Il primo errore di Marx è il fatto che sia stato insufficientemente dialettico. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei proprio compagni, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?
Sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per scopi liberali. Abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità verso l’Unione Sovietica diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato di lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre di più.
Il secondo errore di Marx è il peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli. Questo è il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo sistema teoretico. Lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Come ha potuto Marx illudersi così? La ragione del suo errore è un po’ sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito, egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.
Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista
Yanis Varoufakis, Confessioni di un marxista irregolare, Asterios, Trieste 2015, pp. 30-35. [citazione non consecutiva].
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Un “marxista errante”, come si autodefinisce l’ex ministro delle finanze greco e, chissà, prossimo leader del partito più a sinistra d’Europa. Professore economista awesomissimo che si veste di soli giubbotti di pelle di pastore tedesco, anche d’estate. La sua moto è alimentata con diesel radicale, rigorosamente estratto dalle raffinerie del Capitale.
In questo testo, come in quel bellissimo libro divulgativo che è È l’economia che cambia il mondo, Varoufakis fa un discorso essenziale, che tutti gli studiosi sanno ma di cui poca opinione pubblica è consapevole: le crisi dell’economia non sono propriamente crisi, ma oscillazioni di un sistema che quanto più si avvicina al suo scopo (portare a zero il costo del lavoro attraverso le macchine), tanto più autodistrugge sé stesso.
Un lavoro completamente automatizzato, sogno tanto del padrone-speculatore quanto del lavoratore emancipato, elimina il “surplus” – come il Varoufakis-divulgatore chiama il plusvalore (e “valore d’esperienza” il valore d’uso) -, elimina il guadagno su profitto. È il lavoro automatizzato senza persone, dove non si suda più per vivere: sogno perduto di Adamo ed Eva e incubo di chiunque ha bisogno di fare profitto. E questa tautologica osservazione, tanto ovvia quanto non vista, non la sostiene Yanis, non l’ha teorizzata Lukács, non la diceva Berlinguer, ma l’ha scoperta Marx.
Per questo l’economista tedesco è ancora così fresco, oggi, come strumento di lettura del presente. Perché mostra ogni volta la contraddizione che non vogliamo accettare, quella del processo di produzione: quanto più ci si avvicina alla fine della Storia, tanto più ci si ritrae spaventati di fronte alla fine degli standard di profitto e distribuzione della ricchezza necessari per mantenere un’egemonia.