«Per millenni l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate e odori stagnanti. Ha imparato a fiutare, registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come fili di bava.
Ciò che caratterizza questo sapere è la capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente. Si può aggiungere che questi dati vengono sempre disposti dall’osservatore in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa, la cui formulazione più semplice potrebbe essere “qualcuno è passato di là”. Forse l’idea stessa di narrazione (distinta dall’incantesimo, dallo scongiuro o dall’invocazione) nacque per la prima volta in una società di cacciatori, dall’esperienza della decifrazione delle tracce. Il fatto che le figure retoriche su cui s’impernia ancora oggi il linguaggio della decifrazione venatoria – la parte per il tutto, l’effetto per la causa – siano riconducibili all’asse prosastico della metonimia, con rigorosa esclusione della metafora, rafforzerebbe questa ipotesi – ovviamente indimostrabile. Il cacciatore sarebbe stato il primo a raccontare una storia perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi».
Carlo Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 2013, pp. 166-167
«Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos’altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell’alba, che cerca fra la polvere della selva le tracce di un’antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo. Questo è la scienza.
La confusione fra queste due attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è l’origine dell’incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l’antilope cacciata all’alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l’antilope possiamo mangiare».
Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Torino 2014, pp. 74-75
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Il fatto non è che una certa cultura contemporanea, facendo confusione tra traccia e racconto, sia diffidente verso la scienza, ma al contrario che è la forzata, e inconsistente, distinzione che la scienza fa tra traccia e racconto a far insospettire una certa cultura contemporanea. Quella forzata separazione alla nascita tra indizio scientifico e ricostruzione indiziaria, tra racconto (scientifico) e magia.
Sono entrambe la stessa cosa. Rovelli fa la classica distinzione tra scienza e mito, per arrivare a dire che è il racconto di cose reali che ti porta a cacciare l’antilope e sopravvivere, mentre il mito del dio antilope non ti sfamerà. Una polemica bell’e buona, un’ubriacatura illuministica, quando si sa che il mito è la cristallizzazione di un racconto ad uso immediato. Si pensi al tabù dell’incesto, che vieta l’accoppiamento tra consanguinei sulla base del fatto (scientifico, ovvero basato sull’esperienza) che farlo non genera prole in salute. L’ingenuità sta nel fatto che il tabù è criticabile perché storicamente Edipo Re non è mai esistito. Però l’atomo esiste, eh.
Ho voluto mettere a confronto due citazioni complementari dello storico Ginzburg e dello scienziato Rovelli, per mostrare le insicurezze della divulgazione scientifica, di come a volte, nella sua missione di “educare alla ragione”, si arrovelli in autodistinzioni di sorta volte a sottolineare la sua novità, in uno slancio che non è che un rimasuglio positivistico. Dove lo storico Ginzburg dà per scontata l’inutilità di una distinzione netta tra linguaggio magico e scientifico, lì lo scienziato divulgativo Rovelli si arrovella in distinzioni capziose.
Si sa che tra magia e racconto (scientifico) c’è una differenza. La prima è una formula utile per se stessa, il secondo è il riferire ciò che si è visto. La magia proferisce su un evento che accade nel dirlo (“vi dichiaro marito e moglie”, “scudo energetico”), il racconto proferisce su un evento accaduto indipendentemente dal fatto che lo si racconti o meno. Ma entrambe, magia e scienza, fanno parte di una stessa classe: quella indiziaria, dell’indicare cose con le parole, il linguaggio. Questo è quello che sfugge alla scienza divulgativa, e che dovrebbe invece divulgare. Nella sua ansia da prestazione, vuole distinguere fra genere e genere, senza rendersi conto che ha a che fare con lo stesso genere. Ha paura di far parte della realtà artificiale del linguaggio. Ha paura di essere un sapere tra gli altri, un sapere storico. Paura giustificata dal pregiudizio secondo il quale ammettendo l’aspetto magico della scienza crolli l’impalcatura razionalistica.
Ginzburg, e tanti altri prima e dopo di lui, ci mostrano come la dialettica magia-scienza non è tra irrazionalità e razionalità. La distinzione è a monte. La storia della scienza ci mostra che la ragione è un modo per indicare i progressi di un procedere a tentoni, a passi falsi, uno strumento che, quando ha raggiunto il suo obiettivo, la scoperta, illumina retroattivamente un cammino alla cieca. Lo scrittorefilosofoparapsicologo (come lo chiama wikipedia, cioè divulgatore) Arthur Koestler chiama “sonnambuli” gli scienziati più importanti degli ultimi secoli.
Inventare racconti, seguire tracce, formulare ipotesi, sperimentare teorie, raccogliere le prove, trovare il colpevole, ricostruire civiltà sulla base delle rovine. Ma anche immaginare mondi, raccontare favole, formulare incantesimi, maledire, promettere e supplicare. Tutto questo rientra in uno stesso gioco, di cui lo stesso Rovelli è consapevole: scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguirne le tracce. È l’arte venatoria, l’arte della caccia, l’arte indiziaria. Che sia scienza o letteratura, conoscenza certa o approssimazione metaforica, si tratta sempre di un oscuro scrutare. Che ti riferisca agli elementi atomici, alla gravità, al funzionamento termodinamico del calore, o alla realtà invisibile delle anime che popolano animali e cose, si tratta sempre di parlare di cose che non esistono, che non sono qui, visibili, di cui ci si può solo limitare a parlarne, il che non è poco, visto che si può, parlandone, arrivare a costruirci una teoria.
Che questa paura della scienza divulgativa di essere contagiata dalla magia sia immotivata lo si vede dal fatto che anch’essa usa formule magiche: le equazioni. Scaccia la magia dalla porta per farla rientrare neanche dalla finestra, ma di nuovo dalla porta principale. Buttate in un testo divulgativo, tra un capoverso e l’altro, le formule algebriche sono lì proprio per attestare l’ignoranza di chi legge e la sapienza di chi scrive. Alla faccia della divulgazione! Accompagnate da un “lo so che non significa niente per voi, ma osservatene la bellezza”, le equazioni sono le nuove formule magiche: solo pochi possono capirle, ma tutti ne intuiscono la bellezza-semplicità.
Sì, è vero, le formule funzionano. Le equazioni sono fondamentali per costruire i palazzi. Ma la scienza divulgativa deve sapere che nel momento in cui comunica in questo modo, alludendo a enunciati simbolico-numerici che non può spiegare, pena la fine del testo divulgativo, non è più quella forma di sapere aperto a tutti – quella ragione naturale che tutti adoperano in modo universale -, ma proprio quel sapere ermetico, dogmatico, che combatte. La divulgazione scientifica affascina perché è emancipatrice, come ogni spiegazione, come la ragione. Sapere aude! Nello spiegarti semplicemente cose complicate, allude inevitabilmente a un sapere esotico, indiziario, elitario, speciale, inconoscibile, e insieme accessibile: emancipante! Ma il divulgatore, forse perché deve spiegare tutto e non lasciare nulla insoluto, ha paura di ammettere questa proprietà della conoscenza stessa: il conoscibile include, nella sua struttura, l’inconoscibilità. Siamo tutti d’accordo che la scienza esplora e scopre. E se finisse per spiegare TUTTO, cosa resterebbe? Il nulla, la morte. La scienza, e questo è il mantra della divulgazione, si limita ad allungare l’orizzonte del conoscibile all’infinito. Però nello stesso tempo la divulgazione ci tiene a distinguersi dal linguaggio metaforico, allusivo, magico, delle altre scienze, quando poi ci tiene ad utilizzare la metafora più adatta (e fuorviante) per spiegare gli eventi più violenti dell’universo.
La scienza divulgativa è combattuta tra la buona novella della spiegazione chiara per tutti e quel sapere esclusivo che solo pochi possono capire. Questo genera un’insicurezza di fondo che la porta a volersi distinguere da tutte le altre scienze, dalla letteratura, dalla psicoanalisi. Ossessionata dal terrore per l’irrazionalità, commette disastri, portando a esempio della potenza della scienza gli strumenti terribili della tecnica: la scienza accumula dati come nessuno, e questo sarebbe meraviglioso. Mappa i geni, mappa il cervello di piccoli mammiferi, e questo sarebbe promettente per l’umanità. Per farci cosa, non si sa. Un accumulare che non ricorda la serena osservazione del cielo galileiano, la mendeliana conta dei piselli, quanto piuttosto quei metadati di cui la National Security Agency non sa che farsene, finché non gli servono. La scienza divulgativa è ubriacata di illuminismo, scaccia la fede e nutre un’incrollabile fede per la conoscenza certa, inorridisce del trascendente per glorificare la ragione come un organo che trascende l’apparenza delle cose.
Su questo Piero Angela ha una marcia in più. Poiché ha nel sangue la missione educativa della Rai, non perde di vista l’obiettivo. Non ha l’arduo compito di educare gente laureata, a differenza dei grandi divulgatori da best-seller mondiali. Vola basso, senza mostrare formule, senza vantarsi della difficoltà delle spiegazioni, senza distinzioni forzate tra sé e tutte le altre scienze. Una distinzione che riflette, alla fine, distinzioni di classe (tanto lo studio delle equazioni quanto la formula magica, tanto la conoscenza scientifico-matematica quanto quella esoterica, richiedono tempo libero per studiare e reddito per mantenersi). La scienza di Piero Angela è emancipatrice, quella di Rovelli o di Hawking no.
I divulgatori partono dal presupposto che “tutte le intelligenze sono uguali” (Rancière), che tutti, se usassero la disarmante semplicità della spiegazione razionale, potrebbero comprendere tutto, anche le ingiustizie. Ma Rovelli & Co. si arrovellano in autodistinzioni di sorta, mentre Piero Angela ammette i limiti del potente strumento della ragione, rimandando alle generazioni future la comprensione di ciò che oggi non possiamo sapere, piuttosto che alludendo a formule che capiscono un pugno di persone. La comunicazione scientifica dei grandi best-seller rifugge inorridita l’irrazionalità, per ammaliarsi del conflitto tra teoria della relatività e modello standard, il cui simbolo, come un geroglifico magico, è il buco nero. Divulgare significa far sapere quello che si sa a quante più persone possibili, e per farlo bisogna giocare esattamente con l’ambiguità magica della scienza. Come il cristianesimo, che per essere il più popolare possibile ha dovuto sacrificare un po’ di monoteismo per abbracciare i riti pagani dei loro fedeli.
Bravissimo! Il filo sottile dell’ombra… fra il mito e la scienza… la divulgazione età in mezzo. Accarezzo l’uno e tratta dell’altro. E l’uomo ha sempre avuto bisogno di entrambi. E’ questo che giustifica l’esistenza stessa dell’Uomo. Il sogno.