Non ci resta che piangere sullo Stato versato. Grazie Mario!

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L’opinione pubblica – Lisa Venturini in Non ci resta che piangere (1984) – ringrazia l’etica liberista

L’etica comunitaria è Saverio (Roberto Benigni), l’etica liberista è Mario (Massimo Troisi). La società ringrazia sempre Mario, a Saverio non lo vede manco, anche quando è proprio lui, ogni volta, a farsi il culo.

I bimbi se la spassano, giocano. Siamo tutti schumpeteriani a parole. Crediamo di avere il mondo in mano, poi cadiamo, ci sbucciano e piangiamo la mamma-Stato che prontamente ci risolleva. Ci risolleva perché siamo sempre noi lo Stato, che ti aiuta sempre, anche dopo che sei cresciuto, a differenza di mamma che non può farlo per sempre. Come la mamma, anche lo Stato, quando si rimbocca le maniche, non pretende niente dal bimbo, è lei l’adulta. L’importante è essere felici, senza quel fastidioso senso di comunità addosso.

Siamo tornati indietro di dieci anni. Il populismo, che agisce sul percepito, sta zitto, perché c’è solo il reale. Non c’è più caciara, non c’è più confusione. C’è solo un vero stato di emergenza, non c’è più differenza tra realtà percepita e realtà reale. La tv è tornata a fare quello che faceva prima dei social: dirette e opinionisti, dirette e opinionisti. Senza influencer, viva dio. Per chiacchierare di attualità non devi immergerti in una melma. Al massimo, qualche facebucchinata, gente come me te che si arrabbia, come fosse il 2009, quando cercavamo i compagni di classe. Non ci sono fake news, ci informiamo su dati verificati. Pure le frasi fatte rispecchiano le fonti. Ma quando l’epidemia sarà finita, il reale se ne andrà, la realtà si riattiverà e il secondo decennio del XXI secolo potrà riprendere. Il populismo ritornerà, più forte.

In queste settimane trionfano misure “socialiste”, collettive. Il Parlamento legifera dal giorno alla notte. È all’opera uno Stato d’eccezione, non un piano quinquennale di collettivizzazione delle risorse, ma sempre dello Stato si tratta, quello Stato malvisto da tutti quando vogliamo fare i soldi ma che, ogni volta che si hanno problemi di soldi, a lui li andiamo a chiedere. È lo stesso rapporto che abbiamo con l’eredità di mamma e papà: non esiste, noi abbiamo la schiena dritta, ce la facciamo da soli, finché non ne abbiamo naturalmente bisogno. Le differenze di classe non esistono finché siamo liberi imprenditori. Come una pubblicità di assorbenti. Liberi, finalmente. Le zone rosse, i fiumi di miliardi drenati verso la sanità, l’esenzione dalle imposte. Non ci sarà traccia nei nostri ricordi di questo sforzo immane, solo un bilancio dello Stato dissanguato: sprecone! Noi, la società, senza istruzione, ciucci e presuntuosi, che non partecipiamo e condividiamo tantissimo, dimenticheremo presto. Il governo è riuscito pure a ottenere la centralizzazione del potere, dopo che in una fase iniziale un decreto regionale e uno statale si sono presi a mazzate. Intere comunità non crolleranno grazie all’intervento dello Stato. Ma noi ci saremo chiusi in casa e sarà l’unica cosa sensata che crederemo di aver fatto.

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Bane (Tom Hardy) in Il cavaliere oscuro (2012)

Ci siamo immunizzati, abbiamo evitato i contatti. Il governo avrà varato misure straordinarie in deroga, in deficit, per noi (e per sé stesso), drenando fiumi di denaro. I medici – l’amico tuo e tuo zio in pensione – avranno lavorato 17 ore al giorno. La solidarietà istituzionale dei funzionari pubblici e la solidarietà professionale dei medici, l’incredibile prontezza del governo parlamentare, senza burocrazia, la quasi totale assenza di conflitto Stato-Regioni. Macché, il merito è solo nostro, che ci siamo chiusi in casa. E i medici che hanno fatto turni di 17 ore per salvaguardare la comunità? Ok, e i miei turni di 17 ore chiuso in casa? È solo grazie alla paranoia che siamo andati avanti. Grazie, paranoia.

Il Coronavirus sta creando un senso di continuità, non di rottura, con la nostra idea distopica di società. Questo è quello che ha cercato di dire Agamben senza riuscirci. Ha avuto ragione Nancy a rispondergli sfottendolo ma una cosa fondamentale Agamben l’ha detta, anche se non è riuscito a dirla: questa grande disposizione di mezzi statali dispiegati non è un miracolo socialista. Siamo sempre nello stato di eccezione eccezione, quello vero, vero vero, reale, terminato il quale si ritornerà allo stato di eccezione permanente, quello con cui Agamben ci ha abboffato i maroni con 47 libri tutti uguali. Il processo di immunizzazione dell’etica individualista liberale ci scorre nelle vene e quello che stiamo facendo per fronteggiare l’epidemia non è niente di così diverso dalla vita di tutti i giorni, solo più esacerbata. Non fate quella faccia: io ho quattro abbonamenti allo streaming e vedo decine di volte al giorno facebook, voi? La rottura ci sarebbe se ci fosse un’epidemia da milioni di morti. Questo metterebbe tutto in discussione. La storia ci insegna che dopo la peste del Trecento e la Seconda guerra mondiale l’umanità è rinata. Prima è morta, però. Non è quello che si può augurare, serve solo a sottolineare che, sconfiggendo il Coronavirus così, senza consapevolezza dell’importanza di questa azione collettiva in atto per sconfiggerla – la stessa che dovremmo applicare in economia – ritorneremo a fare quello che facevamo prima, ovvero combattere la depressione economica e l’apocalisse climatica con le straordinarie armi dell’etica liberista, quella stessa squisita etica liberista che tanto ci piace e che proprio ora non può fare proprio nulla per aiutarci.

L’economia ne uscirà devastata, ma non quanto il nostro senso di comunità. La libera iniziativa privata – contra quella (sprecona) pubblica – e il valore del consumo dei prodotti culturali audiovisivi – contra i teatri e i concerti – sono due principi che non potranno essere messi in discussione perché sono in continuità con la situazione che stiamo vivendo. Non riconosceremo mai il tremendo sforzo che lo Stato ha fatto (grazie mamma!), solo la straordinaria virtù di esserci fatti i cazzi nostri (grazie Mario!). Siamo liberi imprenditori.

Tutti, com’è giusto che sia, stanno chiedendo soldi allo Stato. Anche gli imprenditori. L’imprenditore! Che professa di giorno il darwinismo economico e sociale, la lotta per fare i soldi, l’eroismo del self-made-man-stiamo-sotto-al-cielo-il-mondo-è-una-giungla, il leone e la foresta. Ma di notte, quando deve investire, quando deve fallire, se lo Stato non gli dà una mano appiccia tutto cose. E non gli chiedete tasse, per piacere, che si arrabbia, soprattutto se è molto ricco e la montagna di soldi che ha fatto ha potuto iniziare a farla grazie a gigantesche esenzioni fiscali. Lasciatelo stare, è un libero imprenditore.

Il Coronavirus è un altro passo verso una società più distopica, autarchica, autoritaria, liberista e capitalista. Parole neutre, ora che n’è passata di acqua sotto i ponti da quando a queste se ne opponevano altre. L’etica individuale liberale che ci guida ci ispirerà ancora più fiducia perché crederemo che l’immunizzazione dai doveri della comunità, chiuderci in casa, sarà stata la chiave per sopravvivere. Dopo che l’economia sarà ripartita – smagrita, ammaccata, ammalata, incerta, impaurita, ma senz’altra scelta che riprendere a produrre merci da comprare – sarà la comunità come idea politica ad uscire completamente sconfitta.

 

Il reale, la singolarità, il coronavirus. È la modernità, baby

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Un render della struttura del Cornavirus (wiki)

È caratteristico della modernità la sua accelerazione. L’accelerazione tecnologica, l’accelerazione di classe, politica, della produzione delle merci e delle app. Tutto accelera. E, ovviamente, questa accelerazione aliena, che non è una brutta parola. Il più recente ed efficace saggio sull’argomento è quello di Hartmut Rosa.

Considerando che una delle caratteristiche più importanti della modernità è l’accelerazione, è chiaro che la modernità spinge verso cicli sempre più corti. Se prima si ragionava per generazioni (25 anni), oggi si tende a dare per scontato che in una singola generazione, nell’arco di un terzo circa della propria vita, avvengono già un sacco di cose di un impatto tale da trasfigurare la società: l’elettricità, la musica jazz, la bomba atomica, gli elettrodomestici, il neoliberismo, Michael Jackson, internet, il mercato unico, il cambiamento climatico, le chat di gruppo, un’epidemia mondiale. Tutto avviene a cicli sempre più corti. Neanche riprendi fiato che ecco arrivare un altro casino. Altrimenti non si spiegherebbe la retromania, questa bislacca tendenza a fare la storiografia dell’altro ieri. È una cosa ridicola ma terribilmente seria: sono davvero successe tante cose importanti in poco tempo.

Ridurre l’accelerazione alla “società dei dati”, alla memoria infinita della digitalizzazione, che effettivamente iperaccelera, è una sciocchezza: la società ha iniziato ad accelerare parecchio tempo prima, più o meno intorno al XVI secolo. È lì che è iniziata una digitalizzazione, oppure ancora prima, con il cattivo farmaco della scrittura che scalza l’oralità e la scienza mitologica, via via a ritroso fino all’agricoltura? Non ci casco, la colpa è sempre della modernità.

Può essere che la cifra della modernità sia questa compressione inflazionata dei cicli? Eventi che si susseguono sempre di più, sempre più spesso, finché ci abituiamo. Non sembrano neanche fuori controllo, visto che ogni volta pare che alla fine questi immensi iperoggetti riusciamo a gestirli, tanto, male che vada, prima che ci colpiscano saremo morti di vecchiaia. La loro carica sovversiva viene disinnescata ogni volta. Eventi badiouiani ex post, quando la caratteristica dell’Evento dovrebbe essere ex ante, ci si dovrebbe scommettere su di esso, anticiparlo, in fedeltà, sacrificandosi per esso, se non addirittura lottare a morte per esso, per se stessi, come fa il servo hegeliano.

L’accelerazione, quindi – che non significa “progresso”, lo abbiamo capito da centocinquantanni, anche se ancora facciamo fatica a crederlo – non è semplicemente la cifra del cambiamento continuo ma del cambiamento inflazionato, per cui non sono neanche più i nonni a non riconoscere il futuro, sono io a non riconoscere già il presente.

E se fosse questa la singolarità? Una vera singolarità trasfigurante, necessariamente irriconoscibile agli occhi del trasfigurato. Ci limitiamo ad assistere ai drammatici eventi epocali che accadono nel mondo, vicino casa, lontano da casa. Raramente partecipiamo. Condividiamo tantissimo. Quasi mai andiamo agli eventi che influenzano me e miliardi di persone. Possono travolgere, consumare un pezzettino alla volta, possono essere scansati. Altre volte vi ci gettiamo a capofitto, anche se sono irraggiungibili. Ma ogni volta è sempre il reale con cui abbiamo a che fare, quella realtà vera che fa ogni tanto capolino con eventi destinati inesorabilmente a cambiare la nostra esistenza. Poi, ogni volta, si ritirano, come una risacca, per lasciare di nuovo spazio alla realtà.