Consigli per gli acquisti

Nietzsche is cool (by Amev)

Il linguaggio della pubblicità ci appartiene. Non ci scampa nessuno, da quello che prova a scamparci con tutte le forze, fino all’isteria e al complottismo, a quello a suo agio che non problematizza nulla.

Che ti professi autarchico, autonomo, libertario, progressista, libertino, freakkettino, conservatore, destromane. Sono diventate tutte performance da atteggiare, cioè azioni da disporre con lo scopo di essere osservate e valutate in sé, come un attore sul palco, più che come mezzi con un fine, con un’idea di società alle spalle. Ci vendiamo cose con gran entusiasmo, qualsiasi cosa, perché l’entusiasmo accende l’attenzione. Perseguiamo la felicità stressandoci per rilassarci.

Sono tutti concetti individuati negli anni Sessanta del Novecento dai pubblicitari, dopo decenni di potente psicanalisi, per indurre il desiderio ad acquistare. Oggi ci appartengono con naturalezza. Il consiglio induttivo è preferibile al confronto, perché il confronto è fuori controllo, porta a rendere imprevedibili le posizioni finali e imprevedibile diventa la propria posizione finale. Inaccettabile. L’ironia dissacrante è preferibile alla constatazione riflessiva: meglio collezionare battute, ridere, esorcizzare quella sottile inquietudine facendo finta che non ci sia (entusiasmo!) che parlare e basta. Meglio l’atmosfera elettrica della città che quel mortorio del paesino di origine.

Erano schemi di comportamento funzionali all’acquisto, alla compravendita, al commercio, alla roba, oggi sono categorie esistenziali con cui viviamo il mondo.

Disumanizzare il nemico

Heinrich Luitpold Himmler

Bisogna disumanizzare per uccidere. Il problema è che è impossibile disumanizzare, perché qualsiasi cosa tu possa fare per ridurre una persona a una cosa, questa continuerà a respirare. Per quanto si possa percuotere forte, per quanto la si possa ridurre al raccapriccio, all’informe, all’asessuato, sanguinerà, resta viva, consapevole. E ti guarda.

Durante la Seconda guerra mondiale si uccideva soprattutto con un colpo alla nuca. E quando la vittima scorgeva dalla cima del fossato il cumulo di cadaveri su cui a breve sarebbe precipitato – morto, se gli andava bene – la scena diventava grottesca, surreale, il panico. Era troppo anche per chi sparava. In Polonia i tedeschi hanno impiegato manodopera ucraina antisemita per rastrellare i villaggi. Non ce la facevano, i nazisti, era troppo anche per loro, gli ufficiali sub-appaltavano gli ordini che ricevevano da Berlino. E gli ordini sono ordini, e ci si convince di star facendo la cosa giusta, per una causa in cui si crede, pur non approvandone i mezzi. Milioni di persone sono morte così, migliaia di persone uccidono così.

Poi ci sono i campi di concentramento, che sono un altro pezzo della storia, più soggetta al riduzionismo (per cui l’orrore della Seconda guerra mondiale sia stato il campo di concentramento). Ma quella è la parte televisiva della storia, epica, scenografica, metaforicamente immensa, drammatica. L’orrore non è solo lì. Ci sono state anche le fosse, i rastrellamenti delle città e delle periferie, il terrore che dilagava parallelamente all’avanzamento del fronte. Queste cose non andrebbero dimenticate. L’inaudito sacrificio dei corpi, la disumanizzazione del nemico, la Guerra Totale, la volontà di dominio senza cosmopolitismo. L’imperialismo tossico. Tutto adesso, qui, ora. Una passione per il reale.

Eh no, amico caro, ti piacerebbe che il problema fosse tutto concentrato nei campi. Il problema è il delirio di onnipotenza. Sono piovute pistolettate in quel periodo, molte più di quelle che potresti immaginare. Le camere a gas al confronto sono un vezzo, una trovata logistica, un privilegio per pochi.

Sto leggendo un libro che ripercorre alcuni eventi della Seconda guerra mondiale dal punto di vista della Germania. La campagna di Russia, l’ufficio di Himmler. È un romanzo, il diario di un nazista frocio. Ho detto frocio per umanizzarlo, non per disumanizzarlo. Non nel senso è nazista ma almeno gli è capitato di essere frocio, piuttosto è nazista però è, tutto sommato, una persona come tante.

Jonthan Littel, Le benevole, Einaudi

Tutti i personaggi delle storie che ci piacciono, perlomeno da vent’anni, hanno tratti dickensiani: non sono buoni e non sono cattivi, sono uomini e fanno cose malvagie. Non è il relativismo morale che ci attira, anzi, sono personaggi dalla moralità granitica, lucidissima, sappiamo benissimo che loro sanno benissimo quando si stanno comportando bene e quando male. Quello che intriga è il fatto che ci riconosciamo in quello che fanno. Potremmo essere noi. Magari – senza quella teatralità evenemenziale cinematografica – nella sostanza lo siamo. Sono persone normali che a un certo punto lasciano che siano le circostanze a spingerle a fare quello che devono fare, piuttosto che fare quello che si deve fare a prescindere dalle circostanze. È la rivincita del pragmatismo razionalista inglese sull’idealismo romantico tedesco.

Walter White (Brian Cranston)

Ci chiamiamo Walter White, Tony Soprano, Omar Little, Stringer Bell, Jimmy McNulty. La catarsi è nel realismo del personaggio, senza stereotipi, stilemi. Il nemico, il cattivo, non è allontanato e disumanizzato ma umanizzato, è una persona normale, non è diabolico, non è angelico. Non è un essere sacro che trascende la nostra esperienza vissuta, piuttosto è il male in una splendida giornata di sole ad Albuquerque. Questo è il male.

Oltre ad Arendt, oggi bisogna anche vedere i film, i telefilm e leggere i casi editoriali come fosse il Processo di Norimberga. D’altronde, se si tratta di com-prendere le cose bisogna afferrarle non allontanarle. Il male va fatto sedere sul divano e parlarci, appassionarcisi. Non dico farci l’amore che è pericoloso ma ci si deve responsabilizzare verso le cose che si vuole conoscere. Cos’è il male? A che serve?

Appassioniamoci al male.

La moralità è un lavoro continuo su di sé, una presa d’atto della responsabilità continua, mai risolutiva, che si ha verso la propria esistenza, prima ancora che verso quella degli altri. L’anima bella non esiste, però non esiste neanche il diavolo. Significa che tutto è permesso? Sì, significa proprio che tutto è permesso, visto che dio è morto. Però significa anche che, essendo liberi e autonomi, si è quindi liberi anche di non dover per forza fare tutto ciò che è permesso. Sarebbe un po’ stupido fare tutto quello che è permesso, come degli automi. Confidare troppo nell’edonismo ha un effetto nefasto, paradossale: si diventa dei bacchettoni, ossequiosi della legge, che ti comanda di fare tutto quello che vuoi.

Bisogna abituarsi a vedere i film horror fatti bene. Il male non è semplicemente quell’abisso nietzschiano che poi ti guarda e ti paralizza. Quello è l’effetto che fa quando lo guardi la prima volta. Poi ti abitui e impari a riconoscerlo, a misurarti. Impari a prenderne atto per prenderne le distanze. Rimuovere la necessità di invischiarsi nell’osceno espone a una potente deresponsabilizzazione: il male è espulso come un corpo estraneo e io ne sono fuori. E se io sono buono, sono mamma e papà ad essere cattivi, sono loro, gli altri, a essere malvagi. Quelli che governano, ladri!, quelli che non vivono come te, inferiori!, quelli che ci comandano, che ci manipolano, che ci riempiono di bugie. Che invidia! Li apriremo come una scatola di tonno. Capitàno! Io sono una vittima e, al contrario di loro, io sono buono, di razza pura, loro sono il male e andrebbero eliminati. È un attimo passare dall’altra parte se si sta continuamente a disumanizzare, a sacralizzare, a trascendere le cause come fossero oggetti da contemplare.

Per cui se il nodo è l’impossibilità di disumanizzare, è sbagliato tanto disumanizzare quanto disumanizzare chi si illude che la soluzione sarebbe catalogare gli umani in umani e disumani. È sbagliato disumanizzare qualsiasi umano, se non esistono umani di serie A e di serie B. È sbagliato rendere diabolici i nazisti per un motivo molto semplice: diventano irriconoscibili, disumani, super-umani. Si stenta a riconoscerli.

E le chat di gruppo mute (sull’ottimismo e il pessimismo)

L’OTTIMISMO

Vedo che non scriviamo più nelle chat di gruppo. Non polemizziamo più. Non chiacchieriamo amenamente delle cose brutte che accadono, ironizzando con meme cinici e graffianti su De Luca. Non spieghiamo più agli altri le cose, quello che devono fare, mascherando l’impulso a sentirsi superiore con l’amore per la condivisione e lo spiegone.

Che c’è, siamo stressati?

La questione di essere ottimista o pessimista nei momenti di crisi non rispecchia la volontà o meno di cambiare le cose. Non c’entra niente. Il peggior pessimista può essere il più bendisposto al cambiamento, anche il più radicale. L’ottimista, invece, ha un ideale in testa che vorrebbe realizzato, smette di osservare la realtà delle cose, di constatare le circostanze, per esempio che sono decenni che la stagione delle politiche di sinistra è tramontata. Ma non oggi, da quasi due generazioni. Due generazioni cresciute senza l’edonismo della Guerra fredda, quelle che chiamiamo con un nome meno nostalgico, nativi digitali.

Essere pessimista, è inutile dirlo, è brutto. L’ottimismo è più meglio. In termini filosofici, però, il pessimista può essere il miglior ottimista. L’ottimista – sempre nei momenti di crisi, parlo – è ossessionato dalla restaurazione del paradiso perduto. È ultraconservatore. Il pessimista, al contrario, è più realista del re. Esagera, certo, la vede peggio di com’è ma – diversamente da chi la vede meglio di com’è – è più pronto a cogliere i cambiamenti, a mettersi in discussione, perché si è arreso alle categorie poco familiari, quelle con cui la generazione dopo di lui ci cresce. Il pessimista si mantiene giovane. Non ha rinunciato alla scopo, semmai ai mezzi visto che, contrariamente all’ottimista, non ci capisce più nulla. Il pessimista si spoglia delle sovrastrutture. Dal punto di vista politico, la strategia migliore che si possa avere. È un dovere essere pessimisti.

E non si scambi il pessimismo per inerzia. Ignavo sarà proprio l’ottimista che si arrende agli ideali cristallizzati. Come le mogli della middle-class americana dell’America degli anni Cinquanta, che sorridono e bevono vino.

L’ottimista è ipocrita.

Il pessimista non sostiene che non c’è più niente da fare. La constatazione del pessimista, contrariamente ai prosciutti negli occhi dell’ottimista, è che il fascismo è interiorizzato perlomeno da quando sono cadute le Torri gemelle, se non da quando è caduto il Muro di Berlino, se non dagli anni Trenta del Novecento. Il pessimista si sforza di constatare la realtà delle cose. Esagera, è vero, ma l’altra esagerazione, quella dell’ottimista, è più superficiale.

Alla redistribuzione egalitaria e all’emancipazione delle minoranze, i cardini di una società ben costruita, ci abbiamo rinunciato da un pezzo. Per mancanza di volontà, per penuria, chissà. Istanze che inevitabilmente torneranno, a meno che non abbiamo rinunciato alla comunità in sé, e questo sarebbe una cosa nuova che apre uno scenario in cui occorrerebbe a quel punto essere più pessimisti dei pessimisti.

Io sono ottimista, le istanze della redistribuzione e dell’emancipazione ritorneranno. Non c’è altra via che la politica di sinistra per migliorare le cose perché la politica che migliora le cose è solo di sinistra. Perché? Perché è l’unica ad aver capito il trucco, il giochetto di prestigio, quello per cui l’attività imprenditoriale inizi dal nulla, spiova dall’alto, quando è sistematicamente avviata col beneficio della comunità. Raccontatemi una sola storia da self made puro e divento ottimista seduta stante. La fortuna di Amazon e Google è l’assenza di imposte, l’enorme risparmio sulla detassazione. Poi, una volta privatizzati i profitti e causato su questa pirateria autorizzata crisi profonde, i debiti vengono condivisi. Si condivide all’inizio, ci se ne strafotte nel mezzo, si condivide alla fine. Lo Stato trattato come la mamma: massimo sacrificio, scarsa riconoscenza. Sono meccanismi che conosciamo bene, visto che cresciamo tutti in famiglia. E invece no! Non è vero, non ne siamo consapevoli per nulla. Siamo ottimisti, pensiamo che per emanciparsi basti andare via di casa, illudendoci che sia giusto privatizzare i profitti perché i profitti si fanno tutti da soli. Dal nulla. Io mi spacco il culo tutti i giorni, capito?!?!

Ahahahaha. È buono eh il cocco ammunnato?

Il liberismo economico, che piange e fotte, è come il genitore violento che ti stupra sostenendo che è per il tuo bene. E tu godi. Se questa metafora vi dà fastidio, sceglietene un’altra più morbida, più ottimista.

Le distopie non sono quelle che racconta Orwell o Scott. Quelle sono distopie fighe, fascinazioni. Il futuro non va immaginato come qualcosa di crepuscolare, decadente, ottocentesco, à la Blade Runner, à la Grande Fratello. Sono società dove l’autorità è lampante, opprimente, ineluttabile, e facile da scovare, anzi, che non si nasconde per nulla. L’autorità, invece, per definizione, si camuffa (pensate a tutte le cose razziste e sessiste che non avete le palle di dire apertamente) perché se venisse scoperta prenderebbe un sacco di mazzate. Viviamo in un Brave new world dove la gente è felice di vivere in un mondo di merda.

In una società che ha fallito la gente può anche vivere felice.

Abbattere statue. Sì, la società è fondata sul sangue. E ora che l’hai scoperto?

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Walter White. Padre di famiglia, pluriomicida, chimico brillante

Lo sappiamo che il blues è figlio della schiavitù? Che se i bianchi non avessero schiavizzato milioni di persone non ci sarebbe stata la contaminazione tra musica popolare e colta? Che se gli aristocratici compositori bianchi, verso la seconda metà dell’Ottocento, non si fossero messi a trascrivere e saccheggiare quello che ascoltavano per strada col cazzo che oggi avremmo O partigiano portami via? Che se tra il XVII e il XIX secolo non ci fosse stata una immane deportazione continentale oggi non potremmo fraternizzare con i deboli e i disadattati suonandogli la grande musica del blues e del jazz?

Homi Bhabha, pensatore post-coloniale, definisce la cultura come l’oscillazione tra il pedagogico e il performativo: la tradizione e la generazione che la vive. Ogni venticinque anni, circa, le tradizioni sono messe in discussione e hanno l’occasione per trasformarsi restaurandosi, trasmutandosi o cancellandosi. C’è un certo grado di aleatorietà in questo rapporto, una certa precarietà. In altre parole, non sembra che le culture siano oggetti razionali, che riflettano uno stato di natura.

La storia spicca il volo solo quando sono tutti morti, e riscrive a piacimento quello che si è sedimentato. La cronaca, che racconta il presente, è instabile e soggetta agli umori della narrazione dominante. La verità arriva solo quando sono tutti morti, e a volte riscrive meglio quello che è stato scritto velocemente e male con la cronaca. E non possiamo farci nulla, ogni volta.

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Questo libro vi farà vedere il blues con altri occhi, nonostante sia della casa editrice di Giorgio Agamben

L’abbattimento delle statue è un atto performativo. E il pedagogico, dov’è? La consapevolezza storica – e lo dicono tutti gli studiosi post-coloniali, cioè quelli di colore, i coloni, i buoni, non i cattivi – è che si dovrebbe prima di tutto accettare come un dato di fatto ineluttabile che siamo tutti figli di pezzi di merda.

L’abbattimento di una statua dovrebbe essere il risultato finale di un percorso di autoanalisi culturale, quella che scopre la violenza, il sopruso e lo sfruttamento alla base dei rapporti tra le persone e dello scambio delle merci. Che estende la violenza non solo al retaggio coloniale (ti piacerebbe, vero?) ma alla fondazione di qualsiasi ordinamento sociale.

L’economia, così come lo stato di diritto, sono azioni coercitive, si decidono, non cadono dal cielo, e vengono entrambe decise con qualità determinate dai vantaggi che ne ricava il gruppo di interesse dominante, il quale a volte, raramente, coincide con una maggioranza. A volte può succedere che questo tipo di stato di diritto deciso si riveli anche il più giusto, equo, ma anche questo lo si potrà scoprire solo quando sarà tutto finito, quando saranno tutti morti.

L’abbattimento delle statue senza questa consapevolezza tragica è una posa.

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Che c’è, Hank, sei scioccato dal post-colonialismo?

La famiglia è il luogo migliore dove mettere al sicuro le proprie patologie senza che siano mai messe in discussione. In famiglia i disturbi del comportamento sono minimizzati, rafforzati, elusi, ospitati, ingigantiti, senza mai essere curati. È una grande chiattillata social da condividere mentre vi si assiste abbattere statue senza turbarsi, senza lo shock di aver scoperto che il comodo e profumato cuscino della cultura occidentale è anche putrido, oppure che è putrido tanto quanto è accogliente. Una grande presa per il culo, una buffonata melodrammatica, teatrale, performativa, caciaresca.

È una verità constatata da decenni l’indicibile fatto che qualsiasi società (e quella che ha dominato, la bianca, per forza di cose più di tutte le altre) è fondata sul sangue degli innocenti, sulla sopraffazione e la schiavitù. L’abbattimento delle statue è il sintomo di questo lavoro culturale, o piuttosto è l’emblema di un rifiuto a riconoscere -e magari mettere in discussione – le fondamenta della nostra organizzazione economica e sociale?

Riusciremo mai a superare sto fatto che siamo figli di criminali? Che te ne fai di tutto quello che è stato scritto dagli anni Cinquanta in poi, da quando gli ex imperi hanno cominciato a ritirarsi dalle colonie. Che te ne fai di una tesi di laurea triennale sull’interculturalità se poi basta abbattere statue per riuscirci, altro che districarsi nelle contraddizioni dietro qualsiasi narrazione culturale.

Perché è quello che stiamo facendo, giusto, abbattendo le statue? Stiamo superando tutto questo, oppure stiamo conservando, restaurando, proprio la nostra splendida identità coloniale?

I miei colleghi, che osservano questo fenomeno e ci scrivono, sono freelance, non è che possono fare molto. Scrivono certo per un interesse intellettuale, per ragionare sul fenomeno statue e sulla questione coloniale, ma lo fanno prima di tutto perché 15 mila battute sono pagate circa 70 euro e, visto che ora si parla di statue, cazzo allora si scriverà di statue.

(questo articolo lo sto scrivendo gratis)

Però poi Selfieni e Meloncino sono il male, eh. Li prendiamo terribilmente sul serio, che li sfottiamo, li ridicolizziamo o li osanniamo, fa lo stesso: li riconosciamo, li legittimiamo. Ma solo loro sono distruttivi, solo loro inventano i noi e i loro, i buoni e i cattivi. La tragedia del post-colonialismo è proprio che il buono e il cattivo coincidono con la stessa persona. Il post-colonialismo è disorientante, non è orientante. È uno shock.

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Ma da dove verrà il consenso della destra populista? Maledette statue

La nottola di Minerva spicca il suo volo sul far del crepuscolo. La consapevolezza storica post-coloniale è accettare un’impotenza, l’impossibilità di cambiare le cose terribili che sono successe, solide basi della ricchezza e della felicità di milioni e milioni di persone. L’ingiustizia alla base dei rapporti di potere. Tutto ciò che in società sembra giusto, naturale, consequenziale, non è che la decisione di una parte.

Wow. Che figata, vero?

Richie Rich se la prende col paparino che non gli ha permesso di scoprire il mondo. La famiglia americana anni Ottanta di Natale scopre che la sua bontà non è che una facciata. Se si abbattono statue con questo spirito da tossico col senso di colpa, senza rendersi conto che l’autenticità di un tale atto implica necessariamente un auto-abbattimento, allora l’atto è solo performativo, senza dialettica con la pedagogia, non fa i conti con la tradizione. È una posa, è da atteggiati, da turisti del postcolonialismo. Poi passa.

Non ci resta che piangere sullo Stato versato. Grazie Mario!

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L’opinione pubblica – Lisa Venturini in Non ci resta che piangere (1984) – ringrazia l’etica liberista

L’etica comunitaria è Saverio (Roberto Benigni), l’etica liberista è Mario (Massimo Troisi). La società ringrazia sempre Mario, a Saverio non lo vede manco, anche quando è proprio lui, ogni volta, a farsi il culo.

I bimbi se la spassano, giocano. Siamo tutti schumpeteriani a parole. Crediamo di avere il mondo in mano, poi cadiamo, ci sbucciano e piangiamo la mamma-Stato che prontamente ci risolleva. Ci risolleva perché siamo sempre noi lo Stato, che ti aiuta sempre, anche dopo che sei cresciuto, a differenza di mamma che non può farlo per sempre. Come la mamma, anche lo Stato, quando si rimbocca le maniche, non pretende niente dal bimbo, è lei l’adulta. L’importante è essere felici, senza quel fastidioso senso di comunità addosso.

Siamo tornati indietro di dieci anni. Il populismo, che agisce sul percepito, sta zitto, perché c’è solo il reale. Non c’è più caciara, non c’è più confusione. C’è solo un vero stato di emergenza, non c’è più differenza tra realtà percepita e realtà reale. La tv è tornata a fare quello che faceva prima dei social: dirette e opinionisti, dirette e opinionisti. Senza influencer, viva dio. Per chiacchierare di attualità non devi immergerti in una melma. Al massimo, qualche facebucchinata, gente come me te che si arrabbia, come fosse il 2009, quando cercavamo i compagni di classe. Non ci sono fake news, ci informiamo su dati verificati. Pure le frasi fatte rispecchiano le fonti. Ma quando l’epidemia sarà finita, il reale se ne andrà, la realtà si riattiverà e il secondo decennio del XXI secolo potrà riprendere. Il populismo ritornerà, più forte.

In queste settimane trionfano misure “socialiste”, collettive. Il Parlamento legifera dal giorno alla notte. È all’opera uno Stato d’eccezione, non un piano quinquennale di collettivizzazione delle risorse, ma sempre dello Stato si tratta, quello Stato malvisto da tutti quando vogliamo fare i soldi ma che, ogni volta che si hanno problemi di soldi, a lui li andiamo a chiedere. È lo stesso rapporto che abbiamo con l’eredità di mamma e papà: non esiste, noi abbiamo la schiena dritta, ce la facciamo da soli, finché non ne abbiamo naturalmente bisogno. Le differenze di classe non esistono finché siamo liberi imprenditori. Come una pubblicità di assorbenti. Liberi, finalmente. Le zone rosse, i fiumi di miliardi drenati verso la sanità, l’esenzione dalle imposte. Non ci sarà traccia nei nostri ricordi di questo sforzo immane, solo un bilancio dello Stato dissanguato: sprecone! Noi, la società, senza istruzione, ciucci e presuntuosi, che non partecipiamo e condividiamo tantissimo, dimenticheremo presto. Il governo è riuscito pure a ottenere la centralizzazione del potere, dopo che in una fase iniziale un decreto regionale e uno statale si sono presi a mazzate. Intere comunità non crolleranno grazie all’intervento dello Stato. Ma noi ci saremo chiusi in casa e sarà l’unica cosa sensata che crederemo di aver fatto.

kinopoisk.ru

Bane (Tom Hardy) in Il cavaliere oscuro (2012)

Ci siamo immunizzati, abbiamo evitato i contatti. Il governo avrà varato misure straordinarie in deroga, in deficit, per noi (e per sé stesso), drenando fiumi di denaro. I medici – l’amico tuo e tuo zio in pensione – avranno lavorato 17 ore al giorno. La solidarietà istituzionale dei funzionari pubblici e la solidarietà professionale dei medici, l’incredibile prontezza del governo parlamentare, senza burocrazia, la quasi totale assenza di conflitto Stato-Regioni. Macché, il merito è solo nostro, che ci siamo chiusi in casa. E i medici che hanno fatto turni di 17 ore per salvaguardare la comunità? Ok, e i miei turni di 17 ore chiuso in casa? È solo grazie alla paranoia che siamo andati avanti. Grazie, paranoia.

Il Coronavirus sta creando un senso di continuità, non di rottura, con la nostra idea distopica di società. Questo è quello che ha cercato di dire Agamben senza riuscirci. Ha avuto ragione Nancy a rispondergli sfottendolo ma una cosa fondamentale Agamben l’ha detta, anche se non è riuscito a dirla: questa grande disposizione di mezzi statali dispiegati non è un miracolo socialista. Siamo sempre nello stato di eccezione eccezione, quello vero, vero vero, reale, terminato il quale si ritornerà allo stato di eccezione permanente, quello con cui Agamben ci ha abboffato i maroni con 47 libri tutti uguali. Il processo di immunizzazione dell’etica individualista liberale ci scorre nelle vene e quello che stiamo facendo per fronteggiare l’epidemia non è niente di così diverso dalla vita di tutti i giorni, solo più esacerbata. Non fate quella faccia: io ho quattro abbonamenti allo streaming e vedo decine di volte al giorno facebook, voi? La rottura ci sarebbe se ci fosse un’epidemia da milioni di morti. Questo metterebbe tutto in discussione. La storia ci insegna che dopo la peste del Trecento e la Seconda guerra mondiale l’umanità è rinata. Prima è morta, però. Non è quello che si può augurare, serve solo a sottolineare che, sconfiggendo il Coronavirus così, senza consapevolezza dell’importanza di questa azione collettiva in atto per sconfiggerla – la stessa che dovremmo applicare in economia – ritorneremo a fare quello che facevamo prima, ovvero combattere la depressione economica e l’apocalisse climatica con le straordinarie armi dell’etica liberista, quella stessa squisita etica liberista che tanto ci piace e che proprio ora non può fare proprio nulla per aiutarci.

L’economia ne uscirà devastata, ma non quanto il nostro senso di comunità. La libera iniziativa privata – contra quella (sprecona) pubblica – e il valore del consumo dei prodotti culturali audiovisivi – contra i teatri e i concerti – sono due principi che non potranno essere messi in discussione perché sono in continuità con la situazione che stiamo vivendo. Non riconosceremo mai il tremendo sforzo che lo Stato ha fatto (grazie mamma!), solo la straordinaria virtù di esserci fatti i cazzi nostri (grazie Mario!). Siamo liberi imprenditori.

Tutti, com’è giusto che sia, stanno chiedendo soldi allo Stato. Anche gli imprenditori. L’imprenditore! Che professa di giorno il darwinismo economico e sociale, la lotta per fare i soldi, l’eroismo del self-made-man-stiamo-sotto-al-cielo-il-mondo-è-una-giungla, il leone e la foresta. Ma di notte, quando deve investire, quando deve fallire, se lo Stato non gli dà una mano appiccia tutto cose. E non gli chiedete tasse, per piacere, che si arrabbia, soprattutto se è molto ricco e la montagna di soldi che ha fatto ha potuto iniziare a farla grazie a gigantesche esenzioni fiscali. Lasciatelo stare, è un libero imprenditore.

Il Coronavirus è un altro passo verso una società più distopica, autarchica, autoritaria, liberista e capitalista. Parole neutre, ora che n’è passata di acqua sotto i ponti da quando a queste se ne opponevano altre. L’etica individuale liberale che ci guida ci ispirerà ancora più fiducia perché crederemo che l’immunizzazione dai doveri della comunità, chiuderci in casa, sarà stata la chiave per sopravvivere. Dopo che l’economia sarà ripartita – smagrita, ammaccata, ammalata, incerta, impaurita, ma senz’altra scelta che riprendere a produrre merci da comprare – sarà la comunità come idea politica ad uscire completamente sconfitta.

 

Il reale, la singolarità, il coronavirus. È la modernità, baby

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Un render della struttura del Cornavirus (wiki)

È caratteristico della modernità la sua accelerazione. L’accelerazione tecnologica, l’accelerazione di classe, politica, della produzione delle merci e delle app. Tutto accelera. E, ovviamente, questa accelerazione aliena, che non è una brutta parola. Il più recente ed efficace saggio sull’argomento è quello di Hartmut Rosa.

Considerando che una delle caratteristiche più importanti della modernità è l’accelerazione, è chiaro che la modernità spinge verso cicli sempre più corti. Se prima si ragionava per generazioni (25 anni), oggi si tende a dare per scontato che in una singola generazione, nell’arco di un terzo circa della propria vita, avvengono già un sacco di cose di un impatto tale da trasfigurare la società: l’elettricità, la musica jazz, la bomba atomica, gli elettrodomestici, il neoliberismo, Michael Jackson, internet, il mercato unico, il cambiamento climatico, le chat di gruppo, un’epidemia mondiale. Tutto avviene a cicli sempre più corti. Neanche riprendi fiato che ecco arrivare un altro casino. Altrimenti non si spiegherebbe la retromania, questa bislacca tendenza a fare la storiografia dell’altro ieri. È una cosa ridicola ma terribilmente seria: sono davvero successe tante cose importanti in poco tempo.

Ridurre l’accelerazione alla “società dei dati”, alla memoria infinita della digitalizzazione, che effettivamente iperaccelera, è una sciocchezza: la società ha iniziato ad accelerare parecchio tempo prima, più o meno intorno al XVI secolo. È lì che è iniziata una digitalizzazione, oppure ancora prima, con il cattivo farmaco della scrittura che scalza l’oralità e la scienza mitologica, via via a ritroso fino all’agricoltura? Non ci casco, la colpa è sempre della modernità.

Può essere che la cifra della modernità sia questa compressione inflazionata dei cicli? Eventi che si susseguono sempre di più, sempre più spesso, finché ci abituiamo. Non sembrano neanche fuori controllo, visto che ogni volta pare che alla fine questi immensi iperoggetti riusciamo a gestirli, tanto, male che vada, prima che ci colpiscano saremo morti di vecchiaia. La loro carica sovversiva viene disinnescata ogni volta. Eventi badiouiani ex post, quando la caratteristica dell’Evento dovrebbe essere ex ante, ci si dovrebbe scommettere su di esso, anticiparlo, in fedeltà, sacrificandosi per esso, se non addirittura lottare a morte per esso, per se stessi, come fa il servo hegeliano.

L’accelerazione, quindi – che non significa “progresso”, lo abbiamo capito da centocinquantanni, anche se ancora facciamo fatica a crederlo – non è semplicemente la cifra del cambiamento continuo ma del cambiamento inflazionato, per cui non sono neanche più i nonni a non riconoscere il futuro, sono io a non riconoscere già il presente.

E se fosse questa la singolarità? Una vera singolarità trasfigurante, necessariamente irriconoscibile agli occhi del trasfigurato. Ci limitiamo ad assistere ai drammatici eventi epocali che accadono nel mondo, vicino casa, lontano da casa. Raramente partecipiamo. Condividiamo tantissimo. Quasi mai andiamo agli eventi che influenzano me e miliardi di persone. Possono travolgere, consumare un pezzettino alla volta, possono essere scansati. Altre volte vi ci gettiamo a capofitto, anche se sono irraggiungibili. Ma ogni volta è sempre il reale con cui abbiamo a che fare, quella realtà vera che fa ogni tanto capolino con eventi destinati inesorabilmente a cambiare la nostra esistenza. Poi, ogni volta, si ritirano, come una risacca, per lasciare di nuovo spazio alla realtà.

Bandersnatch – sei libero di cambiare qualcosa di questo mondo?

Black Mirror Bandersnatch

William Jack Poulter in una scena di Bandersnatch

Non è che non c’è libero arbitrio perché ‘scelgono altri’ per te, questo piacerebbe a Di Maio e Salvini. La conseguenza logica del postulato le mie scelte sono scelte di altri è una regressione infinita, orgasmo complottistico: anche questi altri – se le mie scelte sono scelte di altri – non stanno in realtà scegliendo autonomamente per te perché c’è necessariamente qualcuno, prima di loro, che sceglie per loro quello che deve essere scelto per te, se si è detto che la propria scelta è la scelta di un altro. In realtà la regressione non è infinita perché se quello che comanda è comandato, sempre, vuol dire che a comandare è un’ideologia assoluta.

Se poi questa eteronomia è solo propria, cioè sono solo le proprie scelte ad essere scelte di altri o da altri, mi dispiace molto.

Le nostre azioni sono determinate dalla Legge della Casualità sin dal big bang, ciò non toglie che siamo liberi come surfisti che surfano su onde che non creano dal nulla.

La questione del libero arbitrio nasce quando a un certo punto l’uomo, quando credeva in dio, chiedendosi se dio gli lasciasse fare qualsiasi, ma proprio qualsiasi cosa oppure no, si domandava che tipo di creatore fosse quello che lascia del tutto libere le sue creature. Si chiedeva anche, a quel punto, quale creatore se la spasserebbe a guardare un orologio, creature che annaspano senza volontà, un po’ come oggi ci si chiede quale spasso ci sia nel ridurre la mente e il pensiero all’attività di un calcolatore. La conclusione a cui arrivarono filosofia e religione fu che non si è liberi di fare qualsiasi cosa, perché a dio non piacerebbe un’onnipotenza liberalizzata, ma si è altresì liberi di fare quello che si vuole e che poi sono cazzi tuoi perché ormai sei grande.

Ma di quale scelta si tratta quando si riflette sulla libertà di scelta? La scelta di un cereale o la scelta tra il capitalismo e un’altra organizzazione economica della società? Esiste una scelta di questo tipo?

Sono libero di sacrificare parte del mio tempo libero per partecipare alla comunità in cui vivo. Ma ne ho voglia? Qualche volta sarebbe giusto fare qualcosa di illegale per il bene della comunità? E non sarebbe meglio invece fare soldi?

In conclusione, l’ipotesi di una libertà di scelta in senso assoluto non si può che escludere, perché non siamo liberi di lasciare la terra e volare leggeri sopra l’universo. Resta insoluta la questione politica: cosa farsene del libero arbitrio.

Nonostante si sia liberi di fare quello che si vuole, questa realtà fa schifo. Pare brutto dirlo perché è sputare nel piatto in cui si mangia, lamentarsi della famiglia che si frequenta. Se non ti piace, non lo mangiare, vattene. Ma te ne puoi andare se non hai un altro posto dove andare? La retromania ti insegna che la realtà fa schifo non perché sia un’illusione, fa semplicemente più schifo di quella che ci si immaginava quando si immaginava come sarebbe stata.

Complotto: intervista a Federico Nietzsche

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Il cospirazionismo è la conseguenza della morte di dio. Ne è convinto Federico Nietzsche, penultimo filosofo della storia che, nonostante sia morto, sono riuscito a intervistare. Ecco la nostra conversazione.

Professor Nietzsche, buongiorno. È venuto troppo presto, le domande non sono pronte.
«AaAaandiamo al dunque, giovanotto».

Signor Nietzsche, non crede che la solida presenza delle teorie cospirazioniste – in quest’epoca internettiana senza fonti primarie, piena di fonti secondarie e strapiena di fonti inventate – sia il sintomo, parafrasando Rudolph Otto, della fine del numinoso?
«Ha colto nel segno, giovanotto. Ma diciamolo anche con parole mie. La mancata trasvalutazione di tutti i valori dopo la morte di dio, la paura di affrontare la meravigliosa solitudine implicita allo übermensch, non ha prodotto solo la restaurazione totalitaria coatta di una storia monumentale e archeologica tedesca ma anche una tremenda confusione tra fatti e interpretazioni. Ho avuto problemi agli occhi, la mia scrittura doveva necessariamente andare per aforismi, ma se dico non esistono fatti, solo interpretazioni non asserisco che la verità non esiste, piuttosto che non può coincidere solo con l’obiettività cruda e muta della scienza, altrimenti alla caduta di un mito, quello di un ordine trascendente delle cose, se ne sostituisce un altro, quello dell’eterna infallibilità del procedimento conoscitivo obiettivo. Lo sa che gli antichi, prima di imparare a scrivere, riuscivano a ricordarsi i movimenti astrali e a prevedere i cambiamenti stagionali tramite un enorme apparato mitico fatto di storie strampalate, di case sopra zampe di gallina? I pianeti erano dei erranti, la Via Lattea l’asse di un gigantesco mulino e gli spostamenti del Sole sulle costellazioni cataclismi biblici. Non c’era bisogno di computare nulla, solo di ricordare e il racconto era una tecnica infallibile. L’umanità deve essere fiera della sua mortalità, è l’unica cosa sublime che conta. Si converta alla consapevolezza storica di un grande studioso, Giorgio De Santillana, che ne Il mulino di Amleto lascia perdere il mito della scienza e si cimenta con i fatti delle interpretazioni mitologiche, massimamente scientifici tanto quanto la scienza empirica».

I fatti che possono solo essere interpretati, ma c’è un criterio: possono essere correttamente interpretati.
«Un po’ com’è successo alle sinistre di partito con la fine della Guerra fredda, che ha portato, come in ogni guerra, a un vincitore che ha riscritto la storia, il vuoto lasciato dalla fine della religione e della filosofia non è stato sostituito dall’adesione ai valori pagani del dionisiaco, amico mio. Come direbbe uno scienziato, il vuoto in natura non esiste e, in assenza di alternative solide, con qualcosa lo si doveva riempire in qualche modo. La crisi dei valori cristiani, massimamente trascendenti e distruttivamente immanenti, è il peso più grande. Avrebbe dovuto spingere la società occidentale all’amor fati, la gioiosa accettazione di quel che di terribile ci sussurrò un giorno, o una notte, quel demone. E invece l’uomo ha preferito incantarsi a vedere X-Files. Se la storia fosse un ragazzino, si tratta di superare le delusioni dell’adolescenza, superare la perdita dell’infanzia, abbandonare il cadavere di dio, e invece questo dio lo abbiamo imbalsamato e immolato sulle scie chimiche e la retromania. Eppure questo uomo troppo umano o, come ha brillantemente affermato un mio collega, questa sua magnifica condizione da -gettato, aperto al mondo, dovrebbe inorgoglirci. Forse però ci siamo innamorati proprio di questo nostro esser-gettati senza fare un passo avanti, quello verso la vittoria della vita, l’adesione della comunità, oggi direste del mondo, all’irrazionalità dell’esistenza e alla razionalità dell’esistente uomo, praticabile solo iscrivendo tutta l’umanità al classico. La perdita irrimediabile del sacro, come direbbe lei, la fine della metafisica, dico io, ci sta spingendo all’affannosa ricerca di qualcos’altro di sacro: la ricerca di prove dell’esistenza di extra-terrestri che ci studiano, ci manipolano, ci controllano, ci dominano; la certezza infattuale della terra piatta; la credenza nell’ascendenza dei pianeti del sistema solare sull’umanità, escludendo tutti gli altri esseri viventi. Questi sono cadaveri metafisici».

I complottisti come custodi-poeti heideggeriani della metafisica.
«Mi piace».

Stiamo rifiutando il lutto.
«Prego?».

La sacralità complottista è il sintomo del rifiuto della perdita del sacro.
«Ancora con questi termini scientifici. La smetta».

Sta dicendo che i complottismi riempiono l’assenza del numinoso.
«Questo lo dice lei. Io dico che la fine della trascendenza, che dovrebbe liberare l’umanità, ci sta terrorizzando a tal punto che facciamo finta che non sia successo nulla».

L’assolutamente Altro ritorna in altre forme. Cerchiamo di mantenere mistero e meraviglia sulla creazione del cosmo. Il crollo di un ordine irraggiungibile, quello delle idee regolative kantiane del divino e del metafisico, che hanno tenuto in ordine il nostro misero mondo, ne ha creato un altro falsificabile ma indistruttibile, quello della spiegazione de-responsabilizzante del complotto: qualcosa che al di sopra di tutto, intoccabile e incorruttibile, una scia chimica, un ordine cavalleresco, una lobby potentissima e nascosta, ci restituisca quell’eternità che la natura ha perso.
«Giovanotto, lei parla bene ma è troppo epico, perché non utilizza termini nietzschiani? Direi che non è la perdita della trascendenza ad averci spinto ad abbracciare i complottismi. Il primo passo per la liberazione dell’umanità dalle catene della morale degli schiavi, dall’orgoglio della sudditanza, è proprio la perdita della trascendenza, una vera liberazione. Piuttosto, il terrore ha avuto il sopravvento, per millenni siamo stati coccolati nel cosmo aristotelico, ora che è esploso ci stiamo affannando a crearne un altro in una realtà nel quale la placenta è finita. L’ineluttabile perdita della trascendenza ci sta spingendo ad inventarci altre trascendenze, come un figlio che crea un fantoccio del padre in salotto dopo la sua dipartita».

Mi dispiace.
«Di che?».

Di essere epico.
«Lasci stare, giovanotto. Perché non usa termini nietzschiani?».

Perché ho Nietzsche di fronte a me.
«La morale del servo, che presuppone la debolezza, persiste, quando avrebbe dovuto essere soppiantata dalla morale del signore. Un servo che non rinuncia più al mondo, che addirittura lo ama, è una farsa: la fine dell’altromondismo cristiano e del disprezzo per la vita terrena non ha prodotto l’entusiasmo per la vita terrena, l’adesione a valori finalmente terreni, umani, raggiungibili e responsabilizzanti, ma l’adesione perversa al mondo in cui si vive. È un cataclisma culturale: mentre prima, con la cristianità, si disprezzava ciò che si deve avere la pazienza di perdere, cioè il mondo, in cambio della salvezza ultraterrena, oggi, senza la trascendenza ma senza l’amor fati dello übermensch, disprezziamo ciò che non è altro che quel che ci resta, il mondo sotto i nostri piedi. In pratica abbiamo sposato una donna che odiamo. Viviamo in un mondo che non ci piace e che ci affanniamo a volere così com’e. Bella fine. A me è andata meglio: sono stato rifiutato dalla donna che amo».

Questo spiega la diffidenza con cui costruiamo le comunità, i cambiamenti climatici che provochiamo consapevolmente, l’ineluttabilità di un capitalismo realista come la natura.
«Questo spiega tutto, mio caro amico».

In mancanza di nuovi valori morali basati sull’eterno ritorno delle esperienze infraterrene, continuiamo a cercare rassicurazioni trascendenti che, trovandosi senza appoggi secolari come la cristianità, diventano una cosmogonia grottesca come i rettiliani e le anime di Hubbard, o una teoria scientifica schizofrenica come la Flat Earth Society.
«Per capire il presente e presagire il futuro ho dovuto studiare per decenni la tragedia greca e la filosofia, confrontarmi con la crema della filologia tedesca, rompere con le università, rinunciare alla tranquilla vita familiare e abbracciare un cavallo. Ho compreso la morale dal punto di vista della vita – non della biologia, che è razzista – e capito che l’azione giusta è quella che tiene in massimo conto lo sviluppo della specie uomo: un’autentica selezione umana, non quella robaccia naturalistica à la Charles Darwin che ha prodotto gente come Schumpeter. Ho sacrificato la mia sanità mentale per trovare una pratica filosofica che rinunci alla trascendenza senza sprofondare nel nichilismo, ricostruendo una cultura occidentale sull’orlo del baratro. A David Icke è bastato vedere Matrix».

Lo sa che gli aforismi e le parabole non sono proprio una cosa immediata?
«Leggo un certo disappunto. Mi sta dicendo che dovevo buttarmi in politica?

Forse. Intanto Icke è un portiere che scrive cose leggibili.
«Vada al punto».

Che la potenza razionale del suo pensiero la devono schiudere i corsi universitari altrimenti col cacchio che sarebbe diventato un pensatore così importante. 
«Eccolo qui, un altro complottista. Favorisce un po’ di cocco ammunnato? Ecco un altro che guarda la tv, si fa un giro sul web e pensa che per ottenere ciò che si desidera sia sufficiente fantasticare. Solo il sacrificio e la sofferenza permettono di ottenere conoscenza e ricchezza. Il conatus di Spinoza è l’intuizione alla base di una sana filosofia. Secondo lei l’abilità mentale, l’agilità cinestetica, la capacità di giudizio, si coltivano diluendo l’attenzione in rompicapi, fitness, letture di romanzi, o con il duro lavoro della ripetizione e dell’esercizio? La cognizione storica, la maturità sociale, si apprendono soffrendo in autonomia e solitudine. Lo schiavo può diventare signore ma deve abbandonare la debolezza, deve smettere di amarla».

Altrimenti, cosa diventa?
«Un ultimo uomo, un nichilista passivo».

E se la vedessimo dialetticamente?: è stato negato lo übermensch, travisandolo, ora non resta che affermarlo.
«No, mio caro amico. Lasci stare Hegel che funziona solo con le vacche grasse. Se è stata rifiutata la possibilità dello übermensch significa che abbiamo rifiutato lo übermensch e ci siamo accontentati dell’ultimo uomo. L’ultimo uomo non è l’ultimo prima dello übermensch, è l’ultimo e basta».

Maestro, concludiamo quest’intervista con una ragionamento aperto alle possibilità. Ci dica qualcosa di confortante.
«Vengo troppo presto, ragazzo. E ora sono cazzi vostri».

Riformisti/comunisti: diatheke

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Badiou: Marcel Gauchet, per concludere vorrei renderla partecipe dell’intuizione che ho avuto sentendola parlare di Rousseau e della possibilità di quel soggetto politico collettivo che va sotto il nome di democrazia. Penso di poter dire che, in realtà, non sono il solo ad essere in attesa di un evento…
Gauchet: In che senso? Cosa intende dire?
Badiou: Ritengo che, nonostante la sua prudenza, lei creda nella politica e che per questo sia in attesa di un evento nel senso in cui io l’ho definito. Un evento imprevedibile, come qualsiasi altro evento, ma che consenta l’emergere di una soggettività riformista…
Gauchet: Forse…
Badiou: Affinché quest’evento faccia la sua comparsa, vorrei farle ammettere che anche lei ha un bisogno vitale dell’ipotesi comunista. Mi permetta di esporle questo aspetto che ha un carattere insieme storico, tattico e filosofico. Lei mi sembra convinto del fatto che l’ipotesi comunista non presenti alcun interesse ai fini della realizzazione della sua ambiziosa versione del riformismo. Io vorrei ribatterle che le cose non stanno affatto così. In realtà, essa è per lei assolutamente necessaria. Se guardiamo alla storia recente, i rari momenti che più o meno si avvicinano allo scenario che lei ha in testa si sono realizzati proprio a causa della presenza reale di un universo altro, di un’ipotesi altra, ovvero dei comunisti. Il grande sussulto riformista successivo al 1945, che lei ha spesso menzionato, è stato possibile grazie al fatto che de Gaulle ha dovuto mettersi d’accordo col Pcf, all’epoca il partito più forte che ci fosse in Francia, fregiantesi dell’etichetta di «partito dei centomila fucilati». Al momento della Liberazione il generale aveva senz’altro degli alleati internazionali, poteva vantare un certo credito presso le autorità militari, ma le truppe civili, se così posso dire, si concentravano per lo più dall’altra parte… Non penso che de Gaulle fosse in cuor suo un nemico giurato del capitalismo o un ardente sostenitore delle nazionalizzazioni. Sta di fatto che è stato costretto a negoziare, a fare delle concessioni… Il programma del Consiglio nazionale della Resistenza viene oggi sventolato come un esempio di ritorno alla democrazia. Ma la stessa esistenza del Consiglio era la prova del fatto che de Gaulle era obbligato a venire a patti coi comunisti! Tale patto non va visto come qualcosa di interno alla dinamica generale dello sviluppo capitalistico, ma come il prodotto dell’esistenza dei partiti comunisti e del blocco socialista. E il contesto della ricostruzione, con i suoi imperativi economici e politici specifici, spiega la circostanza per cui gli squali capitalisti hanno all’epoca rigato dritto tollerando riforme di vasta portata che non andavano nella direzione da loro auspicata. Quest’ampio consenso si è in seguito sfaldato mano a mano che il blocco comunista cominciava a manifestare crepe sempre più vistose. Da quando il comunismo storico è crollato definitivamente, le democrazie non sono più state soggette alla sfida del loro avversario. L’ondata neoliberista contro la quale lei insorge è quindi dilagata, andando a riempire il vuoto che si era creato. In assenza di un Altro che le minacci, le democrazie liberali sono tornate ad essere i fedeli vassalli del capitale e dei suoi detentori, i quali non si sentono più obbligati ad accettare i princìpi della moderazione e della redistribuzione.
Gauchet: Per quanto riguarda la congiuntura del 1945, quello che dice è storicamente esatto.
Badiou: Sì, ma questo fatto storico ha anche delle conseguenze tattiche e filosofiche per l’oggi. Se non viene rilanciata l’ipotesi comunista, l’ipotesi riformista che lei sostiene non ha alcuna speranza di realizzarsi. Al di là della strategia, ciò significa forse anche che la stessa democrazia ha bisogno di essere pungolata da una qualche alterità, sia essa interna o esterna alla forma democratica stessa. Insomma, tutto sommato, dovrebbe ringraziarmi! Non andrebbe in pratica da nessuna parte senza di me. Sto solo cercando di aiutarla!
Gauchet: Sì, la prego, mi dia una mano facendo prendere ai miei avversari un bello spavento! Per quel che mi riguarda, continuo a voler rimanere nell’alveo della democrazia liberale, e penso che il vero cambiamento sia alla mia portata molto più di quanto non sia alla sua, se così posso esprimermi. Tuttavia non resisto alla tentazione di risponderle nel seguente modo: proponendosi di aiutarmi, lei riconosce implicitamente che l’ipotesi comunista che intende rilanciare è in realtà priva di consistenza e che i suoi «effetti di realtà» si limitano al compromesso che consentirà di ottenere all’interno delle democrazie rinnovate. Mi vuol far dire che un riformismo conseguente ha bisogno del sostegno dell’ipotesi comunista? Ebbene, ammetto volentieri che per far sì che la politica riprenda il controllo della globalizzazione neoliberista tutte le forze disponibili allo scopo sono necessarie. Aggiungo anche che l’ipotesi comunista, che personalmente preferirei chiamare «utopia comunista», è necessariamente parte dell’orizzonte delle nostre società, al pari dell’utopia anarchica, in quanto è un prolungamento del principio di eguale libertà su cui esse si fondano. Penso pertanto che non possiamo farne a meno. Ma lei, interpretando l’ipotesi comunista come un alleato necessario del realismo democratico, trasforma la sua prospettiva radicale in un’anatra zoppa. È una bella ammissione, la sua! Stanti così le cose, posso anche sottoscrivere il patto che mi propone.
Badiou: Una grande alleanza al termine di questa discussione così accesa? Il patto fra di noi non potrà mai eliminare le nostre differenze e, quanto a me, non entrerò mai nell’alveo della democrazia parlamentare, eppure certo, perché no, eccoci di fronte a un epilogo quanto meno inaspettato! Anche gli avversari più irriducibili possono trovare un accordo se sanno comprendere che, in fin dei conti, ciascuno a modo suo e con le proprie armi, combattono lo stesso nemico.

Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia, in Micromega 1/2016, capitolo Alla ricerca di un patto perduto?, poss. 2179-220 (Kindle). Titolo originario: Que faire? Dialogue sur le communisme, le capitalisme et l’avenir de la démocratie © Philo éditions, Paris 2014.

Buone democratiche intenzioni

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Warren Richardson, “Hope for a new life”, Röszke, Ungheria, 28 agosto 2015, World Press Photo of the Year 2015

Lei ragiona come se in politica esistessero delle buone intenzioni, nella misura in cui tale politica è «democratica» nell’accezione da lei difesa. Forse le sembrerò troppo cupo e pessimista, eppure no, non credo che dovremmo comportarci come se nella politica «democratica» esistessero delle buone intenzioni. In realtà ci sono solo affari e interessi e c’è anche, presso una larga fascia dell’opinione pubblica, insieme al rifiuto di ogni idea generale di emancipazione, un consenso timoroso e vigliacco che mira a preservare in maniera indefinita i privilegi occidentali. Di qui anche le vergognose strizzatine d’occhio, sempre più evidenti, al razzialismo culturale e all’idea della superiorità dell’Occidente e, più in generale, la paura dello straniero, del migrante che arriva e mangia a sbafo alla nostra tavola. I politici delle «democrazie» asservite al capitale passano il loro tempo a «giustificare» queste derive chiamando in causa la «difficoltà della situazione». Per ritrovare un po’ di dignità e di buon senso è necessario rompere in maniera radicale con l’idea che il nostro sistema politico possa essere mosso da buone intenzioni.

Alain Badiou in conversazione con Marcel Gauchet, Micromega, 1/2016, pos. 1610 (Kindle), Fine o prosecuzione della logica imperiale?