
Il linguaggio della pubblicità ci appartiene. Non ci scampa nessuno, da quello che prova a scamparci con tutte le forze, fino all’isteria e al complottismo, a quello a suo agio che non problematizza nulla.
Che ti professi autarchico, autonomo, libertario, progressista, libertino, freakkettino, conservatore, destromane. Sono diventate tutte performance da atteggiare, cioè azioni da disporre con lo scopo di essere osservate e valutate in sé, come un attore sul palco, più che come mezzi con un fine, con un’idea di società alle spalle. Ci vendiamo cose con gran entusiasmo, qualsiasi cosa, perché l’entusiasmo accende l’attenzione. Perseguiamo la felicità stressandoci per rilassarci.
Sono tutti concetti individuati negli anni Sessanta del Novecento dai pubblicitari, dopo decenni di potente psicanalisi, per indurre il desiderio ad acquistare. Oggi ci appartengono con naturalezza. Il consiglio induttivo è preferibile al confronto, perché il confronto è fuori controllo, porta a rendere imprevedibili le posizioni finali e imprevedibile diventa la propria posizione finale. Inaccettabile. L’ironia dissacrante è preferibile alla constatazione riflessiva: meglio collezionare battute, ridere, esorcizzare quella sottile inquietudine facendo finta che non ci sia (entusiasmo!) che parlare e basta. Meglio l’atmosfera elettrica della città che quel mortorio del paesino di origine.
Erano schemi di comportamento funzionali all’acquisto, alla compravendita, al commercio, alla roba, oggi sono categorie esistenziali con cui viviamo il mondo.