Il reale, la singolarità, il coronavirus. È la modernità, baby

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Un render della struttura del Cornavirus (wiki)

È caratteristico della modernità la sua accelerazione. L’accelerazione tecnologica, l’accelerazione di classe, politica, della produzione delle merci e delle app. Tutto accelera. E, ovviamente, questa accelerazione aliena, che non è una brutta parola. Il più recente ed efficace saggio sull’argomento è quello di Hartmut Rosa.

Considerando che una delle caratteristiche più importanti della modernità è l’accelerazione, è chiaro che la modernità spinge verso cicli sempre più corti. Se prima si ragionava per generazioni (25 anni), oggi si tende a dare per scontato che in una singola generazione, nell’arco di un terzo circa della propria vita, avvengono già un sacco di cose di un impatto tale da trasfigurare la società: l’elettricità, la musica jazz, la bomba atomica, gli elettrodomestici, il neoliberismo, Michael Jackson, internet, il mercato unico, il cambiamento climatico, le chat di gruppo, un’epidemia mondiale. Tutto avviene a cicli sempre più corti. Neanche riprendi fiato che ecco arrivare un altro casino. Altrimenti non si spiegherebbe la retromania, questa bislacca tendenza a fare la storiografia dell’altro ieri. È una cosa ridicola ma terribilmente seria: sono davvero successe tante cose importanti in poco tempo.

Ridurre l’accelerazione alla “società dei dati”, alla memoria infinita della digitalizzazione, che effettivamente iperaccelera, è una sciocchezza: la società ha iniziato ad accelerare parecchio tempo prima, più o meno intorno al XVI secolo. È lì che è iniziata una digitalizzazione, oppure ancora prima, con il cattivo farmaco della scrittura che scalza l’oralità e la scienza mitologica, via via a ritroso fino all’agricoltura? Non ci casco, la colpa è sempre della modernità.

Può essere che la cifra della modernità sia questa compressione inflazionata dei cicli? Eventi che si susseguono sempre di più, sempre più spesso, finché ci abituiamo. Non sembrano neanche fuori controllo, visto che ogni volta pare che alla fine questi immensi iperoggetti riusciamo a gestirli, tanto, male che vada, prima che ci colpiscano saremo morti di vecchiaia. La loro carica sovversiva viene disinnescata ogni volta. Eventi badiouiani ex post, quando la caratteristica dell’Evento dovrebbe essere ex ante, ci si dovrebbe scommettere su di esso, anticiparlo, in fedeltà, sacrificandosi per esso, se non addirittura lottare a morte per esso, per se stessi, come fa il servo hegeliano.

L’accelerazione, quindi – che non significa “progresso”, lo abbiamo capito da centocinquantanni, anche se ancora facciamo fatica a crederlo – non è semplicemente la cifra del cambiamento continuo ma del cambiamento inflazionato, per cui non sono neanche più i nonni a non riconoscere il futuro, sono io a non riconoscere già il presente.

E se fosse questa la singolarità? Una vera singolarità trasfigurante, necessariamente irriconoscibile agli occhi del trasfigurato. Ci limitiamo ad assistere ai drammatici eventi epocali che accadono nel mondo, vicino casa, lontano da casa. Raramente partecipiamo. Condividiamo tantissimo. Quasi mai andiamo agli eventi che influenzano me e miliardi di persone. Possono travolgere, consumare un pezzettino alla volta, possono essere scansati. Altre volte vi ci gettiamo a capofitto, anche se sono irraggiungibili. Ma ogni volta è sempre il reale con cui abbiamo a che fare, quella realtà vera che fa ogni tanto capolino con eventi destinati inesorabilmente a cambiare la nostra esistenza. Poi, ogni volta, si ritirano, come una risacca, per lasciare di nuovo spazio alla realtà.

Edward Snowden, umanista illuminista

Edward Snowden e Glenn Greenwald

Edward Snowden e Glenn Greenwald

Ricordo com’era internet prima che fosse sotto osservazione. Non è mai esistita nella storia dell’uomo qualcosa del genere. Potevi avere discussioni alla pari con ragazzini dall’altra parte del mondo, in cui si sapeva che gli era garantito lo stesso rispetto per le loro idee e conversazioni. Specialisti dall’altra parte del mondo, su qualunque argomento, ovunque, in qualunque momento, tutte le volte. Era libero e senza limiti.

Ne abbiamo visto l’effetto spaventoso, il suo raffreddamento e il cambiamento di quel modello verso qualcosa in cui le persone autocontrollano i propri punti di vista, e letteralmente fanno le proprie battute sul finire su una lista nera se si donassero a una causa politica, se dicessero qualcosa in una discussione. È diventato naturale sentirsi osservati.

Molte persone con cui ho parlato mi dicono di come fanno attenzione a cosa scrivono nei motori di ricerca, perché sanno che viene archiviato, e questo limita i confini della loro esplorazione intellettuale.

Sono maggiormente disposto a rischiare l’imprigionamento o qualunque altro esito negativo personale, di quanto sia disposto a rischiare la riduzione della mia libertà intellettuale, e quella di quelli intorno a me, per i quali tengo egualmente come tengo per me stesso. Non significa che mi stia autosacrificando, perché tutto ciò mi restituisce qualcosa, mi fa sentire bene nella mia esperienza umana sapere che posso contribuire al bene degli altri

Edward Snowden risponde alla prima domanda di Glenn Greenwald: se il tuo interesse è di vivere in un mondo in cui ci sia massima privacy, fare qualcosa che potrebbe farti finire in prigione, in cui la tua privacy viene completamente distrutta è un po’ in antitesi con tutto ciò. Come sei arrivato al punto in cui hai pensato che ne valesse la pena? in Citizenfour.

Citizenfour di Laura Poitras è un documento straordinario che testimonia la ragion d’essere del giornalismo: cane da guardia che non determina democrazia ma vi partecipa e basta. Il presupposto del giornalismo è la democrazia, non il contrario: bisogna già vivere in un paese libero per aprirsi un giornale, non il contrario. È una differenza sottile, utile per comprendere il ruolo del quarto potere, senza confonderlo con i mass-media, di cui il giornalismo è una parte dell’insieme. Altrimenti crederemmo che basti un’inchiesta per cambiare le cose, quando queste cambiano con l’azione politica, che col giornalismo c’entra come la specie col genere.

Non basta scoprire i metadati per far sparire i cattivi. Lo scoop del secolo del Guardian ci ha fatto soltanto scoprire che attualmente i buoni non governano, e forse mai lo faranno. Questo è il giornalismo: toglie il velo, rende il re nudo, ma il re può governare come gli pare finché ci riesce. Il potere non ha pudore. Giornalismo è in-formare: mettere in forma quello che si sa per farlo sapere anche agli altri. Non mette in pratica la libertà di espressione, generica definizione che ti porta a insultare Maometto come a dire che la terra è ferma, ma dà immediatamente, nel momento in cui si legge una notizia, la libertà di pensare.

La libertà di espressione è poca cosa, una banale libertà di dire cose tanto sensate quanto insensate, di insultare quanto di giudicare. La libertà dell’uomo non è questo vociare indistinto, questa è la libertà di ululare dell’animale, che pure appartiene all’uomo, ma non è tutto ciò che fa di un uomo un uomo. La libertà di espressione appartiene anche al cane, ma io coi cani non ci discuto. La libertà umana è invece un passo in più oltre questa condizione, una scelta di azione, di messa in pratica, che ognuno prende su di sé: la libertà di ragionare e fare, di non dire cazzate. Tremendamente difficile. Come afferma Snowden, è la libertà intellettuale. Non siamo tutti uguali, davvero c’è una sostanziale differenza tra gli uomini, una darwinistica varietà di specie, ma tutti abbiamo lo stesso cervello, la stessa intelligenza, di cui ne siamo responsabili, di cui dobbiamo esserne degni. Una sostanziale varietà dei corpi di fronte a un’assoluta identità di cervelli. E questo scompagina un po’ il naturale ordine darwinistico delle cose.

L’eguaglianza delle intelligenze è il legame comune del genere umano, la condizione necessaria e sufficiente affinché una società d’uomini possa esistere

Jacques Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis.

Ecco il passo in più da fare: bisogna rinunciare alla tolleranza verso chi non usa la ragione, verso chi non ha il coraggio di conoscere. Il che non significa fare fuori chi è stupido, soltanto insegnargli a ragionare.

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Evelyn Beatrice Hall (non Voltaire)

Che cosa terribile e ipocrita da dire: non ti sopporto, ma la perbenista società dei costumi mi costringe a sorriderti. Non vi dà questa idea? Mi sembra di dover difendere il diritto di una persona a restare un fesso. Io difenderò il diritto di quella persona ad usare meglio il suo cervello o a studiare le cose che non sa, ma mai difenderò il suo diritto a vociare cazzate se so che quello che dice è frutto di mancata riflessione, di ignoranza. Poi se stiamo discutendo dei sistemi pensionistici, del finanziamento a un’opera, insomma di pratiche democratiche di discussione politica, possiamo non essere d’accordo perché non sappiamo gli effetti delle nostre decisioni, ma anche in questo caso strapparsi i capelli e chiamare in causa la propria vita affinché l’altro mi dica la sua in ogni caso mi sembra un po’ esagerato, perché tanto a passare sarà una delle due posizioni, mica la somma magica delle due. Lo spirito di tolleranza a oltranza non mette al centro quello che dello spirito dell’illuminismo fa luce: la ragione. Il diritto per Sheikh Bandar al-Khaibari di affermare che lui in Cina in aereo non ci arriva se la terra gira è il suo dovere di ritornare a scuola, ma questa volta aprendo i manuali di storia della scienza e i saggi dei filosofi, piuttosto che limitarsi a studiare un solo libro religioso. Io la libertà di dire che la terra è ferma a quello non gliela do, in nome di una libertà di capire perché non è vero che la terra è ferma.

Sapere aude! Siamo tutti uguali in quanto esseri umani dotati di ragione, il che è una definizione universale e insieme particolare, qualcosa di più di quella massima universale e inconsistente della libertà di espressione. Libertà di espressione è foglia di fico per colonialisti, libertà intellettuale è impegno morale ad essere giusti, perché abbiamo un cervello che ci fa capire il mondo. Se avessimo soltanto il diritto di esprimerci, potremmo ridurre il tutto alla libertà di ululare feeds su facebook. Invece, se avessimo anche il diritto di usare il cervello sarebbe molto più difficile controllare una massa di acculturati (magari pure culturisti che ti fanno un culo così).

Dalla riflessione profondamente umana di un ex militare, che per ragioni che forse non sapremo mai decide di rinunciare alla famiglia e alla donna che ama, emergono due cose.

1. Una potenza intellettuale formidabile, degna del miglior illuminista. Sì, è vero, il potere del controllo dei corpi e delle identità che determina l’archiviazione e l’analisi dei metadati rende dispotiche e paranoiche le relazioni sociali, lo sanno tutti quelli che usano i social network. Ma Snowden osserva acutamente che ciò che fa la differenza tra l’Internet ingenuo e libero degli anni ’90 da quello capitalista del XXI secolo non è il semplice controllo, ma la limitazione della libertà intellettuale. Come se Snowden ci stesse dicendo che Internet oggi è diventato un regime formale, una sala da thé castrata che non lascia libera energia al pensiero, o meglio, come dice Snowden, all’«esplorazione intellettuale». Snowden dice le stesse cose che affermava più di due secoli fa Kant quando polemizzava con Jacobi.

In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione

Immanuel Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi.

2. Una potenza umanistica formidabile, una cognizione della natura umana degna del miglior rinascimentale di corte. Nella risposta a Greenwald, Snowden è molto più sincero di quanto sembri. Non ha sacrificato la sua vita, in realtà non ha sacrificato proprio nulla. Il suo non è propriamente un sacrificio, perché nel sacrificare la sua di libertà ottiene qualcosa di più grande, «sapere che posso contribuire al bene degli altri». Il che sembra pura retorica buonista, ma ascoltiamo (per chi ha il video) o rileggiamo quello che dice: «mi fa sentire bene [I feel good] nella mia esperienza umana sapere che posso contribuire al bene degli altri». Ciò che guida Snowden è un egoismo di specie: sa che una volta toltosi questo peso, quello di far sapere a tutti cose che pochi sanno, si sentirà degno di essere un uomo. Tutto ciò lo fa sentire bene, non male. Dovreste sentire come dice I feel good, guardatevi Citizenfour e ditemi se non sembra James Brown. I feel good, as a mankind.

Snowden è cresciuto a Fort Maude, in Pennsylvania. È sempre stato un militare. Sentirlo parlare è vedere un militare che pensa. Probabilmente ciò che lo ha spinto a parlare è la frustrazione che genera questo mondo in cui è cresciuto, dove “sai già cosa succederà domani”, dove i rapporti sono gerarchici e il controllo è la prima forma di sicurezza delle persone e le cose. «È una sensazione inusuale che è piuttosto difficile da spiegare, da descrivere o comunicare con le parole» spiega il ragazzo chiuso da settimane in una stanza di albergo di Hong Kong, riflettendo sul suo stato d’animo a due giorni dall’uscita dei primi due articoli sul Guardian e il Washington Post.

Non sapere cosa stia per succedere nei prossimi giorni, nelle prossime ore, la prossima settimana, fa paura ma allo stesso tempo è liberatorio.

È un militare che ragiona e che scopre un mondo che non è una caserma:

La pianificazione riesce molto più facile perché non hai tutte quelle variabili da tenere nel piatto, puoi solo agire, e poi agire di nuovo

Magari lo ha fatto per vanità, un magico momento in cui l’egoismo narciso è indistinguibile da un puro gesto di altruismo. E questo, lasciatemelo dire, è proprio dell’uomo. Sublime.

Che cos’è la matematica?

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«”Matematico” deriva, quanto alla sua formazione, dal greco τα μάθημαματα, ciò che si può imparare ed insieme insegnare; μανθάνειν significa imparare, μάθησις insegnamento […].

Da lungo tempo siamo abituati a pensare ai numeri, ogni qualvolta si usa il termine “matematico”. Chiaramente la mathesis e i numeri sono tra loro in rapporto. Ma ora, essendo i numeri in tale relazione con la mathesis, ci si deve chiedere ancora: perché proprio i numeri vengono considerati come ciò che è in senso eminente “matematico”? Cos’è mai la mathesis, se proprio il numero dev’essere concepito e rappresentato come il “carattere matematico” per eccellenza? 

Μάθησις significa apprendimento; μαθήμαματα ciò che può essere appreso. Come si è detto, con tale nome si indicano le cose in quanto possono essere apprese. L’apprendere è un modo di ricevere facendo proprio ciò che si riceve. Quindi non ogni prendere è un apprendere. Ora, qual è il modo di prendere che distingue l’apprendere? In senso rigoroso non possiamo apprendere una cosa, ad es. un’arma; possiamo apprendere soltanto l’uso della cosa […]. Soltanto se sappiamo in anticipo che cos’è un’arma, ciò che ci è posto innanzi agli occhi diviene per noi visibile per quello che è […]. Quando giungiamo a conoscerla veramente, in modo determinato, allora prendiamo conoscenza di qualcosa che propriamente già abbiamo. Proprio questo “prendere conoscenza” è la vera e propria essenza della μάθησις . I μαθήμαματα sono le cose in quanto noi ne prendiamo conoscenza, in quanto noi prendiamo conoscenza di ciò che delle cose stesse propriamente conosciamo in anticipo […]. La mathesis è ciò che invero già conosciamo “delle” cose, ciò che, conseguentemente, non prendiamo soltanto da loro, ma in certo modo rechiamo già in noi.

Possiamo ora comprendere perché il numero è qualcosa di “matematico”. Vediamo tre sedie e diciamo: sono tre. Che cosa sia il “tre” non ce lo dicono le tre sedie, e neppure tre mele o tre gatti o tre altre cose qualsiasi. Piuttosto noi possiamo contare tre cose, se già conosciamo il “tre”. Ciò di cui prendiamo conoscenza non lo ricaviamo da nessuna cosa. Noi prendiamo ciò che in qualche modo già abbiamo. Ed è appunto questo che così può essere appreso, che dev’essere concepito come “matematico”».

Martin Heidegger, La questione della cosa, Mimesis, Milano 2011, pp. 65, 67, 68, 69.

La matematica/μαθήμαματα è il sapere della comprensione(Platone), l’accordo della cosa con il pensiero (Kant).

Morire per un pugno di figa

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Supponete, dice Kant, che per mettere un freno agli eccessi di un lussurioso si realizzi la situazione seguente. C’è, in una camera, una signora verso cui lo portano momentaneamente i suoi desideri. Gli si lascia la libertà di entrare nella camera per soddisfare il suo desiderio, o il suo bisogno, ma alla porta d’uscita c’è la forca a cui sarà impiccato. Ma non è tutto qui, non è questo il fondamento della moralità di Kant. Vedrete dove sta la forza della dimostrazione. Per Kant non fa una grinza che la forca rappresenti un’inibizione sufficiente: è escluso che un individuo possa andare a fottere pensando che all’uscita lo aspetta la forca. Poi, stessa situazione per quanto riguarda l’esito tragico, ma abbiamo un tiranno che offre a qualcuno la scelta tra la forca e il suo favore, a condizione che faccia una falsa testimonianza contro un amico […]. Seguendolo su questo terreno, c’è tuttavia una cosa che sembra sfuggirgli: è che dopotutto non è escluso che, a certe condizioni, il soggetto della prima scena, non dico che si offra al supplizio, ma che possa prendere in considerazione l’eventualità di offrirsi a esso […]. Il nostro filosofo di Königsberg, questo simpatico personaggio, non sembra affatto considerare quella che Freud chiamerebbe sublimazione dell’oggetto […]. Kant, dunque, non sembra affatto considerare che in certe condizioni di sublimazione quell’oltrepassamento sia concepibile, tanto che si può dire che non è affatto impossibile che un signore vada a letto con una donna essendo sicuro di essere sgozzato all’uscita, dalla forca o da qualcos’altro, non è affatto impossibile che questo signore consideri freddamente quella fine che lo aspetta all’uscita, solo per il piacere di tagliare a pezzi la signora, per esempio. 

Jacques Lacan, Il seminario VII, l’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, pp. 130-131. 

La Minetti è brutta

La Minetti è brutta. Non è un giudizio rancoroso. Non lo dico perché è del PDL, perché “ce ne sono altre più belle” o per le grandi gesta che l’hanno portata al consiglio regionale della Lombardia, ma perché è obiettivamente brutta. E’ il classico esempio di “altezza mezza bellezza”, nient’altro. I canoni estetici falliscono di fronte a tanta stallonaggine. Che sia alta un metro e ottanta, abbia tette stratosferiche e un giro vita proporzionatissimo dice poco, molto poco della bellezza, ma anche della figaggine.

Perché è brutta? Perché è brutta. Ripetetelo con me. E’ liberatorio. Libera dai vincoli, quelli dai canoni estetici fondati sul gonfiore e la rotondità materna, quelli che obbligano a dire: “Che figa!”. La Minetti manca di eleganza, quella fondata sulla camminata che attira davvero gli sguardi. Non ha erotismo, quello del vedo-non vedo. Ha un viso da trans che pare si prenda a cazzotti in faccia tutte le mattine. E poi, visto che dietro la sua figaggine c’è una malcelata carica sessuale, chi l’ha detto che sia brava a letto? Forse mi accanisco, alla fine si parla solo di “figaggine”. Ma cos’è questa “figaggine”? Se ciò che la parola indica è ciò che il giudizio riduce a puro oggetto, e se quel “solo” si riferisce ad una morbida eccitazione al limite del porno, allora non avete visto proprio niente.

Il mio non è un giudizio soggettivo, anzi lo è, ma in senso kantiano. Lo dico io, ma vale per tutti, basta rifletterci, non per forza col cervello.

L’utero di Aristotele (che fare?)

 

Universo aristotele testa

La verità è che è tutta colpa di Colombo e Newton. Si stava così bene prima! Il mondo era piatto e aveva confini con le barche che incontravano il Purgatorio appena fuori lo Stretto di Gibilterra e l’universo era chiuso in sfere concentriche con Dio che amministrava il tutto da buon burocrate. Poi è arrivato quell’italo-spagnolo con una sindrome ossessivo compulsiva per la navigazione. Ha aperto un nuovo spazio, ben invaso e occupato poi dagli Europei: “La terra è tonda e non ha confini – hanno dichiarato uno dopo l’altro spagnoli, inglesi, portoghesi e francesi – ma sicuramente quel poco di spazio in più che è stato scoperto è nostro”. Infine è arrivato un inglese che con l’epifanica storia della mela ha rivoluzionato il modo di pensare e conoscere l’universo. Così il mondo è deflagrato diventando puro caos, e il soggetto che viveva tranquillo e sereno nell’utero aristotelico è stato obbligato a uscire. Niente di preoccupante comunque per l’uomo, niente che minacciasse la sua esistenza, piuttosto la sua salute mentale. La cura è consistita nel fare (inconsciamente) finta di (consciamente) credere che l’universo sia retto da leggi, assiomi, regole e postille. Funziona alla grande. Se non ci credete recatevi a Konigsberg, via del Soggetto Trascendentale 2, citofonare Kant.

La cosa che ti frega in tutto questo è che non si torna indietro, fare come Edipo non serve a nulla: fottersi Aristotele non risolve alcunché, ti ritroveresti con un pugno di occhi in mano. Il trauma è fatto e, per dirla alla Mallarmé, il dado è tratto. La domanda giusta non è “che fare?”. Chiederselo è importante, ma serve soltanto per rendersi conto che ciò che si fa adesso non ci piace, per esempio sponsorizzare il vivere senza idee, da deietti, vendendo democrazia globalizzata eco-sostenibile così come una volta si esportava Progresso, Fede e Civiltà verso i popoli del Nuovo Mondo. Il cinismo non è figlio di un sano pensiero moderno ma di una patologica ossessione per il Profitto. E’ la domanda che non deve esistere, questa è la verità.

«[…] La stessa legislazione […] deve appunto perciò avere una dignità […] per la quale solo la parola r i s p e t t o fornisce l’espressione appropriata alla stima che un essere razionale deve avere verso di essa».

Non lo dice Saviano, non l’ha detto un uomo di destra. In realtà è come se non lo avesse detto nessuno perché tutti dovrebbero credervi. Ma in realtà l’ha detto:

Immanuel Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, sezione seconda: passaggio dalla filosofia morale popolare alla metafisica dei costumi.

Erano tempi in cui ci si entusiasmava se qualcuno faceva la rivoluzione, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Un albero, che valutiamo secondo l’altezza dell’uomo, costituisce la misura per una montagna; e questa, se la sua altezza è presso a poco un miglio, può servire come unità pel numero che esprime il diametro terrestre, per rendercelo intuibile; il diametro terrestre può servire pel sistema planetario da noi conosciuto, e questo pel sistema della Via Lattea; e nessun limite c’è da aspettarsi dall’innumerevole quantità di tali sistemi di Vie Lattee, chiamate nebulose, le quali probabilmente costituiscono in se stesse nuovi sistemi. Ora il sublime, nel giudizio estetico di un tutto così immensurabile, non sta tanto nella grandezza del numero, quanto nel fatto che, procedendo, raggiungiamo unità sempre maggiori

Immanuel Kant, Critica del Giudizio, libro secondo, Analitica del Sublime, par. 26 Della valutazione delle grandezze delle cose naturali, richiesta dall’idea del sublime.

Da piccolo sperimentavo spesso questa sensazione: con un lungo zoom all’indietro, mi rappresentavo dov’ero, il posto, il territorio, il Paese, la terra, il vuoto tra i pianeti, il Sistema Solare, la Via Lattea, finché non provavo un buco nello stomaco.