Enzo Melandri e Heidegger

Il secondo, il terzo e il quarto, da sinistra, sono: Umberto Eco, Michel Foucault, Enzo Melandri

Il secondo, il terzo e il quarto, da sinistra, sono: Umberto Eco, Michel Foucault, Enzo Melandri

«Heidegger […] è l’unico a fare dell’ermeneutica un principio globale di interpretazione, non limitato a questa o quella scrittura o anche alla totalità delle espressioni linguistiche, ma relativo a ogni consapevole attività umana, sia essa teoretica o pratica. Sopra tutto l’Introduzione di Sein und Zeit appare rilevante in questo contesto, poiché contiene una reinterpretazione semeiotica della fenomenologia. Trasformando la fenomenologia in semeiotica, e cioè in sintomatologia generale, Heidegger fa dell’ermeneutica il correlato metodologico indispensabile della Analitik des Daseins. Purtroppo in séguito egli ha smentito uno dei presupposti fondamentali di questo indirizzo: l’analogismo.

Le ricerche indirizzate verso il poetico, il misterioso, il presocratico, non sono forse un indizio di restaurazione anomalistica? E l’interpretazione che egli dà di Nietzsche non pecca forse di un implicito teismo? (Forse quel che ha inibito Heidegger è stato il timore, così caratteristico per un filosofo contemporaneo, di dover rifare i conti con Hegel: e precisamente non tanto nel senso filosofico, quanto in quello ermeneutico. Nella conclusione della sua tesi di dottorato, che è il lavoro di ispirazione ancora in gran parte analogistica, più ancora di Sein un Zeit, Heidegger insiste sulla necessità di fare i conti con Hegel. Da un punto di vista ermeneutico, questo discorso non ha avuto séguito: Heidegger non ha aggiunto nulla alla nostra capacità di capire Hegel meglio di Hegel stesso).

Comunque stia la cosa, è ormai chiaro a tutti che la via scelta del “secondo” Heidegger non conduce da nessuna parte o, meglio, ha senso restaurativo. L’altra diramazione, che faceva parte del progetto originario di Sein un Zeit ma che Heidegger non ha mai battuto perché – come è ormai chiaro anche a noi – essa sfocia in una “palude”, quella della cultura progressista contemporanea, è tuttavia l’unica alternativa che ci resti. Ora, uno dei modi di prosciugare la palude è quello di trasformare l’ermeneutica, attraverso una semeiotica, o semiologia sintomatologica, in una politica terapeutica. E il modulo che permette queste trasformazioni, in accordo con la “genealogia” dell’ermeneutica (ossia, con la motivazione traumatica della sua origine), è sempre il principio di analogia, ma usato in funzione archeologica».

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 56-57.

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Che cosa non è l’ateismo

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«L’ateismo di Nietzsche è un ateismo del tutto particolare. Nietzsche non deve essere incluso nella problematica compagnia di quegli atei superficiali che negano Dio se non lo trovano in provetta, e che al posto di Dio, negato in questo modo, “divinizzano” il loro “progresso”. Non dobbiamo scambiare Nietzsche per uno di quei “senza-dio” che non possono nemmeno essere tali, perché non hanno mai lottato né sono capaci di lottare per conquistarlo […].

Non possiamo fare del termine e del concetto “ateismo” una parola di battaglia, e di difesa, cristiana, come se ciò che non corrisponde al Dio cristiano fosse “in fondo” già per questo ateismo […]. Solo gli ignavi e coloro che si sono stancati del loro cristianesimo vanno a cercarsi nelle affermazioni di Nietzsche una conferma a buon mercato del loro problematico ateismo». 

Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 2005, p. 272. 

La filosofia è gaia, ma non è una scienza

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«Corrispondentemente alla disposizione complessiva della storia dell’uomo sulla terra, il carattere tecnico-industriale avviato da circa un secolo e mezzo contribuirà a determinare l’ulteriore destino della scienza odierna. Il contenuto semantico della parola “scienza” si svilupperà quindi in questa direzione che lo porta ad identificarsi con il concetto francese di science, termine con il quale si intendono le discipline matematico-tecniche. Già oggi i grandi rami dell’industria e lo stato maggiore generale sono molto meglio “informati” delle “università” sulle necessità “scientifiche” […].

Le cosiddette “scienze dello spirito” però non si svilupperanno a ritroso fino a diventare una componente delle “belle arti” di un tempo, ma si trasformeranno in uno strumento di educazione “politico-ideologica” […].

A differenza della “scienza”, in filosofia le cose stanno in modo del tutto diverso. Dicendo qui “filosofia” si intende soltanto l’opera dei grandi pensatori. Questa, anche nel modo di comunicare, ha i suoi tempi e le sue leggi. La fretta di pubblicare e la paura di arrivare troppo tardi vengono qui a cascare già per la ragione che dell’essenza di ogni genuina filosofia fa parte l’essere necessariamente fraintesa dai suoi contemporanei. Perfino nei confronti di se stesso il filosofo deve cessare di essere un proprio contemporaneo […], ancora oggi noi dobbiamo durare fatica per capire ad esempio la filosofia di Kant nel suo contenuto essenziale […]. Anche Nietzsche non pretende di essere capito in modo compiuto, ma vuole avviare un cambiamento dello stato d’animo fondamentale, vuole trasformare i suoi contemporanei soltanto in padri e antenati di quello che deve venire».

1937

Martin Heidegger, Nietzsche, Adeplhi, Milano 2005, pp. 227-228.

Che cos’è la matematica?

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«”Matematico” deriva, quanto alla sua formazione, dal greco τα μάθημαματα, ciò che si può imparare ed insieme insegnare; μανθάνειν significa imparare, μάθησις insegnamento […].

Da lungo tempo siamo abituati a pensare ai numeri, ogni qualvolta si usa il termine “matematico”. Chiaramente la mathesis e i numeri sono tra loro in rapporto. Ma ora, essendo i numeri in tale relazione con la mathesis, ci si deve chiedere ancora: perché proprio i numeri vengono considerati come ciò che è in senso eminente “matematico”? Cos’è mai la mathesis, se proprio il numero dev’essere concepito e rappresentato come il “carattere matematico” per eccellenza? 

Μάθησις significa apprendimento; μαθήμαματα ciò che può essere appreso. Come si è detto, con tale nome si indicano le cose in quanto possono essere apprese. L’apprendere è un modo di ricevere facendo proprio ciò che si riceve. Quindi non ogni prendere è un apprendere. Ora, qual è il modo di prendere che distingue l’apprendere? In senso rigoroso non possiamo apprendere una cosa, ad es. un’arma; possiamo apprendere soltanto l’uso della cosa […]. Soltanto se sappiamo in anticipo che cos’è un’arma, ciò che ci è posto innanzi agli occhi diviene per noi visibile per quello che è […]. Quando giungiamo a conoscerla veramente, in modo determinato, allora prendiamo conoscenza di qualcosa che propriamente già abbiamo. Proprio questo “prendere conoscenza” è la vera e propria essenza della μάθησις . I μαθήμαματα sono le cose in quanto noi ne prendiamo conoscenza, in quanto noi prendiamo conoscenza di ciò che delle cose stesse propriamente conosciamo in anticipo […]. La mathesis è ciò che invero già conosciamo “delle” cose, ciò che, conseguentemente, non prendiamo soltanto da loro, ma in certo modo rechiamo già in noi.

Possiamo ora comprendere perché il numero è qualcosa di “matematico”. Vediamo tre sedie e diciamo: sono tre. Che cosa sia il “tre” non ce lo dicono le tre sedie, e neppure tre mele o tre gatti o tre altre cose qualsiasi. Piuttosto noi possiamo contare tre cose, se già conosciamo il “tre”. Ciò di cui prendiamo conoscenza non lo ricaviamo da nessuna cosa. Noi prendiamo ciò che in qualche modo già abbiamo. Ed è appunto questo che così può essere appreso, che dev’essere concepito come “matematico”».

Martin Heidegger, La questione della cosa, Mimesis, Milano 2011, pp. 65, 67, 68, 69.

La matematica/μαθήμαματα è il sapere della comprensione(Platone), l’accordo della cosa con il pensiero (Kant).

Requiem for doppiaggio

L’altro giorno un mio amico regista ha fatto un’osservazione interessante a proposito della diatriba doppiaggio si/doppiaggio no. Il sonoro dei film moderni – mi ha detto – è molto diverso rispetto al passato. E’ più complesso, ricco, ha più profondità e dettagli. Per cui – osserva l’amico – il doppiaggio oggi risulta più traumatico di allora. E mi fa questo esempio: “Se hai il decoder e stai guardando un film, prova a cambiare i sottotitoli da italiano a originale e viceversa. Noterai che il suono dell’ambiente cambia sensibilmente”.

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Chiariamo subito. Il doppiaggio è tradimento, come ogni opera di traduzione. Il che di per sé non è un male. E’ uno scambio, una moneta. Nella traduzione qualcosa si perde e qualcos’altro si guadagna. E’ impossibile non tradire quando si traduce, di fatto lo facciamo continuamente quando parliamo. E’ quello che il filosofo francese del linguaggio Paul Ricœur riteneva uno splendido tradimento, un movimento della parola nelle sue oscillazioni di senso.

Gli italiani sono sempre stati maestri della traduzione, sarà una cosa connaturata al fatto che gli italici, fin da quando dominavano, sono sempre oscillati tra tutte le popolazioni del Mediterraneo, il mare che concentra. E’ una nostra attitudine, che risiede nel concetto di imperium. Imperium significa letteralmente esercitare il comando, ma si tratta di un comando particolare, che non schiaccia, piuttosto è, per usare la splendida etimologia di Heidegger, un ergersi sopra qualcosa mantenendola in piedi, lasciare che chi sta sotto si regga sulle sue gambe. Come quando si fa l’amore. E’ dare la cittadinanza romana insomma, dare un privilegio in cambio di un dovere. Proprio come nella traduzione: qualcosa perdi e qualcosa guadagni. Sarà forse per via di questa attitudine passata a mantenere-in-piedi-ciò-che-sta-sotto che gli italiani sono stati dei gran maestri del doppiaggio, l’arte di dare cittadinanza italiana ai film stranieri. Il doppiaggio ha questo scopo: farti sentire a casa pur essendo in terra straniera.

I sottotitoli al cinema sono quindi i benvenuti? Sì e no. Sì perché finalmente abbiamo l’autentico straniero con la sua voce, no perché distraggono. Sono una distrazione benvenuta, come quando si consulta la mappa della Terra di Mezzo: servono per orientarsi. Ma al cinema sono una distrazione disturbante, una piccola distruzione del cinema, perché spezzano la continuità delle immagini-movimento, rompono la magia onirica dello schermo, il buco pieno di luce. Quando legge i sottotitoli, l’occhio deve guardare di sbieco la scena, come quando si vuol guardare una stella poco luminosa fissando un punto subito affianco. Ma un film non è una costellazione, non va studiato e osservato, ma solo guardato, direttamente. E’ un viaggio. A questo serve il doppiaggio, a non spezzettare il viaggio, a mantenere la visione del sogno.

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L’epoca d’oro del doppiaggio è finita. Dopo anni di streaming online, per la generazione mastica-inglese nata dopo gli anni ‘80, ogni sfumatura di senso, ogni slittamento all’opera in un doppiaggio risulta fuori luogo, un tradimento intollerabile. Perché? Perché ormai si sa quello che vuole dire il film in lingua straniera, la sua lingua la conosciamo. Lo straniero non è più straniero, è già a casa nostra, non ha bisogno di essere doppiato. E’ un cittadino straniero che non ha bisogno di cittadinanza romana. Non ha bisogno di essere tradotto. Né tradito.

Che cos’è la politica?

La politica è quello che fai mentre qualcun altro si sta occupando di qualcos’altro al posto tuo. E’ una definizione greca, all’antica, non propriamente la sua definizione – πολίτεῖα/politeia è l’arte di governare una città – quanto il suo presupposto, la conditio sine qua non la politica non si può praticare.

Nell’antica Grecia quelli che si occupano di cose che riguardano gli affari tuoi sono gli schiavi, per esempio occupandosi della tua casa. Infatti uno dei nomi con cui allora si chiamava lo schiavo era οἰκέτης/oikétês, colui che abita la casa, ovvero colui che gestisce le faccende domestiche al posto tuo. 

E’ un bel privilegio avere uno schiavo, si ha più tempo libero grazie al sollevamento dagli impegni domestici, tempo libero da impiegare per fare altre cose, per esempio politica. In un certo senso, per dirla alla Hegello schiavo rendeva libero il padrone. Il politico greco, all’antica, è quindi un uomo libero non di fare ciò che gli pare ma libero di occuparsi di politica. Una libertà vincolante, come tutte le autentiche libertà: disimpegnava dalle faccende quotidiane e impegnava verso qualcosa di più ampio. 

atene

Perché questo disimpegno che impegna? Perché questo privilegio comporta l’impegno politico? Qual è il nesso? Come abbiamo detto, il privilegio di cui gode chi ha uno schiavo è quello di avere più tempo libero. Per un greco privilegio è privilegio, ovvero una legge (legio) fatta a favore di un singolo (previ). Non si tratta di una legge ad personam bensì di un sollevamento che responsabilizza: visto che chi possiede uno schiavo esercita l’arte di governare la casa, e visto che chi non è impegnato a occuparsi della casa ha tempo libero a disposizione, allora la legge del privilegio comanda di esercitare su una casa più grande questa abilità che si esercita in casa propria.

Pare brutto questo fatto che il fondamento della politica ateniese e della libertà dei suoi cittadini sia la schiavitù. Ma questa è un’altra storia, anzi la Storia, quella della ricchezza delle nazioni e dei popoli, da sempre fondata sullo sfruttamento. Al di là di questo, ciò che qui conta è lo spazio per una definizione autentica (autoenteo, che si muove entro se stesso, entro ciò che la parola dice) della “politica”. Cosa dice quest’autenticità? In positivo, che la politica è l’arte di governare, in negativo che essa non è l’occuparsi degli affari propri visto che c’è uno schiavo a farlo al posto tuo.

E se invece si praticasse la politica proprio per occuparsi degli affari propri? Un greco, quello antico, ti risponderebbe che non avrebbe senso: si fa politica proprio perché gli affari personali non sono più una propria preoccupazione. 

Breve guida alla morale di Batman

sale

Solo Nolan e Burton hanno saputo finora trasporre sul grande schermo il Batman dei fumetti. I due registi mettono insieme le due epoche che hanno caratterizzato nel corso della storia lo stile grafico dell’eroe senza superpoteri. Da un lato Burton con quel suo sapore pop che attraversa i vari Schwartz e gli O’Neil, dall’altro Nolan con quel tono più (o)scuro che si rifà all’epoca moderna del personaggio, quella inaugurata nel 1986 da Frank Miller con Il ritorno del Cavaliere Oscuro e proseguita con Il lungo Halloween di Loeb e Sale. Quella tra i due registi è una differenza di stile, non di sostanza, in comune c’è il Batman di sempre, quello che in settant’anni è rimasto sempre lo stesso: il rampollo di Gotham che in un mondo oscuro decide di combattere la decadenza dei costumi della sua città trasformandosi in un poliziotto “buono”.

batman miller

Purtroppo in Italia le recensioni dei film tratti dai fumetti brillano per pochezza e superficialità, un po’ perché spesso si parla effettivamente di filmacci, ma anche perché chi scrive ha spesso una sommaria conoscenza del personaggio o addirittura un malcelato disinteresse per l’arte del romanzo grafico. Per esempio, per quanto riguarda Batman, a volte si insiste sul luogo comune della figura dell‘“eroe ambiguo”, il che fa sorridere: Batman è tutto fuorché un eroe con dubbi morali, mai nel fumetto e nei film si rintracciano indizi in tal senso. Tutt’al più, se c’è una questione morale, essa è scatenata dalla sua stessa presenza in città: Batman è un “guardiano silenzioso”, il custode di Gotham, ma la sua presenza attira come un fiore le api una fiumana di folli criminali che puntalmente piombano in città per confrontarsi con l’uomo pipistrello. Il Jocker incarna questo fenomeno nella novella Arkham Asylum ed è uno dei temi ricorrenti de Il Cavaliere oscuro, il secondo film di Nolan. In entrambe le storie, il fumetto di Morrison e il secondo film di Nolan, si mette in scena l’esasperazione dello scontro tra l’Ordine e il Caos. Il Jocker è la nemesi di Batman, Batman l’anti-caos, ma non sono due mondi che si scontrano, bensì due facce della stessa medaglia che si rincorrono a vicenda. Il clown pazzo cerca di mettere in crisi l’Eroe, mostrandogli la follia e il non-senso del mondo, senza riuscirci però, non tanto perché Batman alla fine lo batte sempre, ma soprattutto perché non lo convince. Insomma, l’universo di Batman, come tutti gli universi dei supereroi dei fumetti, è bello ricco. Proviamo allora a fare un’esegesi di questo territorio tagliando di traverso per i campi della morale, della psicologia e della filosofia.

Gotham come la Terra di Mezzo

In primo luogo precisiamo la natura di questo mondo immaginario, quello della città di Gotham – nonché più in generale degli universi dove si svolgono le storie a fumetti dei supereroi. Il suo meccanismo è simile a quello della Terra di Mezzo di Tolkien: un mondo “storicamente possibile” intriso di magia. Nel caso di Gotham gli elementi magici sono la finzione scenica (l’uomo pipistrello le prende a destra e a manca, rischia costantemente la vita ma non è mai veramente in pericolo) e l’onnipresenza tempestiva dell’eroe (sempre al posto giusto al momento giusto). Batman emerge così come un ninja saggio, un incrocio tra Odisseo e Polifemo: astuto stratega e forte combattente, due virtù che gli permettono di battere incredibilmente Superman, l’alieno indistruttibile ma ingenuo.

batman maroni

Il mondo è folle

Passiamo ora all’argomento più pregnante, la morale di Batman. L’uomo pipistrello viene in genere pubblicizzato come un eroe ambiguo, fraintendimento dovuto al suo evocativo soprannome datogli da Frank Miller: Cavaliere Oscuro. Ma se non è oscuro il cavaliere, cosa è oscuro? Il mondo in cui vive, la città di Gotham. Essa da un lato è manichea nella narrazione – il lettore sa benissimo chi è il buono e chi è il cattivo, a parte qualche eccezione – dall’altro opportunista e ambigua, popolata com’è da sindaci, commissari, uomini d’affari, famiglie di mafiosi e alta borghesia. Su tutto questo prorompe il magico trio composto da Batman, il commissario Gordon e il procuratore distrettuale Harvey Dent (finché non impazzisce). Tutti e tre fanno una squadra di Intoccabili, uomini tutti di un pezzo che consacrano la loro vita più che alla causa del bene a quella dell’Ordine e della Legge, il che appare un po’ fascista, ma non è così. Abbiamo detto che il mondo di Gotham è oscuro, caotico, in crisi, sempre sull’orlo del baratro, ragion per cui la volontà di ristabilire un equilibrio deve essere la contrapposizione violenta di un ordine. Ma più che un ordine totalitario, Batman segue piuttosto l’idea di un ordine platonico, un’idea, un progetto, un impegno che, nonostante siano impossibili da realizzare (non esiste un mondo moralmente puro e perfetto), restano ciò a cui si deve aspirare. Se il mondo è corrotto e rischia la catastrofe ogni volta che un supercattivo minaccia la sua distruzione (Bane del terzo film di Nolan), a Batman non resta altra scelta di presentarsi come colui che ristabilisce l’Ordine piuttosto che il Bene.

La differenza sostanziale tra Batman e tutti gli altri personaggi del suo universo la fa proprio quel cosa fare?. Di fronte a un mondo siffatto, tendente per sua natura al caos, è la scelta che fa la differenza. I cattivi affermano: “Il mondo è oscuro e caotico, quindi non ho dirette responsabilità morali se seguo cinicamente i miei interessi”. Batman invece afferma: “Il mondo è oscuro e caotico ma non per questo non posso prendermene cura fungendo da esempio per tutti”. Quell’essere “esempio per tutti” non è però l’aspirazione di Batman, semmai una conseguenza indiretta delle sue azioni. Il suo fine non è il bene della collettività ma il sollevamento da un fardello personale, un senso di colpa – quale lo vedremo più avanti – generato da un trauma che lo spinge a lottare – tema centrale di Batman Begins – contro la sua stessa paura, decidendo così di incarnarla. “I criminali sono codardi e superstiziosi. Il mio travestimento dovrà infondere terrore nei loro cuori. Dovrò essere una creatura della notte, nera, terribile”, risponde Bruce Wayne ad Alfred, il suo maggiordomo, che gli chiede perché il pipistrello (nella versione di Nolan: «Perché i pipistrelli, signor Wayne? – Perché mi fanno paura. Che li temano anche i miei avversari»). Ecco il motivo per cui Batman sceglie questo travestimento e non piuttosto quello di un Paladino: non deve opporre la Luce alle Tenebre, il mondo resta la composizione caotica di questi due elementi che pur restano separati. Non deve trascendere alla Bontà ma ispirarla, e grazie alle sue gesta e al suo coraggio essere un esempio morale per tutti. Non è un caso che gli unici che adorano Batman sono i ragazzi.

La cura di Batman

Batman è un realista. Il mondo è un luogo dove la morale è in chiaroscuro pur restando possibile il comportamento virtuoso. Un mondo folle con i cattivi che lo cavalcano allegramente. Ma se l’impegno è quello di evitare il collasso di un mondo per natura precario bisogna opporvigli non un elemento trascendente, come la Luce o il Bene, ma qualcosa che componga questo stesso mondo: un lavoro, un impegno, un progetto, una responsabilità, in una parola la cura heideggeriana del mondo. Batman non si illude di “ordinare” e “legiferare” sul mondo, la volontà di ordinare e legiferare è tale solo dal punto di vista dello stato di natura del mondo gothamiano: caos e sopraffazione. Egli vuole soltanto riscattare la sua colpa nella consapevolezza che il mondo ha per sua stessa struttura un equilibrio precario. Per questo è Ordine, per questo è un pipistrello. Si può scegliere di lasciare il mondo così com’è, o prendersene cura. I cattivi, Jocker e Due Facce più di tutti, godono allegramente della precarietà del mondo cavalcando il primo la sua follia, il secondo la sua casualità. Come dargli torto? E’ Batman che gli da torto, mostrandogli la possibilità di una scelta frutto di una castrazione del desiderio: quella di lasciarsi andare al caso.

due facce

Il trauma

Qual è la colpa di Batman, perché due facce è Due Facce, e jocker il Jocker? Sono tre deliri di onnipotenza generati da un trauma. Bruce Wayne ha visto morire i suoi genitori per mano di uno scippatore ed è dilaniato da un senso di colpa dovuto al fatto che è stato lui a portare involontariamente la famiglia sul luogo della rapina. Il Jocker era un marito squattrinato che va fuori di testa dopo aver perso la moglie incinta ed esser rimasto sfigurato a causa di un colpo andato male. Infine, Due Facce era un onesto e brillante procuratore distrettuale frustrato dall’impossibilità di sconfiggere definitivamente la mafia, ed impazzisce dopo che il suo viso rimane per metà bruciato dall’acido. Insomma, tre casi clinici. Jocker cade nella follia dopo che il suo mondo si sgretola da un giorno all’altro, Due Facce abbraccia consapevolmente il principio di casualità dopo esser arrivato alla conclusione che la Legge non può fare niente contro chi è fuori-Legge. Batman è l’unico che si mette in terapia: si prende cura di sé facendosi carico del suo trauma: vuole redimersi dalla responsabilità della morte dei suoi genitori. La versione di Nolan sulla genesi di Batman è a mio avviso quella più riuscita: quella sera a teatro i ballerini che ruotavano su sé stessi somigliavano a pipistrelli e il piccolo Bruce aveva paura. Così lui, suo padre e sua madre decidono di abbandonare lo spettacolo e uscire dal retro del palazzo…Batman elabora il lutto, si maschera da pipistrello, incarna la Paura.

superman

E’ più forte Superman o Batman?

Un altro grande supereroe per onestà e moralità è Superman. I due non possono essere più diversi per intenzioni e origini, pur restando due eroi. La differenza la fa l’elemento di trascendenza dell’Uomo di Acciaio: Superman è un alieno, viene da un altro pianeta, non è umano. E’ un cristo redentore, l’unico che può amare l’umanità più degli uomini. Il mondo in cui si muove è a tutti gli effetti manicheo: da un lato gli abitanti della terra, dall’altro i cattivi, in genere anch’essi alieni (l’unico che è stato capace di uccidere Superman non è umano). Con la sua purezza d’animo e le sue gesta al di là dell’umano, l’Uomo del Domani afferma che l’umanità è fondamentalmente buona. Batman invece più che dirci l’opposto – l’umanità è fondamentalmente cattiva – fa svanire ogni opposizione: non c’è il Bene e il Male. «Guardatemi – sembra dire – sono un paladino vestito da pipistrello che fotte di paura le persone, come posso dire che il mondo è buono o cattivo?». Nel mondo di Gotham i concetti assoluti di bene e male non esistono, non nel senso olistico del termine che si mischiano e si bilanciano, ma piuttosto nietzschianamente sono concetti alla stregua di giudizi di valore, etichette che non dicono nulla di più di uno stato di cose che resta indistinto: al di là del bene e del male (ovvero al di qua del mondo) c’è il caos che genera casualmente azioni degne di essere chiamate buone o cattive. E poi c’è Batman.