Remember the axioma: il cambiamento è materialista

La copertina del 2-9 novembre 2020 di time, la prima senza la testata “Time”

«Few events will shape the world to come more than the result of the upcoming U.S. presidential election», scrive il Time presentando la sua prima copertina senza “Time” in novantasette anni di pubblicazioni settimanali. Vuota retorica, e non per colpa del Time. La maneggiamo tutti. Una frase stanca, fatta, che gira a vuoto, che va avanti per inerzia. È quello che vorremmo sentire, quello che ci piacerebbe vivere, ancora una volta. Il sintomo della nostra crisi.

Biden è un cambiamento rispetto a Trump, ma solo di linguaggio, di umori e di organizzazione amministrativa. La programmazione economica resta uguale in ogni caso. Lo era per Bush e Al Gore, per Bush e Kerry, per McCain e Obama, per Trump e Clinton, lo è per Trump e Biden.

Per questo vince sempre il “conservatore” sul “progressista”, così com’è successo tra Clinton e Sanders. Se tra “conservatore” e “progressista” non c’è differenza sostanziale, se non di linguaggio, se di fatto sappiamo benissimo – ma ci rifiutiamo (cioè ne rimuoviamo inconsciamente l’atto) di riconoscerlo – che nessuno dei due può davvero “cambiare le cose”, l’elettore vota perlomeno a cazzo. Vota il pazzo. Perché no? In questa enorme presa per il culo sul rilancio economico sembra più lucido il pazzo, almeno non si sforza di rassicurare.

In un contesto senza alternative, la rassicurazione forzata ti fa sentire una merda, un bambino. E io non sono un bambino. Vaffanculo, io voto il pazzo.

Qualsiasi cosa accada, che vinca il pazzo o il vecchio gagliardo con una storia umana da scriverci dieci autobiografie, l’organizzazione economica non cambierà. Che le parolacce siano dette o bandite, che i pensieri siano razzisti o ambientalisti, ecumenici o nazionalisti. Sono cose che contano poco di fronte al fatto che il modo di fare i soldi resta lo stesso, tra l’altro senza che più funzioni come prima. Perlomeno lasciami la libertà di votare il pazzo.

Uh, non si capisce più nulla. Vero? Per la gioia dei freelance che possono spiegarti tantissime volte cosa sta succedendo ancora, e ancora, a 70 euro a pezzo, in articoli che invecchiano velocemente. Io qui lo faccio gratis, a dimostrazione che ho proprio voglia di ripetere sempre le stesse cose.

Sotto questo punto di vista, Trump non ha “scassato” nulla, né avrebbe potuto fare alcunché, né avrebbe potuto fare alcunché qualcun altro. Così i predecessori, così i successori, senza via di uscita. Forever and ever. There’s no alternative.

Lo posso dire educato, propositivo, rispettoso. Lo posso dire sconclusionato, opportunista, bugiardo. Comunque sia rassegnati. Non abbiamo altro modo di fare quello che facciamo male se non continuando a fare quello che facciamo male.

In questo contesto, cercare a tutti i costi l’alternativa, anche quando non c’è, si finisce solo in un’autopropaganda disperata: cambiamento, miglioramento, scelta definitiva, giro di boa, spartiacque. Sono tutte cazzate. Una cosa è il miglioramento del linguaggio, delle posture, della compostezza amministrativa, siamo ormai tutti bravissimi ad atteggiarci con ste cose; altra cosa è il cambiamento vero e proprio, quello in cui si trova di nuovo il modo di produrre una quantità esorbitante di ricchezza da distribuire a miliardi di persone.

L’assioma lo conosciamo.

Condizione per la politica di sinistra=benessere economico diffuso.

Condizione per la politica di destra=precarietà economica.

Marx si sforza di rovesciare questo assioma, portando la dialettica tra il servo e il padrone dal cielo alla terra, dall’idealismo al materialismo. Da Hegel al comunismo, contribuendo concretamente con la sua teoria del capitale a produrre piccoli episodi felici.

Nella storia, la sinistra è esistita presupponendo già il benessere economico, la destra presupponendo la precarietà. Un po’ come se la sinistra, nella storia del Novecento, sia stata la “garante” del benessere diffuso ma mai la precorritrice, la responsabile. La destra è la risoluzione brutale alla crisi al carissimo prezzo della dittatura, e n’è pienamente la responsabile, senza alcun “garante”. Fiera. Lei, forse più della sinistra, come direbbe Badiou, ha dimostrato di avere una maggiore passione per il reale, a realizzare le cose senza freni. Per questo la sinistra sembra più moscia, perché viene sempre dopo, è cauta. Non ha torto: l’emancipazione è una cosa seria.

L’impasse di oggi è che il meccanismo di protezione contro le dittature – quelle che provocano guerra, devastazione, morte, però la cui sconfitta genera una straordinaria stagione di ricostruzione, creando le condizioni per la nascita di una solida classe operaia – è super efficace e impedisce una vera rivoluzione restauratrice di tipo fascista. Il mercato la stoppa, senza replica. No, no, guarda il tabellone: il mercato non vuole. E statti.

Nel Dopoguerra, l’annientamento della dittatura e l’avvio del liberismo economico basato sull’annaffiata di denaro e merci del vincitore della Seconda guerra mondiale ha scatenato la garante-sinistra, che si è infilata tra le fessure della Guerra Fredda garantendo una certa distribuzione delle risorse, per il bene di entrambi i lati delle cortine. Ciò dava l’illusione che il socialismo economico fosse una concausa del benessere diffuso, quando in realtà agiva ex post. Da garante.

Caduto il Muro di Berlino l’eldorado è saltato, il più longevo periodo di benessere diffuso che la storia dell’uomo ricordi è terminato. È durato quasi trent’anni, il tempo sufficiente a far illudere la generazione successiva ai baby boomers, quella della fine degli anni Settanta, poi finanziariamente reganiana (quindi già alla frutta), di perpetrare questo benessere perpetuo all’infinito. Forever and ever. Illusi.

Una ventina di anni dopo questi tentativi di rilancio, la depressione da paradiso perduto regna. Viva Stranger Things. Viva gli Anni Ottanta. Salutata l’Unione Sovietica e scatenatosi il liberismo economico, oggi regna il realismo sociale ed economico. Non c’è più bisogno di restare in equilibrio tra socializzazione e privatizzazione delle risorse. La pacchia è finita, scrocconi! Non vi meritate nulla, fannulloni. Muori, stronzo!

Scusami.

Il risultato è lo schifo, un’economia schizofrenica che va a cazzo di cane, senza bussola, che provoca ricchezza straordinaria a Oriente e depressione a Occidente. A macchia di leopardo. Incapace di collettivizzare qualsiasi crisi, che va necessariamente statalizzata per risolversi, per poi ri-privatizzarsi quando l’economia riparte. Poi ti lamenti che non c’è alternativa, che c’è un solo mondo, una sola visione economica, una sola idea di società. Sì, sembra un meccanismo perfetto.

Enrico Montesano

I populismi arrivano come un rutto, uno sbadiglio, uno starnuto, un riflesso incondizionato dovuto a una precarietà strutturale, senza via d’uscita, in cui manco una dittatura si può restaurare tanto le forze liberali sono inscalfibili, tanto riescono a tenere unita la società, compatta come un fascio senza neanche bisogno di richiami classicisti.

Chiusa la faccenda dell’emancipazione, del riconoscimento, della liberazione delle forse produttive. Chiusa ogni speranza di ridistribuzione delle risorse, di fronte a questo realismo “adulto”, da persona disillusa, cinica ed esaurita che sfoga la sua ironia con la performatività di Maccio Capatonda, che fa i meme e ride delle persone che detesta, non resta che la disperazione.

Senza alcuna possibilità di rilanciare un socialismo economico, e senza neanche la possibilità di liberare l’autoritarismo fascista, non resta che il complotto. Tu da fuori credi che questi stiano fuori, che siano confusi. Sei tu il confuso, sei tu che dormi, che non hai capito nulla. Sveglia! Il complottismo è l’episteme più solida che tu possa fare per spiegarti la realtà delle cose. È l’unico luogo dove le cose hanno una loro definitiva spiegazione. Lì la precarietà non esiste.

La sinistra si fida dell’uomo, lo vede naturalmente predisposto ad autogestirsi in una comunità; la destra non si fida, vede l’uomo naturalmente predisposto a vedere l’altro uomo come un lupo, e ha bisogno di un Leviatano che decida per lui. Di un re. La prima lascia correre felice la comunità, a suo rischio e pericolo, la seconda ha il terrore di questa eventualità e fa la mamma iperpremurosa, a costo di crescere un figlio scemo, complessato e insicuro, ma almeno con un dio di fisico.

Alla fine è come per il giudizio sintetico a priori, che arriva una volta fusi insieme il giudizio analitico a priori e il giudizio sintetico a posteriori. La sinistra tornerà solo quando avrà capito di nuovo come rovesciare terra e cielo, come realizzare il benessere diffuso da una condizione di precarietà diffusa. Solo quando avrà superato l’idealismo riattualizzando il materialismo dialettico. Da ex post ad ex ante.

Riformisti/comunisti: diatheke

Gauchet_Badiou

Badiou: Marcel Gauchet, per concludere vorrei renderla partecipe dell’intuizione che ho avuto sentendola parlare di Rousseau e della possibilità di quel soggetto politico collettivo che va sotto il nome di democrazia. Penso di poter dire che, in realtà, non sono il solo ad essere in attesa di un evento…
Gauchet: In che senso? Cosa intende dire?
Badiou: Ritengo che, nonostante la sua prudenza, lei creda nella politica e che per questo sia in attesa di un evento nel senso in cui io l’ho definito. Un evento imprevedibile, come qualsiasi altro evento, ma che consenta l’emergere di una soggettività riformista…
Gauchet: Forse…
Badiou: Affinché quest’evento faccia la sua comparsa, vorrei farle ammettere che anche lei ha un bisogno vitale dell’ipotesi comunista. Mi permetta di esporle questo aspetto che ha un carattere insieme storico, tattico e filosofico. Lei mi sembra convinto del fatto che l’ipotesi comunista non presenti alcun interesse ai fini della realizzazione della sua ambiziosa versione del riformismo. Io vorrei ribatterle che le cose non stanno affatto così. In realtà, essa è per lei assolutamente necessaria. Se guardiamo alla storia recente, i rari momenti che più o meno si avvicinano allo scenario che lei ha in testa si sono realizzati proprio a causa della presenza reale di un universo altro, di un’ipotesi altra, ovvero dei comunisti. Il grande sussulto riformista successivo al 1945, che lei ha spesso menzionato, è stato possibile grazie al fatto che de Gaulle ha dovuto mettersi d’accordo col Pcf, all’epoca il partito più forte che ci fosse in Francia, fregiantesi dell’etichetta di «partito dei centomila fucilati». Al momento della Liberazione il generale aveva senz’altro degli alleati internazionali, poteva vantare un certo credito presso le autorità militari, ma le truppe civili, se così posso dire, si concentravano per lo più dall’altra parte… Non penso che de Gaulle fosse in cuor suo un nemico giurato del capitalismo o un ardente sostenitore delle nazionalizzazioni. Sta di fatto che è stato costretto a negoziare, a fare delle concessioni… Il programma del Consiglio nazionale della Resistenza viene oggi sventolato come un esempio di ritorno alla democrazia. Ma la stessa esistenza del Consiglio era la prova del fatto che de Gaulle era obbligato a venire a patti coi comunisti! Tale patto non va visto come qualcosa di interno alla dinamica generale dello sviluppo capitalistico, ma come il prodotto dell’esistenza dei partiti comunisti e del blocco socialista. E il contesto della ricostruzione, con i suoi imperativi economici e politici specifici, spiega la circostanza per cui gli squali capitalisti hanno all’epoca rigato dritto tollerando riforme di vasta portata che non andavano nella direzione da loro auspicata. Quest’ampio consenso si è in seguito sfaldato mano a mano che il blocco comunista cominciava a manifestare crepe sempre più vistose. Da quando il comunismo storico è crollato definitivamente, le democrazie non sono più state soggette alla sfida del loro avversario. L’ondata neoliberista contro la quale lei insorge è quindi dilagata, andando a riempire il vuoto che si era creato. In assenza di un Altro che le minacci, le democrazie liberali sono tornate ad essere i fedeli vassalli del capitale e dei suoi detentori, i quali non si sentono più obbligati ad accettare i princìpi della moderazione e della redistribuzione.
Gauchet: Per quanto riguarda la congiuntura del 1945, quello che dice è storicamente esatto.
Badiou: Sì, ma questo fatto storico ha anche delle conseguenze tattiche e filosofiche per l’oggi. Se non viene rilanciata l’ipotesi comunista, l’ipotesi riformista che lei sostiene non ha alcuna speranza di realizzarsi. Al di là della strategia, ciò significa forse anche che la stessa democrazia ha bisogno di essere pungolata da una qualche alterità, sia essa interna o esterna alla forma democratica stessa. Insomma, tutto sommato, dovrebbe ringraziarmi! Non andrebbe in pratica da nessuna parte senza di me. Sto solo cercando di aiutarla!
Gauchet: Sì, la prego, mi dia una mano facendo prendere ai miei avversari un bello spavento! Per quel che mi riguarda, continuo a voler rimanere nell’alveo della democrazia liberale, e penso che il vero cambiamento sia alla mia portata molto più di quanto non sia alla sua, se così posso esprimermi. Tuttavia non resisto alla tentazione di risponderle nel seguente modo: proponendosi di aiutarmi, lei riconosce implicitamente che l’ipotesi comunista che intende rilanciare è in realtà priva di consistenza e che i suoi «effetti di realtà» si limitano al compromesso che consentirà di ottenere all’interno delle democrazie rinnovate. Mi vuol far dire che un riformismo conseguente ha bisogno del sostegno dell’ipotesi comunista? Ebbene, ammetto volentieri che per far sì che la politica riprenda il controllo della globalizzazione neoliberista tutte le forze disponibili allo scopo sono necessarie. Aggiungo anche che l’ipotesi comunista, che personalmente preferirei chiamare «utopia comunista», è necessariamente parte dell’orizzonte delle nostre società, al pari dell’utopia anarchica, in quanto è un prolungamento del principio di eguale libertà su cui esse si fondano. Penso pertanto che non possiamo farne a meno. Ma lei, interpretando l’ipotesi comunista come un alleato necessario del realismo democratico, trasforma la sua prospettiva radicale in un’anatra zoppa. È una bella ammissione, la sua! Stanti così le cose, posso anche sottoscrivere il patto che mi propone.
Badiou: Una grande alleanza al termine di questa discussione così accesa? Il patto fra di noi non potrà mai eliminare le nostre differenze e, quanto a me, non entrerò mai nell’alveo della democrazia parlamentare, eppure certo, perché no, eccoci di fronte a un epilogo quanto meno inaspettato! Anche gli avversari più irriducibili possono trovare un accordo se sanno comprendere che, in fin dei conti, ciascuno a modo suo e con le proprie armi, combattono lo stesso nemico.

Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia, in Micromega 1/2016, capitolo Alla ricerca di un patto perduto?, poss. 2179-220 (Kindle). Titolo originario: Que faire? Dialogue sur le communisme, le capitalisme et l’avenir de la démocratie © Philo éditions, Paris 2014.

I due errori di Marx

Il primo errore di Marx è il fatto che sia stato insufficientemente dialettico. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei proprio compagni, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?

Sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per scopi liberali. Abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità verso l’Unione Sovietica diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato di lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre di più.

Il secondo errore di Marx è il peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli. Questo è il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo sistema teoretico. Lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Come ha potuto Marx illudersi così? La ragione del suo errore è un po’ sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito, egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.

Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista

Yanis Varoufakis, Confessioni di un marxista irregolare, Asterios, Trieste 2015, pp. 30-35. [citazione non consecutiva].

Un “marxista errante”, come si autodefinisce l’ex ministro delle finanze greco e, chissà, prossimo leader del partito più a sinistra d’Europa. Professore economista awesomissimo che si veste di soli giubbotti di pelle di pastore tedesco, anche d’estate. La sua moto è alimentata con diesel radicale, rigorosamente estratto dalle raffinerie del Capitale.

In questo testo, come in quel bellissimo libro divulgativo che è È l’economia che cambia il mondo, Varoufakis fa un discorso essenziale, che tutti gli studiosi sanno ma di cui poca opinione pubblica è consapevole: le crisi dell’economia non sono propriamente crisi, ma oscillazioni di un sistema che quanto più si avvicina al suo scopo (portare a zero il costo del lavoro attraverso le macchine), tanto più autodistrugge sé stesso.

Un lavoro completamente automatizzato, sogno tanto del padrone-speculatore quanto del lavoratore emancipato, elimina il “surplus” – come il Varoufakis-divulgatore chiama il plusvalore (e “valore d’esperienza” il valore d’uso) -, elimina il guadagno su profitto. È il lavoro automatizzato senza persone, dove non si suda più per vivere: sogno perduto di Adamo ed Eva e incubo di chiunque ha bisogno di fare profitto. E questa tautologica osservazione, tanto ovvia quanto non vista, non la sostiene Yanis, non l’ha teorizzata Lukács, non la diceva Berlinguer, ma l’ha scoperta Marx.

Per questo l’economista tedesco è ancora così fresco, oggi, come strumento di lettura del presente. Perché mostra ogni volta la contraddizione che non vogliamo accettare, quella del processo di produzione: quanto più ci si avvicina alla fine della Storia, tanto più ci si ritrae spaventati di fronte alla fine degli standard di profitto e distribuzione della ricchezza necessari per mantenere un’egemonia.