Finché l’IA non impara la grammatica, stiamo tranquillissimi

Il collegamento salta perché il video è stato cancellato ovunque. La canzone è Heart on my sleeve generata da un’IA con le voci di Drake e The weeknd

È una canzone brutta. Punto. Il fatto che l’abbia scritta un’Intelligenza Artificiale (IA) e non una persona è un’attenuante: brava bambina, continua così che sei sulla buona strada. In questo momento storico, però, queste IA avrebbero bisogno più di una pacca sulla spalla che di un’ovazione per acclamazione, altrimenti verranno su completamente sceme. Ed è a quel punto che mi preoccuperei: io non voglio essere dominato da uno scemo, voglio essere dominato da una persona seria.

Sta canzone potrà piacere ai teen-ager, ma cos’è che non piace ai teen-ager? Perché valutare col loro criterio quando poi se c’è da affrontare la vita lasciamo che siano giustamente gli adulti a occuparsene? I giovani è una categoria culturale inventata all’inizio del Novecento insieme alla massa. Prima non esistevano. I teen-ager, di fatto, non esistono, sono un momento transitorio della vita dell’essere umano. Siamo tutti stati teen-ager come siamo stati tutti neonati. Perché fare dello spirito adolescenziale un valore esistenziale? Che problema abbiamo, cari adulti? I teen-ager saranno la società del futuro proprio quando non saranno più teen-ager. Sono una categoria utile al mercato, niente di più. Ogni ruffianata che facciamo nei loro confronti – “beh, se piace ai teen-ager, allora” – è la manifesta meschinità di una società che non tiene le palle di prendere posizione. Non tiene il coraggio di dire che è semplicemente una canzone brutta. L’IA al momento fa cose sbilenche, quantitativamente impressionanti ma qualitativamente ancora scarsissime. Nell’automazione fa già paura, nell’arte fa cagare, a tutti i livelli. È ancora piccina.

I teen-ager sono limitati nel giudizio estetico, non possono frastagliare il gusto perché non hanno sufficiente esperienza. Non hanno preferenze perché ogni giorno preferiscono qualcosa di nuovo e dopodomani non ricordano più quello che preferivano l’altro ieri. Hanno appena iniziato a fare esperienza, la memoria ha appena iniziato a stratificarsi. Perché sopravvalutarli di questa maniera? Sono onnivori, si magnano qualsiasi cosa. Non hanno complessità. Non problematizzano. Sul loro giudizio non si fonda la società, è semmai la società che è ossessionata dal loro giudizio. È ossessionata da TikTok (e con questo ho fatto invecchiare di colpo questo articolo). Che gli adolescenti creino pure un engaging di milioni di commenti ma la caciara di una massa non fa giudizio, fa solo caciara. Nessuno vuole giudicare le cose come un teen-ager ma siamo pronti a sopravvalutare il suo giudizio ogni volta che non abbiamo il coraggio di formulare giudizi.

Non ce l’ho coi teen-ager. Io amo i teen-ager. Ho un sacco di amici teen-ager. Sono stato teen-ager anch’io. Però nessuno che non è teen-ager frequenta i teen-ager. Perché allora frequentare la vita come un adolescente? Perché parametrare il giudizio estetico su di loro, su questo entusiasmo immotivato?

Finché l’IA si istruisce indirettamente per imitazione senza partire direttamente dalle regole che fanno funzionare le cose che si imitano, non è nemmeno un’IA. Finché le canzoni saranno collage di canzoni, senza partire dallo scheletro delle canzoni, dalla loro astrattezza grammaticale, l’IA produrrà cose appariscenti ma deboli, mirabolanti ma monotone, brillanti ma ripetitive, appiattite su uno stile, meccaniche, entusiasmanti come l’affettazione di uno stato lisergico.

All’inizio si impara per imitazione, e l’espressività è logicamente monotona. Poi, quando si aggiunge la grammatica, ci si emancipa dalla dipendenza imitativa e si diventa autonomi, creativi, adulti. Fare arte è la capacità di gestione di questa complessità tra imitazione e funzionamento delle regole. Il talento, quella capacità di fare cose interessanti senza sforzo ma con un certo automatismo, richiede una pratica continua di tentativi ed errori. Richiede allenamento. Nell’atleta riconosciamo subito questo meccanismo. Quando ce l’abbiamo di fronte riconosciamo facilmente l’enorme lavoro dietro la sua performance. Con l’artista tutto questo salta, ci rifiutiamo di pensarlo così, perché l’artista si occupa del bello e del sentimento. Ma l’artista, esattamente come l’atleta, esprime l’estetica (la bellezza) tramite un’abilità: di scolpire, di filmare, di suonare, di declamare.

Tonnellate di ore di studio per pochi minuti di esibizione. L’esibizione è bastarda. L’arte, dal punto di vista dell’artista, è solo una cosa da dominare. Lo spettatore tende a equiparare l’allenamento artistico all’esibizione, per cui pensa che per prepararsi sia sufficiente la stessa quantità di tempo. Un fraintendimento fatale. Il talento sbandierato come una cosa reale. Ma il talento è sbandierato solo da chi si scoccia di allenarsi, di imparare le regole che fanno funzionare gli oggetti estetici. Chi sbandiera talento si atteggia con gli scemi, che lo promuovono per acclamazione. Il pigro crede nel talento, il talentuoso crede nello studio. Non esiste un solo talentuoso che non si sia rotto il culo sulla sedia, ad esaurirsi di studio snervante. Lui non ve lo dirà mai, è il suo segreto, perché dovrà apparire spontaneo e fare le cose senza sforzo, con eleganza. Dovrà essere un mago. Lo spettatore ama la magia, ama il fatto che le cose accadano senza cause, per trascendenza. L’arte vogliamo viverla come viviamo la religione perché l’arte deve essere qualcosa di più della realtà, deve ripresentarcela, deve arricchircela.

Lo spettatore rispecchia la società. Se lo spettatore non è consapevole della necessità della magia e nello stesso tempo della sua inconsistenza, si farà ammaliare con facilità, si farà prendere in giro, perché vorrà la magia senza sapere tutto l’enorme sforzo, l’enorme lavoro e sacrificio che richiede, lo stesso richiesto per vivere, o ancora meglio per sopravvivere. Vivere l’arte ignorando tutto questo, cioè credere nella spontaneità del talento, vuole dire vivere in una società di tossicodipendenti: di sostanze psicoattive, di una figura autoritaria. La spontaneità nell’arte non esiste. Fare figli è spontaneo, basta eiaculare o farsi eiaculare. Una cosa semplicissima. Fare arte è invece una faticata immensa, è art-ificiale.

Il talento è sommare tutto quello che si sa per dare come risultato qualcosa che non è la mera somma delle parti ma qualcosa di più che sfugge al controllo di chi crea. Quel qualcosa di più lo decide lo spettatore che cos’è, non l’artista. L’artista serve solo a fare arte, il giudizio spetta allo spettatore. L’IA in questo momento storico fa mero calcolo, somma le cose limitandosi al risultato senza niente di più. Lo spettatore vorrebbe disperatamente aggiungerci qualcosa che non sia la mera somma delle parti, per cui si entusiasma senza sostanza, come un adolescente. È piuttosto il modo in cui lavora l’IA a essere impressionante, la velocità pazzesca con cui assorbe le nozioni a lasciarci a bocca aperta, sputandoci un risultato però, almeno in questo momento, assolutamente trascurabile in confronto alla creatività di un essere umano che lavora cento volte più lento.

Se Midjourney sta rendendo il lavoro degli architetti obsoleto, perché gridare all’opera d’arte? A me non pare che gli architetti siano equiparati a disegnatori. Così come non mi pare che i giornalisti siano equiparabili a scrittori. Se si tratta di progettare una casa o di riferire di un fatto accaduto, l’IA potremmo dire che già fa tutto questo. Ma da qui ad assegnargi già ora la capacità di immaginare mondi inesistenti o di raccontare storie metafora della vita ce ne passa. Diamoci una calmata.

In questo momento storico stiamo istruendo l’IA per imitazione. Il che va benissimo nei processi di automazione ma non nell’arte. Un artista allevato per imitazione e acclamato come un genio è solo un ciuccio e presuntuoso che vivrà bene finché il pubblico è più scemo di lui. Finché non arriverà un programmatore che istruisce l’IA sull’armonia musicale, per esempio, o sulle regole della prospettiva nel disegno, l’IA non potrà mai maneggiare queste regole, non potrà mai romperle, sarà sempre in balìa delle istruzioni del programmatore, che tanto saprà di informatica quanto pochissimo saprà di armonia e prospettiva. In questo modo la musica non andrà oltre 10 secondi di fraseggio da ripetere per 5 minuti. Il disegno non andrà oltre il tratto dei volti a forte contrasto. Solo quando apprenderà le regole, a quel punto, l’IA produrrà cosa interessanti. Ed è a quel punto, essendo diventata indistinguibile da una coscienza, perché si muoverà esattamente come se l’avesse, che sarà indistinguibile da un atto creativo umano.

E non raccontiamoci la balla che la coscienza è inarrivabile per un’IA. Siamo un ammasso di budella, carne, sudore, sangue e vomito, da cui emerge qualcosa che chiamiamo coscienza. Daniel Dennet lo ha dimostrato – con un esperimento mentale – chiaramente: uno zombie che si comporta come se avesse una coscienza è indistinguibile da una persona con una coscienza. Per cui uno zombie può avere una coscienza, anche se è morto, così come un ammasso di schede madri può avere una coscienza, anche se emerge da un insieme di script. “L’essere umano ha una coscienza o si comporta come se l’avesse?” è una domanda retorica: qual è la differenza? La coscienza – nella sua definizione più scientifica possibile – è una ridondanza, un riverbero, o una risonanza del rumore di fondo del cervello. Se poi qualifichiamo la coscienza come un quid, un’anima irriducibile al corpo e che al corpo vi sopravvive, questo è un altro paio di maniche che non riconoscerà mai una coscienza in un computer, al costo però di non capire mai veramente cosa sia una coscienza, almeno non tanto quanto potremmo sapere chi è dio o lo spirito santo.

Dominiamo già il mondo. Ci dominiamo a vicenda e facciamo della violenza la base dei rapporti di potere. Se ci preoccupiamo di un’IA che possa fare lo stesso è solo perché rifiutiamo di ammettere la violenza alla base dei rapporti interpersonali. E allora scarichiamo questa paura sull’IA, paralizzati dalla tremenda difficoltà che risiede nel realizzare una società egalitaria che fa della violenza un esercizio di sopravvivenza più che di dominio.

Più che di quello che l’IA potrà mai fare in futuro mi preoccuperei semmai di quante cose kitsch, tamarre, brutte, ridondanti, monotone, banali, ingenuotte continuerà a regalarci ancora per un bel po’.