La libertà di espressione in un mondo di pubblicità

Immagine ritagliata da una pubblicità della Lindt

È un fatto notevole il livello di interiorizzazione del linguaggio pubblicitario che abbiamo raggiunto. Mi riferisco al fatto di usare tantissimo le iperboli, le metonimie e le sineddoche in qualsiasi contesto, dalla chiacchierata intima al discorso pubblico. Dire quello che si vuole ma dirlo sempre in modo esagerato o poetico-romantico, affinché possa ottenere la maggior attenzione possibile. Per dire, quando qualcuno ti bussa alla porta mentre sei al bagno, premesso che non vivi da solo, non potrai mai dire semplicemente “sto cagando” oppure “occupato” ma dovrai fare una battuta o chiedere scusa.

È tipico delle sottoculture ridurre parecchia espressività alla retorica dei simboli, dei messaggi immediati. Serve a mantenerne l’identità, costantemente sotto pressione dalla cultura egemone. Si pensi al nerd (che oggi è diventato geek e non è più una sottocultura): ma quanto è stancante fare conversazioni nerd? È tutto così prestazionale, citazionista, ossessivamente sarcastico, brillante (ma solo per dissacrare qualcosa che ti sta sul cazzo, o per dissacrare la brillantezza del ragionamento). In una parola, l’autoreferenzialità.

Il disastro che comporta l’interiorizzazione del linguaggio pubblicitario, così come quando ci si identifica totalmente in una sottocultura, è che tutto è esplicito, mai interpretabile. Una sottocultura, espressione della libertà di espressione, quando è presa alla lettera diventa dogmatismo conformista. Per esempio, il cristianesimo, nato per reazione sottoculturale all’intellettualismo ebraico, si è a sua volta intellettualizzato nella Chiesa. Si crea un enorme carico di lavoro, quello in cui il parlante deve convincere l’interlocutore del senso che vuole dare a quello che dice, invece di limitarsi a dirlo e basta. La scusa che usiamo è che se non facciamo così veniamo fraintesi perché la gente è stupida tranne sé stessi. Il messaggio che passa deve essere uno solo, senza non-detti. Di fatto, non c’è libertà di espressione.

Il problema è che sarei libero di esprimermi solo nella misura in cui non sono interpretabile: il mio messaggio deve essere costruito in modo tale da costringere il mittente a dargli un solo senso, il senso che dico io. In un discorso pubblico questa cosa è importante, perché si condivide una visione del mondo, ma ridurre la socialità a questa grammatica è un disastro perché ci ritroviamo a venderci il costrutto della propria condizione sociale, alimentando la competizione, l’invidia e la depressione invece di condividere pensieri e lasciare che l’imprevedibile faccia accadere qualcosa.

 

Tutto è lingua

Katy Perry e Miley Cyrus con la sua lunghissima lingua, al 55esimo GRAMMY Awards, 9 febbraio 2013, Los Angeles (foto: Lester Cohen/WireImage)

Katy Perry e Miley Cyrus con la sua lunghissima lingua, al 55esimo GRAMMY Awards, 9 febbraio 2013, Los Angeles (foto: Lester Cohen/WireImage)

«Che cosa non è mai oggi – linguaggio? La musica, le arti figurative, il cinema, la mimica, il comportamento: pochi avrebbero difficoltà a identificare queste cose, e molte altre ancora, con un linguaggio. Si potrebbe continuare: il linguaggio degli animali, la semeiotica, la simbologia onirica, l’inconscio stesso – secondo Lacan. Tutto è linguaggio […]. Fin qui è tutto accettabile […]. Ma proviamo ad allargare la nozione di linguaggio a ogni operazione di lettura, decodificazione o interpretazione. Ne conseguono risultati a dir poco paradossali […]. (iii) forse che quando cado per terra e mi faccio male, ciò che sento è in realtà il messaggio della superficie terrestre, codificato nel linguaggio della gravitazione universale? E se impreco in malo modo, non è anche questa una risposta: sebbene redatta nel linguaggio arcaico dell’animismo, anziché in quello della fisica moderna?

[…] Anche se io non imprecassi, ma – pensando all’ineluttabilità delle leggi di natura o cose del genere – cercassi invece di darmi un contegno dignitoso, facendo finta di nulla e confidando in una rapida attenuazione del dolore: ebbene, anche in questo caso – se si ammette la tesi della riducibilità di ogni comportamento a linguaggio – ciò che io farei sarebbe di nuovo il passaggio da un linguaggio a un altro, e cioè a una diversa interpretazione del mondo […]. Ma, se i codici sono differenti, anche i messaggi sono differenti. E, per favore, non ci si chieda: anche se provengono dalle stesse cose? Perché, se tutto il mondo si riduce a linguaggio e i codici di questo risultano differenti, allora “linguaggio” diventa un concetto di famiglia, e non esiste più un’interglossa nella quale sia lecito parlare delle “stesse” cose».

Enzo Melandri, Pan-logismo e pan-linguismo, in La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 118 e 120.