Gli universali prima dei particolari: povere creature!

Yorgos Lanthimos ed Emma Stone

La potenza dell’emancipazione sta negli universali. L’autodeterminazione, la libertà culturale, l’uguaglianza, la redistribuzione, per dirne qualcuno, sono degli universali. Il comunismo (redistribuzione), il femminismo (libertà culturale, universale che contiene il sessuale), l’anarchismo (autodeterminazione), il socialismo (uguaglianza), sono i particolari di questi universali: ciascuno di questi particolari contiene quegli universali, altrimenti è farlocco, è fumo negli occhi, è edonismo, è liberismo. Gli universali, infine, sfumano tra i particolari: alcuni particolari contengono specifici universali, oppure li hanno solo per certi periodi.

La prima conseguenza di questo assetto cognitivo del politico è che qualsiasi lotta politica per essere efficace deve essere universale, cioè deve riguardare tutti, indistintamente, anche gli stronzi, anche i nemici, anche chi rema contro. “Universale” è una parola pesante, travalica l’individualità, la scamazza, l’individuo si sacrifica, politicamente, all’universale. O, per dirla in termini meno trascendenti, l’individuo conta molto poco dinanzi all’universale, nonostante sia l’unico su cui l’universalità può contare. L’universalità è la chiave per rendere un’istanza privata un’istanza collettiva, politica. Vuoi fare più soldi? Augurati che possano tutti fare più soldi. Non è sostenibile? Augurati un mondo in cui è sostenibile fare i soldi. “Sostenibile” è l’universale del particolare “soldi”, in questo caso.

Altri particolari sono l’edonismo, il liberismo, l’individualismo, il successo, il merito, la competizione, cioè la società universale in cui viviamo oggi. Sono particolari molto belli, utili per lo sport, la prostata e la libertà d’impresa ma per essere affermati vanno resi universali. Fanno bene alla salute? Sì, ma sono anche dei farmaci: curano e avvelenano allo stesso tempo, vanno usati con cautela e in determinati contesti. Abusarne rende disperati, affamati, infantili, immorali, bugiardi e narcisisti come chi abusa dei video di Tik Tok. I particolari presi a dosi massicce, pisciando sugli universali, ci rendono piccoli piccoli, tutti concentrati sui nostri bisogni. Dei piagnoni senza autonomia. Incapaci di autodeterminarci.

Povere creature di Yorgos Lanthimos parla di femminismo, parla della donna, del corpo, ma anche dell’autodeterminazione. Il fatto che il discorso sul film sia intriso dei primi tre termini particolari e non dell’unico universale, il quarto, vuol dire che la società in cui viviamo è orfana degli universali. Ce lo dice proprio il film e ce lo diciamo tra di noi, senza rendercene conto.

Godwin Baxter (Willem Dafoe), nonostante usi i corpi come oggetti, lascia che la creatura che ha generato possa autodeterminarsi, rischiando anche la vita, rischiando soprattutto la vita, per potersi autodeterminare. Bella (Emma Stone) è una donna e questa libertà, l’autodeterminazione, deve prima di tutto esercitarla tramite il femminismo, il mezzo della sua emancipazione. Poiché è una donna deve usare il suo corpo per emanciparsi, perché il corpo di una donna è sempre espropriato, e per riappropriarselo bisogna prima di tutto tradire e scopare.

Baxter, che maltratta i particolari, le persone, e che non sa cos’è il femminismo, è molto più femminista di chi si professa “femminista”, cioè di chi fa del femminismo una performance. Non bisogna essere educati con le persone, bisogna essere rispettosi con le persone, con tutti, anche con le donne, per quanto riguarda i maschi. Baxter ha un carattere di merda ma rispetta gli universali, e necessariamente allora rispetta anche i particolari, le persone che maltratta. Nessuno vorrebbe vivere con Baxter ma il suo comportamento è esemplare, nonostante molto spesso si comporti una merda.

Lascia stare il particolari, concentrati sull’universale. Non ti distrarre.

L’emancipazione femminile, così come la libertà sessuale, richiede una società egalitaria in cui esercitare la libertà di scopare o di essere donna, altrimenti è edonismo camuffato per libertà collettiva, dove “collettivo” è parente di voyeur: guardami mentre esercito la mia libertà. Il porno può essere un mezzo del femminismo ma di per sé è uno strumento utilizzabile da chiunque. Il sesso, che quando è guardato è porno, è un mezzo per l’emancipazione. Ma la libertà sessuale è un’altra cosa, è più ampia della sessualità femminile, la include, come il sesso rispetto al porno. La libertà sessuale presuppone una libertà più ampia, l’autodeterminazione universale, altrimenti è libertà concessa. La mia libertà dovrebbe essere garantita da una libertà più ampia delle mie capacità particolari di esercitare una certa libertà in cui riconoscermi, magari perché vivo in un contesto privilegiato.

Il punto focale è che il successo di qualsiasi politica di emancipazione, dal femminismo all’ambientalismo, richiede un universale: la realizzazione di un particolare ha un grosso dipende, l’universale. Le istanze particolari delle politiche emancipatorie dovrebbero farsi assorbire da un universale, e dovrebbero farsi assorbire con la stessa determinazione di Bella: spremere l’universale, usarlo come meglio si crede per ottenere quello che si vuole. Bella si autodetermina inizialmente perché, almeno in quella fase della vita, deve scoprire il sesso. Poi, tra una scopata e l’altra, prigioniera di Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), incontra altre due persone che la emancipano facendole scoprire la conoscenza, cioè la capacità di pensare in autonomia, e allora Bella fa un altro salto includendo un universale in un altro universale più ampio: l’autodeterminazione, concessa da Baxter, presuppone la capacità di pensare liberamente. Che tu sia Baxter o Duncan, uno stronzo o un pusillanime, potrai sempre far parte di un universale. C’è posto anche per te, se vuoi.

La burocrazia è come il familismo

Otto Von Bismarck, primo ministro del Regno di Prussia

È un po’ come se la burocrazia fosse una forma di familismo che va per risonanza: ciascuno, senza mai esporsi, fa un pezzettino di qualcosa, una piccola mansione atomizzata, a cui si aggiungerà un altro pezzettino da vidimare, e così via.

Ogni gesto, preso per sé stesso, è insignificante ma riutilizzabile. Ne richiama un altro, che ne richiama un altro, e così via fino a risuonare per simpatia, finché a un certo punto questo millepiedi fatto di gesti protocollati assume una forma accettabile.

Nessuno opererà mai spontaneamente ma sempre su richiesta, su sollecito. Ciascuno è avviato, come un motore.

Tutti, alla fine, dobbiamo lavorare, ma siamo troppi. E allora spalmiamo il più possibile tutto quello che c’è da fare redistribuendolo forzatamente su tante cellule, così che nessuno si ritrovi senza fare niente e ciascuno partecipi alla composizione di un puzzle impersonale, senza regia. Finché a un certo punto, quando provoca un danno, il dirigente interviene non facendo altro che agire spontaneamente, come si sarebbe potuto fare dall’inizio, ben prima dell’avvio della catena di compitini. Il dirigente rompe il meccanismo e determina un governo momentaneo, utile solo a ristabilire il flusso che si era inceppato. Una volta ristabilito, il governo si ritirerà di nuovo lasciando che il flusso riprenda a scorrere.

Questa dinamica somiglia al familismo perché il familismo è questo meccanismo qui, dove un capobranco, o più capobranchi, si prendono in carico le principali responsabilità, redistribuendole poi a loro volta come un tonno spalmabile su tutto il gruppo gregario. I capobranchi, senza delegittimarsi, si deresponsabilizzano responsabilizzando i gregari in mansioni di cui non sono responsabili perché quello che fanno, preso per sé stesso, non ha valore. Ha valore solo nell’insieme, nel risultato del lavoro del branco, che è un buon lavoro quando è risonante.

Non importa che struttura serva questo apparato. Funziona in una democrazia, funziona in una dittatura. È totalmente impersonale. È un’operosità inutile nelle sue parti, funzionale nel suo insieme. Banale come il male.

Il problema degli affitti brevi si risolve con gli affitti lunghi

(Peter/Flickr) via

Io non ho neanche una casa di proprietà e non penso che in questa vita riuscirò mai ad acquistarne una. In vecchiaia mi godrò quella che mi lascia in eredità papà, che dividerò con mio fratello. Per cui quello che sto per dire mi viene naturale ed è la dimostrazione che le posizioni politiche, come diceva Marx, sono dettate da condizioni materiali. Ma per tutti gli altri, quelli che le proprietà ce le hanno, vi basti sapere che potreste surclassare il materialismo e fare un gesto politico autentico perché non dettato da necessità materiali. Io sono contro gli affitti brevi perché sono in fitto, ma quello che fitta a un residente la sua proprietà quando potrebbe fittarla a un turista, beh, ha stravinto. Fare gli affitti lunghi perché è giusto fare così, sacrificando il proprio profitto. In altre parole, le cose nella società si cambiano cambiando più che parlando, pontificando, polemizzando, riflettendo, giudicando, pensando, ballando.

Le assemblee pubbliche le fa chi ha bisogno di una casa, per confrontarsi e solidarizzare ma concretamente, per cambiare le cose, chi ha una casa in più dovrebbe fittarla a un residente. Punto. Hai voglia di discutere, senza la volontà degli interessati, i pluri-proprietari che decidono di sacrificare il profitto, hai voglia di parlarne.

Chi mai possa fare una cosa del genere – scegliere volontariamente un affitto lungo, sacrificando un mero interesse economico, il profitto, per uno più grande, l’equilibrio sociale – avrebbe anche un’ottima occasione di popolarità. Potrebbe postare sui social questa saggia decisione una volta messa in pratica. Pensateci, potrebbe fare un post tipo: «Io non parlo, io faccio. La mia unica casa di proprietà [bugia ma di buon effetto] io la metto in fitto a un residente e vaffanculo i turisti!». Farebbe un figurone pieno di like. Unirebbe vanità e moralità, sarebbe applaudito dalla comunità e tante persone gli chiederebbero di fare l’amore.

Pensateci, pluri-proprietari. Invece di fare profitto potreste fare l’amore, o essere amati.

Purtroppo tutti i pluri-proprietari sono stronzi a loro insaputa, una goccina di merda in un mare di auto-assoluzione, dove chiunque viene interpellato sulla questione ti risponderà: «IO?!? Ma io che c’entro? Cioè tra tutti, proprio IO?! La casa è di papà che mi ha chiesto di metterla su airbnb, io non ci guadagno niente. Anzi, vado pure a fare le pulizie. E poi dai, io sono di sinistra! Lo sai. Proprio a me mi stai a chiedere sto sforzo morale? Che non sono manco milionario. Proprio IO dovrei fare un affitto lungo? Ma chiedilo a chi ha otto immobili, io ne ho solo quattro!»

Finché l’IA non impara la grammatica, stiamo tranquillissimi

Il collegamento salta perché il video è stato cancellato ovunque. La canzone è Heart on my sleeve generata da un’IA con le voci di Drake e The weeknd

È una canzone brutta. Punto. Il fatto che l’abbia scritta un’Intelligenza Artificiale (IA) e non una persona è un’attenuante: brava bambina, continua così che sei sulla buona strada. In questo momento storico, però, queste IA avrebbero bisogno più di una pacca sulla spalla che di un’ovazione per acclamazione, altrimenti verranno su completamente sceme. Ed è a quel punto che mi preoccuperei: io non voglio essere dominato da uno scemo, voglio essere dominato da una persona seria.

Sta canzone potrà piacere ai teen-ager, ma cos’è che non piace ai teen-ager? Perché valutare col loro criterio quando poi se c’è da affrontare la vita lasciamo che siano giustamente gli adulti a occuparsene? I giovani è una categoria culturale inventata all’inizio del Novecento insieme alla massa. Prima non esistevano. I teen-ager, di fatto, non esistono, sono un momento transitorio della vita dell’essere umano. Siamo tutti stati teen-ager come siamo stati tutti neonati. Perché fare dello spirito adolescenziale un valore esistenziale? Che problema abbiamo, cari adulti? I teen-ager saranno la società del futuro proprio quando non saranno più teen-ager. Sono una categoria utile al mercato, niente di più. Ogni ruffianata che facciamo nei loro confronti – “beh, se piace ai teen-ager, allora” – è la manifesta meschinità di una società che non tiene le palle di prendere posizione. Non tiene il coraggio di dire che è semplicemente una canzone brutta. L’IA al momento fa cose sbilenche, quantitativamente impressionanti ma qualitativamente ancora scarsissime. Nell’automazione fa già paura, nell’arte fa cagare, a tutti i livelli. È ancora piccina.

I teen-ager sono limitati nel giudizio estetico, non possono frastagliare il gusto perché non hanno sufficiente esperienza. Non hanno preferenze perché ogni giorno preferiscono qualcosa di nuovo e dopodomani non ricordano più quello che preferivano l’altro ieri. Hanno appena iniziato a fare esperienza, la memoria ha appena iniziato a stratificarsi. Perché sopravvalutarli di questa maniera? Sono onnivori, si magnano qualsiasi cosa. Non hanno complessità. Non problematizzano. Sul loro giudizio non si fonda la società, è semmai la società che è ossessionata dal loro giudizio. È ossessionata da TikTok (e con questo ho fatto invecchiare di colpo questo articolo). Che gli adolescenti creino pure un engaging di milioni di commenti ma la caciara di una massa non fa giudizio, fa solo caciara. Nessuno vuole giudicare le cose come un teen-ager ma siamo pronti a sopravvalutare il suo giudizio ogni volta che non abbiamo il coraggio di formulare giudizi.

Non ce l’ho coi teen-ager. Io amo i teen-ager. Ho un sacco di amici teen-ager. Sono stato teen-ager anch’io. Però nessuno che non è teen-ager frequenta i teen-ager. Perché allora frequentare la vita come un adolescente? Perché parametrare il giudizio estetico su di loro, su questo entusiasmo immotivato?

Finché l’IA si istruisce indirettamente per imitazione senza partire direttamente dalle regole che fanno funzionare le cose che si imitano, non è nemmeno un’IA. Finché le canzoni saranno collage di canzoni, senza partire dallo scheletro delle canzoni, dalla loro astrattezza grammaticale, l’IA produrrà cose appariscenti ma deboli, mirabolanti ma monotone, brillanti ma ripetitive, appiattite su uno stile, meccaniche, entusiasmanti come l’affettazione di uno stato lisergico.

All’inizio si impara per imitazione, e l’espressività è logicamente monotona. Poi, quando si aggiunge la grammatica, ci si emancipa dalla dipendenza imitativa e si diventa autonomi, creativi, adulti. Fare arte è la capacità di gestione di questa complessità tra imitazione e funzionamento delle regole. Il talento, quella capacità di fare cose interessanti senza sforzo ma con un certo automatismo, richiede una pratica continua di tentativi ed errori. Richiede allenamento. Nell’atleta riconosciamo subito questo meccanismo. Quando ce l’abbiamo di fronte riconosciamo facilmente l’enorme lavoro dietro la sua performance. Con l’artista tutto questo salta, ci rifiutiamo di pensarlo così, perché l’artista si occupa del bello e del sentimento. Ma l’artista, esattamente come l’atleta, esprime l’estetica (la bellezza) tramite un’abilità: di scolpire, di filmare, di suonare, di declamare.

Tonnellate di ore di studio per pochi minuti di esibizione. L’esibizione è bastarda. L’arte, dal punto di vista dell’artista, è solo una cosa da dominare. Lo spettatore tende a equiparare l’allenamento artistico all’esibizione, per cui pensa che per prepararsi sia sufficiente la stessa quantità di tempo. Un fraintendimento fatale. Il talento sbandierato come una cosa reale. Ma il talento è sbandierato solo da chi si scoccia di allenarsi, di imparare le regole che fanno funzionare gli oggetti estetici. Chi sbandiera talento si atteggia con gli scemi, che lo promuovono per acclamazione. Il pigro crede nel talento, il talentuoso crede nello studio. Non esiste un solo talentuoso che non si sia rotto il culo sulla sedia, ad esaurirsi di studio snervante. Lui non ve lo dirà mai, è il suo segreto, perché dovrà apparire spontaneo e fare le cose senza sforzo, con eleganza. Dovrà essere un mago. Lo spettatore ama la magia, ama il fatto che le cose accadano senza cause, per trascendenza. L’arte vogliamo viverla come viviamo la religione perché l’arte deve essere qualcosa di più della realtà, deve ripresentarcela, deve arricchircela.

Lo spettatore rispecchia la società. Se lo spettatore non è consapevole della necessità della magia e nello stesso tempo della sua inconsistenza, si farà ammaliare con facilità, si farà prendere in giro, perché vorrà la magia senza sapere tutto l’enorme sforzo, l’enorme lavoro e sacrificio che richiede, lo stesso richiesto per vivere, o ancora meglio per sopravvivere. Vivere l’arte ignorando tutto questo, cioè credere nella spontaneità del talento, vuole dire vivere in una società di tossicodipendenti: di sostanze psicoattive, di una figura autoritaria. La spontaneità nell’arte non esiste. Fare figli è spontaneo, basta eiaculare o farsi eiaculare. Una cosa semplicissima. Fare arte è invece una faticata immensa, è art-ificiale.

Il talento è sommare tutto quello che si sa per dare come risultato qualcosa che non è la mera somma delle parti ma qualcosa di più che sfugge al controllo di chi crea. Quel qualcosa di più lo decide lo spettatore che cos’è, non l’artista. L’artista serve solo a fare arte, il giudizio spetta allo spettatore. L’IA in questo momento storico fa mero calcolo, somma le cose limitandosi al risultato senza niente di più. Lo spettatore vorrebbe disperatamente aggiungerci qualcosa che non sia la mera somma delle parti, per cui si entusiasma senza sostanza, come un adolescente. È piuttosto il modo in cui lavora l’IA a essere impressionante, la velocità pazzesca con cui assorbe le nozioni a lasciarci a bocca aperta, sputandoci un risultato però, almeno in questo momento, assolutamente trascurabile in confronto alla creatività di un essere umano che lavora cento volte più lento.

Se Midjourney sta rendendo il lavoro degli architetti obsoleto, perché gridare all’opera d’arte? A me non pare che gli architetti siano equiparati a disegnatori. Così come non mi pare che i giornalisti siano equiparabili a scrittori. Se si tratta di progettare una casa o di riferire di un fatto accaduto, l’IA potremmo dire che già fa tutto questo. Ma da qui ad assegnargi già ora la capacità di immaginare mondi inesistenti o di raccontare storie metafora della vita ce ne passa. Diamoci una calmata.

In questo momento storico stiamo istruendo l’IA per imitazione. Il che va benissimo nei processi di automazione ma non nell’arte. Un artista allevato per imitazione e acclamato come un genio è solo un ciuccio e presuntuoso che vivrà bene finché il pubblico è più scemo di lui. Finché non arriverà un programmatore che istruisce l’IA sull’armonia musicale, per esempio, o sulle regole della prospettiva nel disegno, l’IA non potrà mai maneggiare queste regole, non potrà mai romperle, sarà sempre in balìa delle istruzioni del programmatore, che tanto saprà di informatica quanto pochissimo saprà di armonia e prospettiva. In questo modo la musica non andrà oltre 10 secondi di fraseggio da ripetere per 5 minuti. Il disegno non andrà oltre il tratto dei volti a forte contrasto. Solo quando apprenderà le regole, a quel punto, l’IA produrrà cosa interessanti. Ed è a quel punto, essendo diventata indistinguibile da una coscienza, perché si muoverà esattamente come se l’avesse, che sarà indistinguibile da un atto creativo umano.

E non raccontiamoci la balla che la coscienza è inarrivabile per un’IA. Siamo un ammasso di budella, carne, sudore, sangue e vomito, da cui emerge qualcosa che chiamiamo coscienza. Daniel Dennet lo ha dimostrato – con un esperimento mentale – chiaramente: uno zombie che si comporta come se avesse una coscienza è indistinguibile da una persona con una coscienza. Per cui uno zombie può avere una coscienza, anche se è morto, così come un ammasso di schede madri può avere una coscienza, anche se emerge da un insieme di script. “L’essere umano ha una coscienza o si comporta come se l’avesse?” è una domanda retorica: qual è la differenza? La coscienza – nella sua definizione più scientifica possibile – è una ridondanza, un riverbero, o una risonanza del rumore di fondo del cervello. Se poi qualifichiamo la coscienza come un quid, un’anima irriducibile al corpo e che al corpo vi sopravvive, questo è un altro paio di maniche che non riconoscerà mai una coscienza in un computer, al costo però di non capire mai veramente cosa sia una coscienza, almeno non tanto quanto potremmo sapere chi è dio o lo spirito santo.

Dominiamo già il mondo. Ci dominiamo a vicenda e facciamo della violenza la base dei rapporti di potere. Se ci preoccupiamo di un’IA che possa fare lo stesso è solo perché rifiutiamo di ammettere la violenza alla base dei rapporti interpersonali. E allora scarichiamo questa paura sull’IA, paralizzati dalla tremenda difficoltà che risiede nel realizzare una società egalitaria che fa della violenza un esercizio di sopravvivenza più che di dominio.

Più che di quello che l’IA potrà mai fare in futuro mi preoccuperei semmai di quante cose kitsch, tamarre, brutte, ridondanti, monotone, banali, ingenuotte continuerà a regalarci ancora per un bel po’.

Mus est sillaba: il contesto è collassato. Prendiamoci cura della pragmatica

(Joachim Dobler/Flickr)

Viviamo in un mondo dove le logiche della razza, del colonialismo e del patriarcato non sono state superate, e questo è inammissibile. Per uscire da questo imbarazzo ci viene in aiuto la narrazione, che crea un piano della realtà distinto, più tollerabile della realtà reale. Essendo il linguaggio il filtro col quale facciamo esperienza del mondo, la narrazione del reale soddisfa il desiderio di epurare razzismo, colonialismo capitalista e patriarcato millenario dal vocabolario per creare una realtà ideale in cui queste cose non esistono. Grazie alle storie ci creiamo la realtà che auspichiamo, la viviamo, trascurando colpevolmente la realtà in cui veramente viviamo. Il linguaggio descrive il mondo ed è così potente che riesce ad essere la realtà, sdoganando la meschinità.

È il politically correct, il grumo dove il dogmatismo religioso complottista, il marxismo disperato dal fallimento e il fascismo legittimato dall’autoritarismo economico convergono e conflagrano. Il politically correct è una costruzione linguistica della realtà e si basa sullo strutturalismo linguistico, una delle più importanti invenzioni del Novecento dopo la bomba atomica: le parole costruiscono il mondo in cui viviamo, a prescindere dalla percezione che possiamo averne di esso. Questo perché il senso, il significato delle parole, ha una sua consistenza, è solido. Tramite il senso la lingua crea la percezione del mondo, corrompendo la felice intuizione dell’idealismo filosofico, che identificava la realtà con la razionalità, non con le parole: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Il senso, quindi, può tranquillamente sostituirsi alla realtà senza che ce ne accorgiamo. Il parlante costruisce una realtà attorno all’ascoltatore. Quando parliamo allestiamo un teatro di posa. Perciò tendiamo ad essere manipolatori narcisi. Siamo tutti narcisisti patologici in un mondo del genere. I maschi lo sono di più perché sono quelli che comandano in una società patriarcale.

Svincolarsi da questa specie di narcisismo collettivo che crea un mondo magico costruito sulle parole è estremamente faticoso. La pubblicità sfrutta questo enorme potere della parola creando un nesso molto stretto tra parole, realtà e desiderio, incantandoci e riuscendo così a venderci qualsiasi cosa di cui non abbiamo bisogno. Se in questo periodo le pubblicità di youtube ci danno così fastidio è perché nella loro grossolana ripetitività e ridondanza, lontana dal livello di raffinatezza raggiunto su altri media, ci ricordano, decenni dopo gli spot televisivi e i banner sul web, quanto essa sia sfiancante con il suo turpiloquio infantile: eddai, e sentimi, e guardami, e comprami, e ascoltami, e guarda questo, e vedi quest’altro, e senti questo groove, e ascoltami, e guardami, eddai, e ja, e comprami, e guardami, guardami. Guardami. Guardami. Guardami. Guardami. Guardami. La libertà di esprimersi come un bambino in un mondo in cui siamo tutti piazzisti di noi stessi.

Non leggo mai i quotidiani di carta, né le pagine web dei quotidiani. Non seguo le boutade dei ministri, non mi appassiono più alle polemichette di governo. Forse sono depresso. Per me che sono un giornalista è un controsenso. Come un avvocato che non va in tribunale. In realtà le cose non stanno così. Mi devo piuttosto proteggere dagli strilloni. Mi rendo anche conto però di vivere così una specie di quiet quitting professionale, ma forse anche di compiere una specie di atto politico.

Dimitris Kamaras via Flickr

Cos’è che permette di vivere in un mondo così anestetizzato alla percezione del reale come non si vedeva dai tempi dell’aristotelismo medievale? Lasciamo che a rispondere a questa domanda siano proprio i logici medievali.

La scolastica concepiva quello che oggi chiamiamo comunicazione, e che loro chiamavano logica – il proferire discorso, l’asserire cose che hanno un senso – su tre dimensioni, tre elementi concatenati in un nodo gordiano: ne togli uno crolla tutto.

• c’è il senso delle singole parole, la semantica;
• il senso della frase costruita con le parole, la sua coerenza interna, la sintattica;
• e poi c’è il contesto in cui si parla, il chi, il come, il dove e il quando del proferire discorso, la pragmatica;

Mentre le prime due dimensioni del linguaggio – semantica e sintattica – sono facilmente intellegibili, la pragmatica è un po’ più sfuggente: è il linguaggio non verbale, il tono della voce, la reputazione di chi parla, soprattutto il luogo in cui si parla. Ma è anche il colore della cosa che parla e il luogo in cui sta parlando, perché anche le cose parlano: il sole rosso, basso sull’orizzonte, proferisce insindacabilmente il tramonto, o l’alba. La parola chiave è contesto. Facciamo un esempio.

«Vuoi fare l’amore con me?». C’è un’enorme differenza nel chiedere una cosa del genere a una persona con cui si sta chiacchierando in un locale con la musica a tutto volume o a una con cui si sta chiacchierando di detersivi a un supermercato, anche se comunque carina. La stessa frase in due contesti diversi ha due significati completamente diversi, pur avendo di per sé lo stesso significato, questo perché la pragmatica è come se legasse la sintattica e la semantica denotando il senso. Semantica, sintattica e pragmatica permettono il senso. Ne togli uno e traballa tutto.

Il contesto è il grande assente di questo primo quarto di XXI secolo. I sociologi lo sostengono da ben prima della Silicon Valley: il contesto è collassato. Insieme ai romanzi di Roald Dahl.

La pragmatica ha una peculiarità. Contrariamente alle altre due è l’unica delle tre che si può trascurare, omettere, senza sabotare la comprensione. Se dici “arzebi”, cioè se dici una parola che non ha senso, nessuno ti capisce: senza semantica il discorso è impossibile. Se dici “paracadute in catapulta ormeggia in cazzuola senza spirale”, usi parole sensate ma legate senza scopo. O ti chiami Maccio Capatonda, Fabio Celenza – quindi fai pura pragmatica senza sintattica e semantica – oppure anche in questo caso nessuno ti capirebbe: senza sintattica il discorso è impossibile. Se invece asserisci cose sensate costruendole correttamente ma senza contesto stai comunicando senza pragmatica e sei comunque pienamente comprensibile. La gente ti capisce lo stesso perché gli basterà fare uno sforzo di interpretazione: lì dove la pragmatica manca, la si inventa, mentre lo stesso non si può dire della sintattica e della semantica. L’archeologo ricostruisce un sito perché sa benissimo a cosa servono le cose che dissotterra, semplicemente gli manca il contesto in cui sono utilizzate, che può ricostruire. Il contrario è impossibile. È come se la pragmatica, una volta applicata correttamente la sintattica o la semantica, deve necessariamente piazzarsi. La pubblicità, la programmazione neurolinguistica, la messagistica istantanea, le pagine web, i titoli dei quotidiani, funzionano sfruttando questa proprietà magnetica della pragmatica. Discorsi senza giustificazione, discorsi camuffati da altri discorsi, manipolazioni, discorsi senza responsabilità, o anche più semplicemente un modo per avere ragione. Se parli senza dichiarare lo scopo per cui dici quello che dici, senza prendertene la responsabilità, non passerai per pazzo perché il senso è salvo.

È una tragedia di cui i logici medievali erano consapevoli. La chiamavano la tragedia di mus est sillaba, che significa il topo è una sillaba. Mus è un topo ma è anche una sillaba, cioè è una parola (mus) che sta a indicare il mammifero “topo”. Ma il topo è una sillaba? No, il topo è un mammifero. Però “topo” è anche una sillaba (to-po sarebbero due sillabe ma in latino la parola è con una sola sillaba, mus). Però nessun mammifero può essere una sillaba, niente che esiste è una sillaba. Le cose e le parole sono due oggetti distinti, i primi esistono, i secondi no. Mus est sillaba è una contraddizione che accade quando si proferisce senza contesto, senza pragmatica. Le parole sono delle dita, indicano. Se non si chiarisce ogni volta ciò di cui si parla, se quello di cui si parla viene lasciato a un’interpretazione arbitraria, la parola e la cosa diventano indistinguibili e ci si espone alla manipolazione.

La pragmatica, volente o nolente, da qualche parte bisogna piazzarla. Il problema è che mentre nella realtà il linguaggio non-verbale costruisce la pragmatica in autonomia (mentre tu sei lì a sforzarti di formulare frasi di senso compiuto la pragmatica lavora per te), nel web, su whatsapp, essendo invisibile il parlante, essendo ridotto a scrittura, quindi a sintattica, come un’antica lettera scritta a mano, la pragmatica va costruita volontariamente.

La vulnerabilità della pragmatica espone alla propaganda. Le nazioni di oggi sono anche governi del mondo, cioè devono governarsi rispettando parametri transnazionali come quelli stabiliti dai Paesi membri dell’Unione europea. In questo contesto che sia un partito di destra o di sinistra a governare è ininfluente, perché volente o nolente dovrà rispettare precise direttive internazionali se vuole i finanziamenti per costruire le strade. Cosa resta al partito di governo se il consenso non si può più raccogliere tramite l’esercizio di governo? La propaganda. Se è di destra farà dei decreti sicurezza e proteggerà il made in italy, se è di sinistra dei decreti sociali per la parità di genere. Tutto inutile di per sé ma fondamentale per il consenso.

La generazione di oggi è molto più brava a scrivere della precedente ma contrariamente al passato si fa capire molto male. Questo perché, contrariamente ai boomers cresciuti col cocco ammunnato della pragmatica data per scontata in un mondo in cui ci si socializzava dal vivo, noi al contrario questa pragmatica dobbiamo sforzarci di costruirla così come costruiamo la sintattica e la semantica. È una cosa inaudita, a pensarci: la pragmatica è il contesto, e il contesto è naturale, è il mondo nel quale parliamo, la realtà che ci circonda mentre chiacchieriamo: com’è possibile che anche questa cosa qui deve essere costruita?

La redistribuzione economica, la libertà, l’amore e tutte quelle istanze politiche alla base di una società giusta se vorranno essere messe in pratica dovranno misurarsi con questo enorme grado di manipolazione raggiunto dal linguaggio e dalla realtà. Dovremmo alfabetizzarci alla pragmatica, prendercene cura in un mondo costruito sulle narrazioni. Ignorare la vulnerabilità della pragmatica è pericoloso, espone alla manipolazione. Sfruttare la sua vulnerabilità è opportunista: senza contestualizzare quello che si dice siamo sempre liberi di fraintendere e interpretare, di essere d’accordo su tutto e di non essere d’accordo su tutto. Siamo liberi di odiare.

All’inizio di internet, quando google era un comodo motore di ricerca e si navigava sui siti digitandone l’indirizzo, l’identità del navigante era performativa, si interpretava qualcuno che non rispecchiava il nostro sé reale. La pragmatica, in questo caso, era data dal personaggio che si interpretava: eravamo persone che cercavano le previsioni del tempo o una conversazione su un forum. Poi è arrivato il capitalismo, i social network, e si è stabilito che la nostra identità digitale deve aderire perfettamente a quella reale. Il che, se da un lato è auspicabile per far funzionare per bene una società ad alta tecnologia, dall’altro ci espone alla pubblicità di qualsiasi cosa.

Dovremmo dissociarci da questo meccanismo, imparare a riconoscerlo, altrimenti continueremo a vivere in un mondo in cui chi ignora questa vulnerabilità della pragmatica abbraccerà le teorie del complotto in cerca di un terreno solido, così come una volta si andava in chiesa. Oppure, se al contrario è consapevole di questa vulnerabilità ma non vede accendersi una consapevolezza collettiva sulla cura della pragmatica, si rifugerà nelle nostalgie, nelle grandi narrazioni del Novecento che, anche nel loro aspetto più oscuro, sclerotico, autoritario e mortifero, mostravano perlomeno una passione per il reale.

La libertà di espressione in un mondo di pubblicità

Immagine ritagliata da una pubblicità della Lindt

È un fatto notevole il livello di interiorizzazione del linguaggio pubblicitario che abbiamo raggiunto. Mi riferisco al fatto di usare tantissimo le iperboli, le metonimie e le sineddoche in qualsiasi contesto, dalla chiacchierata intima al discorso pubblico. Dire quello che si vuole ma dirlo sempre in modo esagerato o poetico-romantico, affinché possa ottenere la maggior attenzione possibile. Per dire, quando qualcuno ti bussa alla porta mentre sei al bagno, premesso che non vivi da solo, non potrai mai dire semplicemente “sto cagando” oppure “occupato” ma dovrai fare una battuta o chiedere scusa.

È tipico delle sottoculture ridurre parecchia espressività alla retorica dei simboli, dei messaggi immediati. Serve a mantenerne l’identità, costantemente sotto pressione dalla cultura egemone. Si pensi al nerd (che oggi è diventato geek e non è più una sottocultura): ma quanto è stancante fare conversazioni nerd? È tutto così prestazionale, citazionista, ossessivamente sarcastico, brillante (ma solo per dissacrare qualcosa che ti sta sul cazzo, o per dissacrare la brillantezza del ragionamento). In una parola, l’autoreferenzialità.

Il disastro che comporta l’interiorizzazione del linguaggio pubblicitario, così come quando ci si identifica totalmente in una sottocultura, è che tutto è esplicito, mai interpretabile. Una sottocultura, espressione della libertà di espressione, quando è presa alla lettera diventa dogmatismo conformista. Per esempio, il cristianesimo, nato per reazione sottoculturale all’intellettualismo ebraico, si è a sua volta intellettualizzato nella Chiesa. Si crea un enorme carico di lavoro, quello in cui il parlante deve convincere l’interlocutore del senso che vuole dare a quello che dice, invece di limitarsi a dirlo e basta. La scusa che usiamo è che se non facciamo così veniamo fraintesi perché la gente è stupida tranne sé stessi. Il messaggio che passa deve essere uno solo, senza non-detti. Di fatto, non c’è libertà di espressione.

Il problema è che sarei libero di esprimermi solo nella misura in cui non sono interpretabile: il mio messaggio deve essere costruito in modo tale da costringere il mittente a dargli un solo senso, il senso che dico io. In un discorso pubblico questa cosa è importante, perché si condivide una visione del mondo, ma ridurre la socialità a questa grammatica è un disastro perché ci ritroviamo a venderci il costrutto della propria condizione sociale, alimentando la competizione, l’invidia e la depressione invece di condividere pensieri e lasciare che l’imprevedibile faccia accadere qualcosa.

 

Che cos’è il mondo?

La storia accelera perché viviamo nell’epoca moderna, di cui l’accelerazione è una delle sue caratteristiche (ma non da ora, perlomeno dal XIX secolo).

In due anni abbiamo vissuto due eventi epocali che hanno prima mondializzato e poi ristretto il mondo in cui viviamo. La pandemia ha interessato tutti allo stesso modo tramite l’universalità delle restrizioni (con tutte le differenze materiali di classe). Tutti, come mondo, abbiamo vissuto la pandemia. La guerra, al contrario, ha ristretto il mondo e ristabilito i confini, rendendo più complicato pensare l’evento come un evento che interessi il mondo, visto che interessa solo l’Ucraina.

La questione è più complessa di così. Le ondate di contagio seguono i confini delle nazioni e non permettono di spostarsi, a volte nemmeno di lasciare casa. Dall’altro lato, una guerra d’invasione e di territorio ha effetti economici e politici mondiali immediati per tutti.

Comunque sia, è il mondo, come concetto, che sta sempre lì, e ci guarda spaesato.

Zio Alberto e la voglia di evasione dei napoletani

Ogni volta che zio Alberto – come lo chiama mia madre – fa un programma su Napoli, i napoletani guardano golosi, ne parlano soddisfatti il giorno dopo, ne sono orgogliosi per le settimane successive.

È la terza volta, nel giro di qualche anno, che la bolla social mette in scena questo siparietto, con gli assessori, la gente comune e i quotidiani locali felici. La cosa va letta come una pubblicità, nel senso tecnico del termine: è un contenuto che fa leva sui desideri, le aspirazioni, i progetti, le ambizioni, più che con la realtà vera e propria della città. È un documentario: la splendida vita selvaggia del Montana non racconta cosa fanno tutti i giorni gli abitanti del Montana, però cacchio, il Montana spacca e le aquile volano nel cielo. Ogni volta l’engaging aggrega il contenuto della Napoli di Zio Alberto su questo flusso: e quanto è bello, e quanto è bravo, e quanto è bella Napoli. Non c’è polarità, solo gioia. Il product placement perfetto, senza ambiguità, che chiunque può inoltrare senza sentirsi in colpa. Tanto, si parla di monumenti, di storia e di archeologia. Lamentarsi in questo caso è proprio fuori luogo.

Ignoriamo come vivono quel programma televisivo quelli che non ci vivono, a Napoli. Ignoriamo, in realtà, anche chi ci vive. È un programma che parla in astratto di Napoli: degli edifici, delle strade, dei portoni, del vesuvio e dei basoli. Non c’è niente, letteralmente, di vivo. Il programma, però, serve a noi napoletani, che siamo tanti, milioni di milioni. A pensarci, è bizzarro: nella città che conosco a memoria, perché ci vivo, ogni volta che me la sparano in tv celebrandone la bellezza io DEVO ri-vedermela. E ancora, e ancora. Un imperativo morale.

Indiscutibilmente, ogni volta è tutto bellissimo. Si può dire, però, che noia? Non ho detto gioia, ma noia noia noia. È tutto bellissimo, ma che palle.

Sotto sotto, è una voglia di evasione. Napoli è una città molto povera, scassata, indebitatissima. La viabilità è ingestibile e viverci richiede una sospensione continua dell’incredulità, a cominciare dalla violenza dei rapporti interpersonali tra gli sconosciuti, in genere tradotti come una focosa voglia di vivere. Come quella volta che la focosa gioia di vivere del figlio della padrona del cane vicina di casa ha avuto la brillante idea di prendere a calci, armato, la porta di casa mia minacciandomi di morte perché, esasperato dall’abbaio del cane, mi ero permesso di mandare a fanculo la sua mammina col suo cagnolino. Il risentimento, l’odio, l’insofferenza, l’insicurezza strutturale come gioia di vivere. È una realtà difficile da sopportare. La gente va via come va via da una città povera (e ci ritorna, preferendo giustamente la casetta di proprietà di papino, un modesto reddito, un golfo paradisiaco, al duro mondo della competizione capitalistica delle città ricche). Il mondo è violento ma qui da noi la violenza è fisica, più che psicologica, per cui basta atteggiarsi nel modo giusto per evitarla (tipo, non mandare a fanculo nessuno). Tra l’altro, qui l’inverno dura due settimane. Ma pure raccontare questa violenza, che palle. Un altro modo per evadere: la coolness gangsta.

E così, di fronte alla complessità del reale, alla sopportazione di un ambiente claustrofobico, il linguaggio della pubblicità e della guida turistica ci dà conforto, dicendoci ogni volta cosa è buono e cosa è brutto, cosa è sì e cosa è no, e noi contentissimi a esprimere questa polarità con la padronanza di linguaggio di mia nipote di due anni: è buuuttto, è beeellllo. Tu sei butto, io bello. Napoli bella, tu butto.

Grazie Zio Alberto. Ci fai volare.

La storia del XXI secolo inizia con Get Back

Vorrei tanto parlarne con Alessandro Barbero.

Il modo in cui si fa storia, lo storicismo, non è sempre lo stesso, pur essendo rimasto nella sostanza sempre lo stesso. La filosofia della storia, le considerazioni sullo storicismo, ci dicono che ogni generazione percepisce la storia in un certo modo. La scrittura storica evolve, cambia.

Lo storicismo inizia con Tucidide ma è sulla fine dell’Ottocento, con Bloch e Dilthey, come Barbero ci spiega molto bene, che lo storicismo, il funzionamento della storia, diventano quello che sono oggi, cioè il modo in cui studiamo la storia a scuola. Si tratta di un certo modo di organizzare le fonti per narrare una storia fatta non soltanto di grandi personaggi ma anche di gente comune. All’ufficialità dei documenti regali si affiancano i diari, i resoconti dei tribunali, le vicissitudini della gente. Si crea un sottile equilibrio tra i fatti che sono accaduti e la loro narrazione. Non si tratta più di rincorrere l’autenticità, che è impossibile trattandosi di cose che non ci sono più, ma di avvicinarcisi il più possibile. Chi mantiene questo equilibrio è un buono storico e ci consegna narrazioni sufficientemente autentiche.

Ma che sia Tucidide od Hobsbawm, la fonte non è mai cambiata. È la biblioteca, i testi, i documenti. Nulla di più. Lo storicismo evolve, il modo in cui raccontiamo quello che è successo non è sempre uguale, riflette la cultura in cui avviene, ma si è sempre costruito sugli stessi identici materiali, i testi. Cambia l’approccio interpretativo, l’esegesi, ma non la fonte. Il susseguirsi delle generazioni non lascia che carta scritta. Lo storico lavora quasi esclusivamente sulla carta, da sempre, da cui estrae un racconto che renda verosimile una lettera morta. Di fatto, nessuno può raccontare veramente quello che è successo. Non esistono fatti ma solo interpretazioni è un aforisma per dire che è ingenuo pretendere l’autenticità oggettiva se la storia accade quando le soggettività si mettono in moto. Chi potrebbe? Neanche un testimone potrebbe essere sufficientemente autentico, perché è la sua visione parziale. L’unico modo per vivere l’autenticità del passato è tornare indietro nel tempo. La verità storica in assoluto, quindi, non esiste. Il passato è perduto per sempre. Finanche la nostra memoria, quella del nostro autentico passato, viene rimaneggiata dall’inconscio e ci allontana dai fatti accaduti. Quello che possiamo fare è recuperare dagli archivi quello che è possibile comprendere di quello che è accaduto, che sarà sempre parziale, da completare con il lavoro di interpretazione dello storico. Il lavoro dello storico è un sottilissimo equilibrio tra romanzo e fatto.

Nei primi del Novecento arriva prima la fotografia, poi l’audio e il video, e il discorso dello storico cambia. Sono generazioni che, manco ce ne accorgiamo, vediamo e sentiamo letteralmente i grandi personaggi storici. L’inizio della corsa alla Luna è un filmato di un discorso di Kennedy. Non si può dire lo stesso della propaganda di Lincoln e dei suoi leggendari comizi. Ci farà ancora più impressione domani tutto questo, o forse è oggi che ci fa impressione e domani sarà la consuetudine dello storico? Prima, vedere e sentire la storia era impossibile, si poteva soltanto leggerla. È un cambiamento profondo, costante, lento, inesorabile, del modo in cui percepiamo il passato. Non più solo testo ma anche immagini, suoni e visioni. Sono sconvolgimenti ermeneutici.

Con Get Back di Peter Jackson abbiamo uno dei primi esempi meglio costruiti di questo nuovo storicismo. È il lavoro più ricco e sistematizzato mai fatto di questa nuova fonte storica, l’audio-visivo. La sua straordinarietà non risiede semplicemente nell’essersi preso la briga di schiaffarci in faccia centinaia di ore di girato. Non è proprio quello che è successo. Questo siamo capaci di farlo tutti, di raccogliere cose e buttarle in mezzo. È quello che facciamo quando chattiamo e comunichiamo: ci schiaffiamo in faccia roba che condividiamo a catena, assumendo il ruolo di intermediari senza moderazione, senza filtro, investiti di contenuti che facciamo rimbalzare senza riflessione. Lo youtuberaggio è un sapiente lavoro di montatura di materiali ma è senza storicismo, perché non si preoccupa di narrare fatti ma di opinare ossessivamente sulle cose senza limitarsi a narrarle.

Di 200 e passa ore di girato Get Back ne estrae appena 8. È un lavoro storicistico, cioè di montaggio e selezione. Una novità che balza agli occhi nel primo episodio, quando Linda Eastman-McCartney scatta le foto al gruppo. Prima avevamo solo la foto di quei momenti, decine di foto di quei giorni di preparazione al concerto. Ora, quelle foto ci sono state contestualizzate nel momento in cui sono state scattate. Pensateci, è una cosa inaudita. Se prima avevamo lo scatto di quei momenti, moltiplicati sui giornali nei decenni successivi come fonte storica, ora abbiamo il momento in cui quella foto è stata scattata e cosa stava succedendo mentre c’era qualcuno che scattava quelle foto. Come l’immagine del monaco di Saigon in fiamme, di cui abbiamo anche il video di quel momento, che ci permette di guardare quella foto storica con maggiore profondità.

Peter Jackson ha diretto uno straordinario lavoro dei montatori. Non ha fatto il regista di Hollywood ma il professore di cattedra di un lavoro storico, e i montatori gli assistenti ricercatori bibliotecari. Non è la prima volta che succede una cosa del genere ma, sarà che sono i Beatles – che sono un canone, cioè un modello poco controverso, un classico, qualcosa di non opinabile, più facile da maneggiare di un personaggio politico, per esempio -, comunque sia, il livello di sistematizzazione storicistica raggiunto con questo documentario potrebbe non avere precedenti e rappresentare a sua volta un nuovo canone storicistico.

Consigli per gli acquisti

Nietzsche is cool (by Amev)

Il linguaggio della pubblicità ci appartiene. Non ci scampa nessuno, da quello che prova a scamparci con tutte le forze, fino all’isteria e al complottismo, a quello a suo agio che non problematizza nulla.

Che ti professi autarchico, autonomo, libertario, progressista, libertino, freakkettino, conservatore, destromane. Sono diventate tutte performance da atteggiare, cioè azioni da disporre con lo scopo di essere osservate e valutate in sé, come un attore sul palco, più che come mezzi con un fine, con un’idea di società alle spalle. Ci vendiamo cose con gran entusiasmo, qualsiasi cosa, perché l’entusiasmo accende l’attenzione. Perseguiamo la felicità stressandoci per rilassarci.

Sono tutti concetti individuati negli anni Sessanta del Novecento dai pubblicitari, dopo decenni di potente psicanalisi, per indurre il desiderio ad acquistare. Oggi ci appartengono con naturalezza. Il consiglio induttivo è preferibile al confronto, perché il confronto è fuori controllo, porta a rendere imprevedibili le posizioni finali e imprevedibile diventa la propria posizione finale. Inaccettabile. L’ironia dissacrante è preferibile alla constatazione riflessiva: meglio collezionare battute, ridere, esorcizzare quella sottile inquietudine facendo finta che non ci sia (entusiasmo!) che parlare e basta. Meglio l’atmosfera elettrica della città che quel mortorio del paesino di origine.

Erano schemi di comportamento funzionali all’acquisto, alla compravendita, al commercio, alla roba, oggi sono categorie esistenziali con cui viviamo il mondo.