Non c’è lavoro (nel 1936)

American_Youth_Congress_Leaders_1939

I leader dell’AYC Jack R. McMichael, William W. Hinckley e Joseph Cadden, prima dell’incontro con la Commissione per le attività antiamericane, 1939

Vogliamo lavorare, produrre, costruire, ma milioni di noi sono costretti all’ozio. Noi ci diplomiamo e laureiamo, ci prepariamo per una carriera e una professione, ma non c’è lavoro. Rischiamo di trovarci su una strada o in un campo diretto dall’esercito, isolati dagli amici e dalla famiglia. Ci rifiutiamo di essere la generazione perduta.

Dalla Dichiarazione dei diritti dei giovani americani, American Youth Congress, 1936, in J. Savage, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2012, p. 338.

Riformisti/comunisti: diatheke

Gauchet_Badiou

Badiou: Marcel Gauchet, per concludere vorrei renderla partecipe dell’intuizione che ho avuto sentendola parlare di Rousseau e della possibilità di quel soggetto politico collettivo che va sotto il nome di democrazia. Penso di poter dire che, in realtà, non sono il solo ad essere in attesa di un evento…
Gauchet: In che senso? Cosa intende dire?
Badiou: Ritengo che, nonostante la sua prudenza, lei creda nella politica e che per questo sia in attesa di un evento nel senso in cui io l’ho definito. Un evento imprevedibile, come qualsiasi altro evento, ma che consenta l’emergere di una soggettività riformista…
Gauchet: Forse…
Badiou: Affinché quest’evento faccia la sua comparsa, vorrei farle ammettere che anche lei ha un bisogno vitale dell’ipotesi comunista. Mi permetta di esporle questo aspetto che ha un carattere insieme storico, tattico e filosofico. Lei mi sembra convinto del fatto che l’ipotesi comunista non presenti alcun interesse ai fini della realizzazione della sua ambiziosa versione del riformismo. Io vorrei ribatterle che le cose non stanno affatto così. In realtà, essa è per lei assolutamente necessaria. Se guardiamo alla storia recente, i rari momenti che più o meno si avvicinano allo scenario che lei ha in testa si sono realizzati proprio a causa della presenza reale di un universo altro, di un’ipotesi altra, ovvero dei comunisti. Il grande sussulto riformista successivo al 1945, che lei ha spesso menzionato, è stato possibile grazie al fatto che de Gaulle ha dovuto mettersi d’accordo col Pcf, all’epoca il partito più forte che ci fosse in Francia, fregiantesi dell’etichetta di «partito dei centomila fucilati». Al momento della Liberazione il generale aveva senz’altro degli alleati internazionali, poteva vantare un certo credito presso le autorità militari, ma le truppe civili, se così posso dire, si concentravano per lo più dall’altra parte… Non penso che de Gaulle fosse in cuor suo un nemico giurato del capitalismo o un ardente sostenitore delle nazionalizzazioni. Sta di fatto che è stato costretto a negoziare, a fare delle concessioni… Il programma del Consiglio nazionale della Resistenza viene oggi sventolato come un esempio di ritorno alla democrazia. Ma la stessa esistenza del Consiglio era la prova del fatto che de Gaulle era obbligato a venire a patti coi comunisti! Tale patto non va visto come qualcosa di interno alla dinamica generale dello sviluppo capitalistico, ma come il prodotto dell’esistenza dei partiti comunisti e del blocco socialista. E il contesto della ricostruzione, con i suoi imperativi economici e politici specifici, spiega la circostanza per cui gli squali capitalisti hanno all’epoca rigato dritto tollerando riforme di vasta portata che non andavano nella direzione da loro auspicata. Quest’ampio consenso si è in seguito sfaldato mano a mano che il blocco comunista cominciava a manifestare crepe sempre più vistose. Da quando il comunismo storico è crollato definitivamente, le democrazie non sono più state soggette alla sfida del loro avversario. L’ondata neoliberista contro la quale lei insorge è quindi dilagata, andando a riempire il vuoto che si era creato. In assenza di un Altro che le minacci, le democrazie liberali sono tornate ad essere i fedeli vassalli del capitale e dei suoi detentori, i quali non si sentono più obbligati ad accettare i princìpi della moderazione e della redistribuzione.
Gauchet: Per quanto riguarda la congiuntura del 1945, quello che dice è storicamente esatto.
Badiou: Sì, ma questo fatto storico ha anche delle conseguenze tattiche e filosofiche per l’oggi. Se non viene rilanciata l’ipotesi comunista, l’ipotesi riformista che lei sostiene non ha alcuna speranza di realizzarsi. Al di là della strategia, ciò significa forse anche che la stessa democrazia ha bisogno di essere pungolata da una qualche alterità, sia essa interna o esterna alla forma democratica stessa. Insomma, tutto sommato, dovrebbe ringraziarmi! Non andrebbe in pratica da nessuna parte senza di me. Sto solo cercando di aiutarla!
Gauchet: Sì, la prego, mi dia una mano facendo prendere ai miei avversari un bello spavento! Per quel che mi riguarda, continuo a voler rimanere nell’alveo della democrazia liberale, e penso che il vero cambiamento sia alla mia portata molto più di quanto non sia alla sua, se così posso esprimermi. Tuttavia non resisto alla tentazione di risponderle nel seguente modo: proponendosi di aiutarmi, lei riconosce implicitamente che l’ipotesi comunista che intende rilanciare è in realtà priva di consistenza e che i suoi «effetti di realtà» si limitano al compromesso che consentirà di ottenere all’interno delle democrazie rinnovate. Mi vuol far dire che un riformismo conseguente ha bisogno del sostegno dell’ipotesi comunista? Ebbene, ammetto volentieri che per far sì che la politica riprenda il controllo della globalizzazione neoliberista tutte le forze disponibili allo scopo sono necessarie. Aggiungo anche che l’ipotesi comunista, che personalmente preferirei chiamare «utopia comunista», è necessariamente parte dell’orizzonte delle nostre società, al pari dell’utopia anarchica, in quanto è un prolungamento del principio di eguale libertà su cui esse si fondano. Penso pertanto che non possiamo farne a meno. Ma lei, interpretando l’ipotesi comunista come un alleato necessario del realismo democratico, trasforma la sua prospettiva radicale in un’anatra zoppa. È una bella ammissione, la sua! Stanti così le cose, posso anche sottoscrivere il patto che mi propone.
Badiou: Una grande alleanza al termine di questa discussione così accesa? Il patto fra di noi non potrà mai eliminare le nostre differenze e, quanto a me, non entrerò mai nell’alveo della democrazia parlamentare, eppure certo, perché no, eccoci di fronte a un epilogo quanto meno inaspettato! Anche gli avversari più irriducibili possono trovare un accordo se sanno comprendere che, in fin dei conti, ciascuno a modo suo e con le proprie armi, combattono lo stesso nemico.

Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia, in Micromega 1/2016, capitolo Alla ricerca di un patto perduto?, poss. 2179-220 (Kindle). Titolo originario: Que faire? Dialogue sur le communisme, le capitalisme et l’avenir de la démocratie © Philo éditions, Paris 2014.

Melandri e la superstizione

Stevie Wonder, che ha scritto "Superstition"

Stevie Wonder, che ha scritto “Superstition”

Bisogna riconoscere che nella nostra “epoca scientifica” la superstizione non è stata né vinta, né superata, né accantonata: ci si è limitati a tradurla in un altro linguaggio, che imita la scienza propriamente detta solo nel rituale, nel ritmo o nell’atteggiamento esteriore. Così come il ditirambo, in Platone, può ancora esser detto μíμησις τής πράξεως solo “per la mossa”. Nell’età della ragione – che secondo Comte è quella della scienza – la superstizione non è più, in primo luogo, quella religiosa; ma è invece proprio quella scientifica o, meglio, pseudo-scientifica; la quale è propria di coloro che della scienza non sanno nulla, all’infuori di ciò che se ne può ricavare per imitazione “ditirambica”

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 144-145.

Tutto è lingua

Katy Perry e Miley Cyrus con la sua lunghissima lingua, al 55esimo GRAMMY Awards, 9 febbraio 2013, Los Angeles (foto: Lester Cohen/WireImage)

Katy Perry e Miley Cyrus con la sua lunghissima lingua, al 55esimo GRAMMY Awards, 9 febbraio 2013, Los Angeles (foto: Lester Cohen/WireImage)

«Che cosa non è mai oggi – linguaggio? La musica, le arti figurative, il cinema, la mimica, il comportamento: pochi avrebbero difficoltà a identificare queste cose, e molte altre ancora, con un linguaggio. Si potrebbe continuare: il linguaggio degli animali, la semeiotica, la simbologia onirica, l’inconscio stesso – secondo Lacan. Tutto è linguaggio […]. Fin qui è tutto accettabile […]. Ma proviamo ad allargare la nozione di linguaggio a ogni operazione di lettura, decodificazione o interpretazione. Ne conseguono risultati a dir poco paradossali […]. (iii) forse che quando cado per terra e mi faccio male, ciò che sento è in realtà il messaggio della superficie terrestre, codificato nel linguaggio della gravitazione universale? E se impreco in malo modo, non è anche questa una risposta: sebbene redatta nel linguaggio arcaico dell’animismo, anziché in quello della fisica moderna?

[…] Anche se io non imprecassi, ma – pensando all’ineluttabilità delle leggi di natura o cose del genere – cercassi invece di darmi un contegno dignitoso, facendo finta di nulla e confidando in una rapida attenuazione del dolore: ebbene, anche in questo caso – se si ammette la tesi della riducibilità di ogni comportamento a linguaggio – ciò che io farei sarebbe di nuovo il passaggio da un linguaggio a un altro, e cioè a una diversa interpretazione del mondo […]. Ma, se i codici sono differenti, anche i messaggi sono differenti. E, per favore, non ci si chieda: anche se provengono dalle stesse cose? Perché, se tutto il mondo si riduce a linguaggio e i codici di questo risultano differenti, allora “linguaggio” diventa un concetto di famiglia, e non esiste più un’interglossa nella quale sia lecito parlare delle “stesse” cose».

Enzo Melandri, Pan-logismo e pan-linguismo, in La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 118 e 120.

Enzo Melandri e Heidegger

Il secondo, il terzo e il quarto, da sinistra, sono: Umberto Eco, Michel Foucault, Enzo Melandri

Il secondo, il terzo e il quarto, da sinistra, sono: Umberto Eco, Michel Foucault, Enzo Melandri

«Heidegger […] è l’unico a fare dell’ermeneutica un principio globale di interpretazione, non limitato a questa o quella scrittura o anche alla totalità delle espressioni linguistiche, ma relativo a ogni consapevole attività umana, sia essa teoretica o pratica. Sopra tutto l’Introduzione di Sein und Zeit appare rilevante in questo contesto, poiché contiene una reinterpretazione semeiotica della fenomenologia. Trasformando la fenomenologia in semeiotica, e cioè in sintomatologia generale, Heidegger fa dell’ermeneutica il correlato metodologico indispensabile della Analitik des Daseins. Purtroppo in séguito egli ha smentito uno dei presupposti fondamentali di questo indirizzo: l’analogismo.

Le ricerche indirizzate verso il poetico, il misterioso, il presocratico, non sono forse un indizio di restaurazione anomalistica? E l’interpretazione che egli dà di Nietzsche non pecca forse di un implicito teismo? (Forse quel che ha inibito Heidegger è stato il timore, così caratteristico per un filosofo contemporaneo, di dover rifare i conti con Hegel: e precisamente non tanto nel senso filosofico, quanto in quello ermeneutico. Nella conclusione della sua tesi di dottorato, che è il lavoro di ispirazione ancora in gran parte analogistica, più ancora di Sein un Zeit, Heidegger insiste sulla necessità di fare i conti con Hegel. Da un punto di vista ermeneutico, questo discorso non ha avuto séguito: Heidegger non ha aggiunto nulla alla nostra capacità di capire Hegel meglio di Hegel stesso).

Comunque stia la cosa, è ormai chiaro a tutti che la via scelta del “secondo” Heidegger non conduce da nessuna parte o, meglio, ha senso restaurativo. L’altra diramazione, che faceva parte del progetto originario di Sein un Zeit ma che Heidegger non ha mai battuto perché – come è ormai chiaro anche a noi – essa sfocia in una “palude”, quella della cultura progressista contemporanea, è tuttavia l’unica alternativa che ci resti. Ora, uno dei modi di prosciugare la palude è quello di trasformare l’ermeneutica, attraverso una semeiotica, o semiologia sintomatologica, in una politica terapeutica. E il modulo che permette queste trasformazioni, in accordo con la “genealogia” dell’ermeneutica (ossia, con la motivazione traumatica della sua origine), è sempre il principio di analogia, ma usato in funzione archeologica».

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 56-57.

Immagine in alto via

Che cos’è un racconto?

Sciamano delle Ande

Lo sciamano don Sergio, Ande

«Le fasi più antiche della storia vengono distinte tradizionalmente in base alla materia degli utensili adoperati: pietra, ferro, bronzo. Si tratta di una classificazione convenzionale, basata su elementi esterni. Ma è stato osservato che l’uso di utensili, per quanto decisivo, non contraddistingue in maniera specifica la specie umana. Anche se in misura molto limitata, esso è condiviso da altre specie animali. Solo la specie umana, invece, ha l’abitudine di raccogliere, produrre, ammassare o distruggere oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare: offerte agli dei o ai morti, suppellettili funerarie sepolte nelle tombe, reliquie, opere d’arte o curiosità naturali conservate in musei o collezioni. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori (come sono stati definiti) hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio o nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi – morti, antenati, divinità. La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione di un’assenza […].

Si potrebbe essere tentati di riproporre la vecchia tesi che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, che l’individuo ripercorre nella sua crescita le tappe percorse dalla specie umana. L’osservazione del presente consentirebbe allora di afferrare un passato altrimenti inattingibile. Nel gesto del bambino di diciotto mesi, che (forse) rivive le reazione suscitate dall’assenza e dal ritorno della madre gettando lontano da sé un rocchetto avvolto in un filo, per ritrovarlo gioiosamente subito dopo, si è riconosciuto un modello di ripetizione simbolica, controllata e non coatta, del passato. Ma è lecito cercare le radici del simbolismo mitico-rituale nella psicologia infantile?
Ammettiamo pure che il bambino usi il rocchetto come un semioforo; che il rocchetto designi la madre, sia la madre. Un esempio basterà a illustrare le potenzialità e i limiti dell’analogia tra individuo e specie. L’uso di raccogliere le ossa degli animali uccisi per farli resuscitare è certamente molto antico. Proviamo a supporre una specie animale che tragga buona parte dei propri mezzi di sussistenza dall’uccisione di altre specie animali, vertebrate, reperibili in quantità non illimitata. Ci sono forti probabilità che questa specie finisca prima o poi con l’utilizzare le ossa degli animali uccisi come semiofori.
Bisogna però che alle condizioni già ricordate se ne aggiunga un’altra, decisiva: la specie in questione deve disporre già di quelle capacità simboliche che attribuiamo in maniera esclusiva alla specie homo sapiens. Con ciò il cerchio si chiude. L’origine ci è, per definizione, preclusa […].

Certa invece è la somiglianza profonda che lega i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà. Questo nucleo narrativo elementare ha accompagnato l’umanità per millenni. Le innumerevoli variazioni introdotte da società diversissime, basate sulla caccia, l’allevamento, l’agricoltura, non ne hanno modificato la struttura di fondo. Perché questa permanenza? La risposta è forse semplicissima. Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice di tutti i racconti possibili».

Carlo GinzburgStoria notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, pp. 244-245 e 288-289.

La maggioranza invisibile

maxresdefault

La maggioranza invisibile è profitto che finisce sempre nelle tasche di qualun altro, è manodopera qualificata ma a basso costo, è elusione continua delle regole per far galleggiare un paese al collasso. La maggioranza invisibile è ricerca vana di un asilo, è scelta fra la carriera e l’avere un bambino. La maggioranza invisibile è studio non riconosciuto, è lavoro in un call center a 370 euro al mese, è figli a carico sostenuti a stento. La maggioranza invisibile è pause sigaretta, è caffè bevuti in serie alla macchinetta. La maggioranza invisibile è solitudine, è tensione precaria non protetta.

La maggioranza invisibile è una pensione da 500 euro, è un figlio disoccupato da mantenere, è un migrante che cerca fortuna. La maggioranza invisibile è raccolta di arance a 15 euro al giorno, è nottate passate in un capannone, è quattordici ore di lavoro sognando un futuro migliore. La maggioranza invisibile è il vicino colto che vive a stento, è tua sorella che lavora senza contratto celando il malcontento. La maggioranza invisibile è forza trainante dell’economia, è schiavitù legalizzata al soldo di chi non produce niente, è pagamento a rate postdatate per i lussi dei garantiti. La maggioranza invisibile è numero che cresce dimenticato, è gruppo sociale in potenza che continua a passare inosservato. La maggioranza invisibile è l’unica speranza per un paese stanco e vecchio. La maggioranza invisibile è la reincarnazione di antiche lotte, è storie di vita comune che un giorno potrebbero farsi racconto.

La maggioranza invisibile di Emanuele Ferragina citata qui (La maggioranza invisibile, Bur, Milano 2014, pp. 248-249), più che la “maggioranza silenziosa” di Nixon richiama gli inesistenti del filosofo francese maoista Alain Badiou. Questi sono molto più poveri di quelli. Sono i riot di Londra, i popoli della Primavera Araba, Occupy Hong Kong e Wall Street, i cittadini di Iguala scesi in strada per chiedere giustizia sugli studenti uccisi dal sindaco, gli indignados spagnoli. Ma invisibili e inesistenti hanno dalla loro diversi punti in comune. Nonostante l’impossibilità di essere visti, sono contati, nel senso che contano per la società, sono forza lavoro a basso costo di una certa importanza, quindi in comune hanno lo sfruttamento. Infine sono eterogenei tra loro, non appartengono a una classe specifica.

Quell’idiota di Derrida

profesorharvey

Un anno ho cercato di leggere Il capitale con un gruppo che seguiva il programma di lingue romanze della Johns Hopkins. Con mia immensa frustrazione, dedicammo quasi l’intero semestre al primo capitolo. Io ripetevo: «Dobbiamo andare oltre, per arrivare almeno alla trattazione della “Giornata lavorativa”», e la risposta era sempre: «No, no, no, dobbiamo chiarire bene. Cos’è il valore? Cosa dobbiamo intendere con denaro e merce? Cos’è il feticcio?» e così via. Usavano anche l’edizione tedesca per accertarsi della traduzione. Scoprii anche che essi si ispiravano a qualcuno che non avevo mai sentito nominare, che pensai dovesse essere un idiota dal punto di vista politico, se non addirittura da quello intellettuale, per aver diffuso un approccio simile. Questa persona era Jacques Derrida.

David HarveyIntroduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro, La Casa Usher, Firenze 2012, p. 15.

Un nuovo “muodo de vivere”

Antica gracia

«Nelle società fondate sulla tradizione orale, la memoria della comunità tende involontariamente a mascherare e riassorbire i mutamenti. Alla relativa plasticità della vita materiale corrisponde cioè un’accentuata immobilità dell’immagine del passato. Le cose sono sempre andate così; il mondo è quello che è. Soltanto nei periodi di acuta trasformazione sociale emerge l’immagine, generalmente mitica, di un passato diverso e migliore – un modello di perfezione, di fronte a cui il presente appare come uno scadimento, una degenerazione. “Quando Adamo zappava e Eva filava, chi era nobile?”. La lotta per trasformare l’assetto sociale diventa allora un tentativo consapevole di tornare a quel mitico passato».

Carlo GinzburgIl formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 2009. p. 91.

La particolarità della crisi contemporanea è che la trasformazione del glorioso passato è ostaggio degli estremismi di destra. A tutti piace Tolkien e il suo meraviglioso mondo fatto di Virtù, Natura e Morale, ma solo gli xenofobi l’hanno inserito nel loro immaginario.

Estremista è ogni visione gloriosa del passato, altrimenti come la fai la rivoluzione? La differenza con qualche generazione fa – quella in cui Nietzsche e Wagner annunciavano e cantavano una gloria che apparteneva a tutti, universale – è che questo estremismo è stato consegnato a chi di tutta questa Storia della Crisi, di questa dinamica della crisi (quella in cui il passato diventa migliore del presente e quest’ultimo va trasformato in un passato che esiste solo nella mente di chi vive nel presente) non ne sa nulla, la vive ma non la sa. La conseguenza è che la crisi è in mano al conservatore, l’estremista di destra, col risultato di radicare e rendere ancora più immobile il presente, riducendo l’immaginario del passato alla sola delizia tolkeniana.