
Il cospirazionismo è la conseguenza della morte di dio. Ne è convinto Federico Nietzsche, penultimo filosofo della storia che, nonostante sia morto, sono riuscito a intervistare. Ecco la nostra conversazione.
Professor Nietzsche, buongiorno. È venuto troppo presto, le domande non sono pronte.
«AaAaandiamo al dunque, giovanotto».
Signor Nietzsche, non crede che la solida presenza delle teorie cospirazioniste – in quest’epoca internettiana senza fonti primarie, piena di fonti secondarie e strapiena di fonti inventate – sia il sintomo, parafrasando Rudolph Otto, della fine del numinoso?
«Ha colto nel segno, giovanotto. Ma diciamolo anche con parole mie. La mancata trasvalutazione di tutti i valori dopo la morte di dio, la paura di affrontare la meravigliosa solitudine implicita allo übermensch, non ha prodotto solo la restaurazione totalitaria coatta di una storia monumentale e archeologica tedesca ma anche una tremenda confusione tra fatti e interpretazioni. Ho avuto problemi agli occhi, la mia scrittura doveva necessariamente andare per aforismi, ma se dico non esistono fatti, solo interpretazioni non asserisco che la verità non esiste, piuttosto che non può coincidere solo con l’obiettività cruda e muta della scienza, altrimenti alla caduta di un mito, quello di un ordine trascendente delle cose, se ne sostituisce un altro, quello dell’eterna infallibilità del procedimento conoscitivo obiettivo. Lo sa che gli antichi, prima di imparare a scrivere, riuscivano a ricordarsi i movimenti astrali e a prevedere i cambiamenti stagionali tramite un enorme apparato mitico fatto di storie strampalate, di case sopra zampe di gallina? I pianeti erano dei erranti, la Via Lattea l’asse di un gigantesco mulino e gli spostamenti del Sole sulle costellazioni cataclismi biblici. Non c’era bisogno di computare nulla, solo di ricordare e il racconto era una tecnica infallibile. L’umanità deve essere fiera della sua mortalità, è l’unica cosa sublime che conta. Si converta alla consapevolezza storica di un grande studioso, Giorgio De Santillana, che ne Il mulino di Amleto lascia perdere il mito della scienza e si cimenta con i fatti delle interpretazioni mitologiche, massimamente scientifici tanto quanto la scienza empirica».
I fatti che possono solo essere interpretati, ma c’è un criterio: possono essere correttamente interpretati.
«Un po’ com’è successo alle sinistre di partito con la fine della Guerra fredda, che ha portato, come in ogni guerra, a un vincitore che ha riscritto la storia, il vuoto lasciato dalla fine della religione e della filosofia non è stato sostituito dall’adesione ai valori pagani del dionisiaco, amico mio. Come direbbe uno scienziato, il vuoto in natura non esiste e, in assenza di alternative solide, con qualcosa lo si doveva riempire in qualche modo. La crisi dei valori cristiani, massimamente trascendenti e distruttivamente immanenti, è il peso più grande. Avrebbe dovuto spingere la società occidentale all’amor fati, la gioiosa accettazione di quel che di terribile ci sussurrò un giorno, o una notte, quel demone. E invece l’uomo ha preferito incantarsi a vedere X-Files. Se la storia fosse un ragazzino, si tratta di superare le delusioni dell’adolescenza, superare la perdita dell’infanzia, abbandonare il cadavere di dio, e invece questo dio lo abbiamo imbalsamato e immolato sulle scie chimiche e la retromania. Eppure questo uomo troppo umano o, come ha brillantemente affermato un mio collega, questa sua magnifica condizione da -gettato, aperto al mondo, dovrebbe inorgoglirci. Forse però ci siamo innamorati proprio di questo nostro esser-gettati senza fare un passo avanti, quello verso la vittoria della vita, l’adesione della comunità, oggi direste del mondo, all’irrazionalità dell’esistenza e alla razionalità dell’esistente uomo, praticabile solo iscrivendo tutta l’umanità al classico. La perdita irrimediabile del sacro, come direbbe lei, la fine della metafisica, dico io, ci sta spingendo all’affannosa ricerca di qualcos’altro di sacro: la ricerca di prove dell’esistenza di extra-terrestri che ci studiano, ci manipolano, ci controllano, ci dominano; la certezza infattuale della terra piatta; la credenza nell’ascendenza dei pianeti del sistema solare sull’umanità, escludendo tutti gli altri esseri viventi. Questi sono cadaveri metafisici».
I complottisti come custodi-poeti heideggeriani della metafisica.
«Mi piace».
Stiamo rifiutando il lutto.
«Prego?».
La sacralità complottista è il sintomo del rifiuto della perdita del sacro.
«Ancora con questi termini scientifici. La smetta».
Sta dicendo che i complottismi riempiono l’assenza del numinoso.
«Questo lo dice lei. Io dico che la fine della trascendenza, che dovrebbe liberare l’umanità, ci sta terrorizzando a tal punto che facciamo finta che non sia successo nulla».
L’assolutamente Altro ritorna in altre forme. Cerchiamo di mantenere mistero e meraviglia sulla creazione del cosmo. Il crollo di un ordine irraggiungibile, quello delle idee regolative kantiane del divino e del metafisico, che hanno tenuto in ordine il nostro misero mondo, ne ha creato un altro falsificabile ma indistruttibile, quello della spiegazione de-responsabilizzante del complotto: qualcosa che al di sopra di tutto, intoccabile e incorruttibile, una scia chimica, un ordine cavalleresco, una lobby potentissima e nascosta, ci restituisca quell’eternità che la natura ha perso.
«Giovanotto, lei parla bene ma è troppo epico, perché non utilizza termini nietzschiani? Direi che non è la perdita della trascendenza ad averci spinto ad abbracciare i complottismi. Il primo passo per la liberazione dell’umanità dalle catene della morale degli schiavi, dall’orgoglio della sudditanza, è proprio la perdita della trascendenza, una vera liberazione. Piuttosto, il terrore ha avuto il sopravvento, per millenni siamo stati coccolati nel cosmo aristotelico, ora che è esploso ci stiamo affannando a crearne un altro in una realtà nel quale la placenta è finita. L’ineluttabile perdita della trascendenza ci sta spingendo ad inventarci altre trascendenze, come un figlio che crea un fantoccio del padre in salotto dopo la sua dipartita».
Mi dispiace.
«Di che?».
Di essere epico.
«Lasci stare, giovanotto. Perché non usa termini nietzschiani?».
Perché ho Nietzsche di fronte a me.
«La morale del servo, che presuppone la debolezza, persiste, quando avrebbe dovuto essere soppiantata dalla morale del signore. Un servo che non rinuncia più al mondo, che addirittura lo ama, è una farsa: la fine dell’altromondismo cristiano e del disprezzo per la vita terrena non ha prodotto l’entusiasmo per la vita terrena, l’adesione a valori finalmente terreni, umani, raggiungibili e responsabilizzanti, ma l’adesione perversa al mondo in cui si vive. È un cataclisma culturale: mentre prima, con la cristianità, si disprezzava ciò che si deve avere la pazienza di perdere, cioè il mondo, in cambio della salvezza ultraterrena, oggi, senza la trascendenza ma senza l’amor fati dello übermensch, disprezziamo ciò che non è altro che quel che ci resta, il mondo sotto i nostri piedi. In pratica abbiamo sposato una donna che odiamo. Viviamo in un mondo che non ci piace e che ci affanniamo a volere così com’e. Bella fine. A me è andata meglio: sono stato rifiutato dalla donna che amo».
Questo spiega la diffidenza con cui costruiamo le comunità, i cambiamenti climatici che provochiamo consapevolmente, l’ineluttabilità di un capitalismo realista come la natura.
«Questo spiega tutto, mio caro amico».
In mancanza di nuovi valori morali basati sull’eterno ritorno delle esperienze infraterrene, continuiamo a cercare rassicurazioni trascendenti che, trovandosi senza appoggi secolari come la cristianità, diventano una cosmogonia grottesca come i rettiliani e le anime di Hubbard, o una teoria scientifica schizofrenica come la Flat Earth Society.
«Per capire il presente e presagire il futuro ho dovuto studiare per decenni la tragedia greca e la filosofia, confrontarmi con la crema della filologia tedesca, rompere con le università, rinunciare alla tranquilla vita familiare e abbracciare un cavallo. Ho compreso la morale dal punto di vista della vita – non della biologia, che è razzista – e capito che l’azione giusta è quella che tiene in massimo conto lo sviluppo della specie uomo: un’autentica selezione umana, non quella robaccia naturalistica à la Charles Darwin che ha prodotto gente come Schumpeter. Ho sacrificato la mia sanità mentale per trovare una pratica filosofica che rinunci alla trascendenza senza sprofondare nel nichilismo, ricostruendo una cultura occidentale sull’orlo del baratro. A David Icke è bastato vedere Matrix».
Lo sa che gli aforismi e le parabole non sono proprio una cosa immediata?
«Leggo un certo disappunto. Mi sta dicendo che dovevo buttarmi in politica?
Forse. Intanto Icke è un portiere che scrive cose leggibili.
«Vada al punto».
Che la potenza razionale del suo pensiero la devono schiudere i corsi universitari altrimenti col cacchio che sarebbe diventato un pensatore così importante.
«Eccolo qui, un altro complottista. Favorisce un po’ di cocco ammunnato? Ecco un altro che guarda la tv, si fa un giro sul web e pensa che per ottenere ciò che si desidera sia sufficiente fantasticare. Solo il sacrificio e la sofferenza permettono di ottenere conoscenza e ricchezza. Il conatus di Spinoza è l’intuizione alla base di una sana filosofia. Secondo lei l’abilità mentale, l’agilità cinestetica, la capacità di giudizio, si coltivano diluendo l’attenzione in rompicapi, fitness, letture di romanzi, o con il duro lavoro della ripetizione e dell’esercizio? La cognizione storica, la maturità sociale, si apprendono soffrendo in autonomia e solitudine. Lo schiavo può diventare signore ma deve abbandonare la debolezza, deve smettere di amarla».
Altrimenti, cosa diventa?
«Un ultimo uomo, un nichilista passivo».
E se la vedessimo dialetticamente?: è stato negato lo übermensch, travisandolo, ora non resta che affermarlo.
«No, mio caro amico. Lasci stare Hegel che funziona solo con le vacche grasse. Se è stata rifiutata la possibilità dello übermensch significa che abbiamo rifiutato lo übermensch e ci siamo accontentati dell’ultimo uomo. L’ultimo uomo non è l’ultimo prima dello übermensch, è l’ultimo e basta».
Maestro, concludiamo quest’intervista con una ragionamento aperto alle possibilità. Ci dica qualcosa di confortante.
«Vengo troppo presto, ragazzo. E ora sono cazzi vostri».