crisi economica. I ragazzetti, digiuni di storia ed emancipazione; i vecchi, satolli di garantismo, tutti a millantare complotti, orfani dell’universalità dei diritti. La verità è la fuori. No, Mulder, la pandemia è solo la ciliegina sulla torta. Tu vuoi solo crederci, che è un’altra cosa.

Fa rabbia questa impotenza. È frustrante non poter più trasformare certe cose. Il complottismo è questa impotenza da fine del mondo, questo realismo cinico: tu, certe cose, certi diritti, una certa uguaglianza, non potrai mai ottenerli. Come nel trauma, irrisolvibile per definizione, l’oggetto dell’angoscia ha uno spostamento e ci si ritrova a lottare per una cazzata, la libertà di non farsi il vaccino, di non portare la mascherina, di non ottenere il green pass. Di farsi, fondamentalmente, i cazzi propri e vivere da libertini. Però poi buuuuuh capitalismo.

In una società così distopica, in cui è impossibile oggettivarne del tutto la distopia, il vaccino è l’ultimo degli spostamenti, l’ultima querelle sintomatica dell’irrisolvibilità di certe istanze politiche che c’erano ben prima della pandemia. Il bacino dei non vaccinati volontari è il trauma non ancora analizzato, una certa inerzia, la spossata consapevolezza che comunque sia anche da vaccinato la vita continua ad avere questa inquietante sensazione di scarso controllo. E allora il vaccino non me lo faccio!

Ho un amico che dal Vietnam proclama la felicità comunista dei vietnamiti. Ben gli sta. Non può fare altro che questo in un mondo che non può più soddisfare il desiderio autentico della politica, l’emancipazione. Un esercizio retorico spinto dalla nostalgia comunitaria, il rifiuto di accettare una sconfitta. La crisi economica strutturale si impasta con la disuguaglianza di genere e dei diritti, il ruolo della scienza si confonde con il nostro rapporto con la tecnica, il rapporto della tecnica con la scienza viene confuso col rapporto tra la tecnica e la società. Non abbiamo assolutamente idea di cosa significhi tecnica. Ricicla la plastica e vai in vacanza al mare che fa caldo. I cotton fioc dovresti usarli solo sul padiglione auricolare e i vestiti a basso costo inquinano, mentre speri ogni volta, e ogni volta ne resti deluso, e ogni volta ti illudi che è solo un caso, che la socialità non sia competitiva.

Quando scopriamo che la società non redistribuisce le risorse che ottiene con lo sfruttamento, glorifichiamo il passato dei nostri padri. Millenni di storia ma ci piace soffermarci su un’eccezione generazionale, quella del Dopoguerra, durata appena una ventina d’anni. Uh, la società è ancora divisa in classi; uh, l’organizzazione economica è ferocemente competitiva e non c’è posto per tutti i miliardi di persone che siamo; uh, la disuguaglianza sociale è incompatibile con il diritto alla salute; uh, la sovrappopolazione è un problema enorme. Dovremmo leggere tantissimo, anche Agamben, che quando non era crocefisso dal narcisismo ha dato un grande contributo alla teologia politica. Lasciate che sia Giorgio Gambe a gambizzare i ragionamenti, che siano i vecchi a lamentarsi, tutti quei baby boomers che si sono goduti i frutti della guerra dei loro padri – su Agamben ho la battuta definitiva: è Stato eccezionale. Noi dovremmo stare molto più calmi e rassegnarci. Dovremmo essere saggi.

Non possiamo mettere in mezzo tutta questa miriade di sconfitte, vagonate di questioni irrisolte, ogni volta che affrontiamo le epifanie della realtà. Il vaccino non ti renderà felice, non ti farà trovare lavoro, non ti risolve le magagne familiari, piuttosto rafforzerà il tuo sistema immunitario, e solo su un singolo virus, mentre è l’attività fisica giornaliera a renderti forte. L’homo sapiens per vivere a lungo deve consumarsi, non conservarsi. È solo un cazzo di vaccino, non il capitalismo, che è quella cosa che peggiora la gestione di tutte queste altre. Volete una prova? Non te lo fare il vaccino, non frega niente a nessuno, la baracca va avanti lo stesso e tu puoi tranquillamente disquisire sul gusto del gelato e atteggiarti ad antagonista.

E se volessimo esattamente proprio tutto questo feroce spostamento psicologico, questa polemica, questa confusione di intenti e argomenti? Dovremmo problematizzare tutte le disuguaglianze interiorizzate, tutte le istanze politiche smarrite, invece di fare come se non fosse cambiato nulla e aggrapparci ossessivamente a categorie che non ci appartengono, quelle di due generazioni fa, buone per quando si vive nella bambagia. Solo quando l’abbondanza è ben distribuita i diritti possono farsi universali. Nella penuria della redistribuzione l’autoritarismo regna. Quando questa legge della natura sfugge l’antagonismo viene scambiato per lo sport agonistico.

È un falso problema che si stia creando una categoria fittizia di non vaccinati, di cittadini di serie B, perché la disuguaglianza nella società c’è già, è strutturale, eggrazie che poi il vaccino col cazzo che lo do a tutti. Avendo interiorizzato il realismo di questa condizione – è giusto che la società sia diseguale, è naturale, è ineluttabile – ogni volta ci stupiamo delle sue nefaste conseguenze.

Si deve ragionare sul mondo come fosse la modernità. Ho detto modernità, non mondanità. La socialità è competitiva, compressa, accelerata, alienante. E invece no, facciamo i capricci, facciamo finta di niente, ci rifiutiamo di accettarlo. A scuola bisognerebbe insegnare l’inquietudine della modernità, l’incertezza strutturale della realtà già da prima della modernità, di come la didattica a distanza elimina l’istruzione come esperienza collettiva, relegandola alla scelta di classe di chi può permettersela. Vi ricordate quella sensazione che avevate svegliandovi alle 7 di mattina senza voglia di andare a scuola? Alla fine ci andavate, perché? Perché ci andavano tutti. Non ho detto che dovremmo andare a scuola nonostante la pandemia, ho detto che una scuola a distanza non ti fa vivere l’istruzione e la conoscenza come un dovere sociale. Ma c’è di più, la scuola a distanza è assolutamente fattibile. Questa è la differenza tra problematizzare un cambiamento e fare finta che non sia cambiato nulla. Lo sapevate che l’uomo prima della scienza usava la magia per esorcizzare il terrore della natura?

Disumanizzare il nemico

Heinrich Luitpold Himmler

Bisogna disumanizzare per uccidere. Il problema è che è impossibile disumanizzare, perché qualsiasi cosa tu possa fare per ridurre una persona a una cosa, questa continuerà a respirare. Per quanto si possa percuotere forte, per quanto la si possa ridurre al raccapriccio, all’informe, all’asessuato, sanguinerà, resta viva, consapevole. E ti guarda.

Durante la Seconda guerra mondiale si uccideva soprattutto con un colpo alla nuca. E quando la vittima scorgeva dalla cima del fossato il cumulo di cadaveri su cui a breve sarebbe precipitato – morto, se gli andava bene – la scena diventava grottesca, surreale, il panico. Era troppo anche per chi sparava. In Polonia i tedeschi hanno impiegato manodopera ucraina antisemita per rastrellare i villaggi. Non ce la facevano, i nazisti, era troppo anche per loro, gli ufficiali sub-appaltavano gli ordini che ricevevano da Berlino. E gli ordini sono ordini, e ci si convince di star facendo la cosa giusta, per una causa in cui si crede, pur non approvandone i mezzi. Milioni di persone sono morte così, migliaia di persone uccidono così.

Poi ci sono i campi di concentramento, che sono un altro pezzo della storia, più soggetta al riduzionismo (per cui l’orrore della Seconda guerra mondiale sia stato il campo di concentramento). Ma quella è la parte televisiva della storia, epica, scenografica, metaforicamente immensa, drammatica. L’orrore non è solo lì. Ci sono state anche le fosse, i rastrellamenti delle città e delle periferie, il terrore che dilagava parallelamente all’avanzamento del fronte. Queste cose non andrebbero dimenticate. L’inaudito sacrificio dei corpi, la disumanizzazione del nemico, la Guerra Totale, la volontà di dominio senza cosmopolitismo. L’imperialismo tossico. Tutto adesso, qui, ora. Una passione per il reale.

Eh no, amico caro, ti piacerebbe che il problema fosse tutto concentrato nei campi. Il problema è il delirio di onnipotenza. Sono piovute pistolettate in quel periodo, molte più di quelle che potresti immaginare. Le camere a gas al confronto sono un vezzo, una trovata logistica, un privilegio per pochi.

Sto leggendo un libro che ripercorre alcuni eventi della Seconda guerra mondiale dal punto di vista della Germania. La campagna di Russia, l’ufficio di Himmler. È un romanzo, il diario di un nazista frocio. Ho detto frocio per umanizzarlo, non per disumanizzarlo. Non nel senso è nazista ma almeno gli è capitato di essere frocio, piuttosto è nazista però è, tutto sommato, una persona come tante.

Jonthan Littel, Le benevole, Einaudi

Tutti i personaggi delle storie che ci piacciono, perlomeno da vent’anni, hanno tratti dickensiani: non sono buoni e non sono cattivi, sono uomini e fanno cose malvagie. Non è il relativismo morale che ci attira, anzi, sono personaggi dalla moralità granitica, lucidissima, sappiamo benissimo che loro sanno benissimo quando si stanno comportando bene e quando male. Quello che intriga è il fatto che ci riconosciamo in quello che fanno. Potremmo essere noi. Magari – senza quella teatralità evenemenziale cinematografica – nella sostanza lo siamo. Sono persone normali che a un certo punto lasciano che siano le circostanze a spingerle a fare quello che devono fare, piuttosto che fare quello che si deve fare a prescindere dalle circostanze. È la rivincita del pragmatismo razionalista inglese sull’idealismo romantico tedesco.

Walter White (Brian Cranston)

Ci chiamiamo Walter White, Tony Soprano, Omar Little, Stringer Bell, Jimmy McNulty. La catarsi è nel realismo del personaggio, senza stereotipi, stilemi. Il nemico, il cattivo, non è allontanato e disumanizzato ma umanizzato, è una persona normale, non è diabolico, non è angelico. Non è un essere sacro che trascende la nostra esperienza vissuta, piuttosto è il male in una splendida giornata di sole ad Albuquerque. Questo è il male.

Oltre ad Arendt, oggi bisogna anche vedere i film, i telefilm e leggere i casi editoriali come fosse il Processo di Norimberga. D’altronde, se si tratta di com-prendere le cose bisogna afferrarle non allontanarle. Il male va fatto sedere sul divano e parlarci, appassionarcisi. Non dico farci l’amore che è pericoloso ma ci si deve responsabilizzare verso le cose che si vuole conoscere. Cos’è il male? A che serve?

Appassioniamoci al male.

La moralità è un lavoro continuo su di sé, una presa d’atto della responsabilità continua, mai risolutiva, che si ha verso la propria esistenza, prima ancora che verso quella degli altri. L’anima bella non esiste, però non esiste neanche il diavolo. Significa che tutto è permesso? Sì, significa proprio che tutto è permesso, visto che dio è morto. Però significa anche che, essendo liberi e autonomi, si è quindi liberi anche di non dover per forza fare tutto ciò che è permesso. Sarebbe un po’ stupido fare tutto quello che è permesso, come degli automi. Confidare troppo nell’edonismo ha un effetto nefasto, paradossale: si diventa dei bacchettoni, ossequiosi della legge, che ti comanda di fare tutto quello che vuoi.

Bisogna abituarsi a vedere i film horror fatti bene. Il male non è semplicemente quell’abisso nietzschiano che poi ti guarda e ti paralizza. Quello è l’effetto che fa quando lo guardi la prima volta. Poi ti abitui e impari a riconoscerlo, a misurarti. Impari a prenderne atto per prenderne le distanze. Rimuovere la necessità di invischiarsi nell’osceno espone a una potente deresponsabilizzazione: il male è espulso come un corpo estraneo e io ne sono fuori. E se io sono buono, sono mamma e papà ad essere cattivi, sono loro, gli altri, a essere malvagi. Quelli che governano, ladri!, quelli che non vivono come te, inferiori!, quelli che ci comandano, che ci manipolano, che ci riempiono di bugie. Che invidia! Li apriremo come una scatola di tonno. Capitàno! Io sono una vittima e, al contrario di loro, io sono buono, di razza pura, loro sono il male e andrebbero eliminati. È un attimo passare dall’altra parte se si sta continuamente a disumanizzare, a sacralizzare, a trascendere le cause come fossero oggetti da contemplare.

Per cui se il nodo è l’impossibilità di disumanizzare, è sbagliato tanto disumanizzare quanto disumanizzare chi si illude che la soluzione sarebbe catalogare gli umani in umani e disumani. È sbagliato disumanizzare qualsiasi umano, se non esistono umani di serie A e di serie B. È sbagliato rendere diabolici i nazisti per un motivo molto semplice: diventano irriconoscibili, disumani, super-umani. Si stenta a riconoscerli.