I criminali sono buoni o cattivi?

Jonathan Banks e Mark Proksch in

Jonathan Banks e Mark Proksch in “Pimento”, Better Call Saul S01E09

«La morale è che sei vuoi fare il criminale, devi studiare»

«Aspetta, io non sono uno dei cattivi…»

«Non ho detto che sei uno dei cattivi, ho detto che sei un criminale»

«Qual è la differenza»

«Ho conosciuto bravi criminali e cattivi poliziotti. Pessimi preti, ladri onorevoli. Puoi decidere da quale parte della legge stare, ma se fai affari con qualcuno, devi mantenere la tua parola. Te ne puoi andare a casa con i tuoi soldi, e non rifarlo mai più, ma tu hai preso qualcosa che non ti apparteneva, e l’hai venduta per un profitto. Ora sei un criminale. Buono, cattivo, spetta a te»

Jonathan Banks e Mark Proksch in una scena di Pimento, Better Call Saul, S01E09.

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La morale e la legge sono come le patatine fritte e la nutella. Sono buone, sono cibo, ad alti dosaggi fanno male (moralismo e legalità), ma soprattutto non vanno mischiate. Giorgio Agamben, promessa della giurisprudenza prima di incontrare gli strutturalisti francesi, ha inventato un concetto che rende l’idea di questa incongruenza tra legge, norma e regola da una parte, e tra moralità, etica e bontà dall’altro: inoperosità.

La legge è inoperosa. Che significa? Che il diritto, nel quale la legge opera, da qualche secolo a questa parte non è più un’emanazione (di dio, della natura) ma soltanto una decisione degli uomini. Il reato, dice l’abc della giurisprudenza, è un fatto suscettibile di pena, la pena una condanna conseguente a un reato, e il cerchio si chiude. La legge gira a vuoto su sé stessa, opera sul piano della decisione tra ciò che è legale e illegale, non più su un’oggettiva condotta retta, morale.

Agamben ci insegna che la legge è l’esercizio di un potere che si esplica in due atti: inclusione ed esclusione. La particolarità di questo duplice gesto è nell’atto di esclusione, che non è propriamente un’esclusione ma sempre un’inclusione. Sembra un’espressione alla Derrida, ma il discorso è facile. È l’enigma di San Paolo. Se tutti rispettassimo la legge, se fossimo tutti all’interno della sfera del diritto, la legge non servirebbe più a nulla. La legge in una società ideale giusta è un controsenso: una società che rispetta integralmente la legge fa sparire ogni necessità di qualsiasi legge. (Da qui l’intuizione di Hobbes di ritenere che l’uomo è un cazzimoso lupo solitario che deve essere imbrigliato nell’ordinamento del diritto. “Egli non sa cos’è l’amore” commenterebbe San Paolo).

È necessario che ogni tanto la legge venga violata, altrimenti come esercitare il diritto? La conseguenza è che la lotta contro una legge ingiusta non deve configurarsi propriamente come una lotta contro la legge, perché è proprio quello che la legge vuole. È come la melma di Ghostbuster II, più ti arrabbi meglio è, per lei. I fought the law, the law won.

La grande scoperta della teoria del diritto dell’ultimo paio di secoli è che l’illegalità non è in opposizione alla legalità, ma la sua cosa più propria. L’esterno, ciò che è illegale, fa parte della legge, ne definisce il contorno. È norma, è prassi per la legge, tanto rispettarla quanto violarla. È sadica, ti chiede di violarla, fa la faccia brutta se lo fai ma fondamentalmente ha bisogno di criminali. Come dice la psicoanalisi e una dozzina di libri di Žižek, la legge è come il Super-io: vuole sempre più di quello che puoi dargli e gode nel vederti fallire. Ciò che bandisce, gli appartiene. Si determina così una soglia labile tra legale e illegale, è la ragione per cui le leggi col tempo cambiano, per cui un’azione può andare contro la legge in un periodo storico e in un altro no. Per questo legiferare sui “diritti dell’uomo” è tremendo, perché così l’umano viene insieme incluso ed espulso dallo stato di diritto, assumendo l’inclusione di un uomo e l’espulsione di un non-uomo: avremo sempre bisogno di barbarie, altrimenti come esercitare i “diritti dell’uomo”? I diritti umani sono il rovescio perverso delle leggi razziali.

Ciò che ci mostrano Tony Soprano, Walter White, Mike Ehrmantraut, è che una società fatta di persone che confondono norma e moralità, è una società destinata alla distopia. È una società di automi, morta, quella che crede che si possa rispettare integralmente la legge. Fare la cosa giusta non è sempre il rispetto delle regole. È il quieto vivere, ma il rischio è di ritrovarsi a mangiare nutella spalmata sulle San Carlo dicendoti quanto è buona. Eichmann adorava farlo, eseguiva ordini, giusto?

Perfino il grado zero di moralità, quella utilitarista di Mike (che tu sia criminale o no, quando fai affari devi mantenere la parola) è già fuori dalla legge. La peggiore morale che tu possa immaginare, quella dei buoni affari, ha già quella dignità che qualifica la bontà di un uomo d’onore. La legge non potrà mai darti questa dignità. È ridicola la rispettabilità di un uomo che si limita a rispettare la legge. Il piano di azione morale può coincidere con quello del diritto, possono fare qualche volta un po’ di strada assieme, ma non condividono più lo stesso campo. Si rispetta la legge perché per mettere ordine alle cose non abbiamo di meglio. Si rispetta la legge perché conviene, non perché sia giusto.

Che cos’è un racconto?

Sciamano delle Ande

Lo sciamano don Sergio, Ande

«Le fasi più antiche della storia vengono distinte tradizionalmente in base alla materia degli utensili adoperati: pietra, ferro, bronzo. Si tratta di una classificazione convenzionale, basata su elementi esterni. Ma è stato osservato che l’uso di utensili, per quanto decisivo, non contraddistingue in maniera specifica la specie umana. Anche se in misura molto limitata, esso è condiviso da altre specie animali. Solo la specie umana, invece, ha l’abitudine di raccogliere, produrre, ammassare o distruggere oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare: offerte agli dei o ai morti, suppellettili funerarie sepolte nelle tombe, reliquie, opere d’arte o curiosità naturali conservate in musei o collezioni. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori (come sono stati definiti) hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio o nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi – morti, antenati, divinità. La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione di un’assenza […].

Si potrebbe essere tentati di riproporre la vecchia tesi che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, che l’individuo ripercorre nella sua crescita le tappe percorse dalla specie umana. L’osservazione del presente consentirebbe allora di afferrare un passato altrimenti inattingibile. Nel gesto del bambino di diciotto mesi, che (forse) rivive le reazione suscitate dall’assenza e dal ritorno della madre gettando lontano da sé un rocchetto avvolto in un filo, per ritrovarlo gioiosamente subito dopo, si è riconosciuto un modello di ripetizione simbolica, controllata e non coatta, del passato. Ma è lecito cercare le radici del simbolismo mitico-rituale nella psicologia infantile?
Ammettiamo pure che il bambino usi il rocchetto come un semioforo; che il rocchetto designi la madre, sia la madre. Un esempio basterà a illustrare le potenzialità e i limiti dell’analogia tra individuo e specie. L’uso di raccogliere le ossa degli animali uccisi per farli resuscitare è certamente molto antico. Proviamo a supporre una specie animale che tragga buona parte dei propri mezzi di sussistenza dall’uccisione di altre specie animali, vertebrate, reperibili in quantità non illimitata. Ci sono forti probabilità che questa specie finisca prima o poi con l’utilizzare le ossa degli animali uccisi come semiofori.
Bisogna però che alle condizioni già ricordate se ne aggiunga un’altra, decisiva: la specie in questione deve disporre già di quelle capacità simboliche che attribuiamo in maniera esclusiva alla specie homo sapiens. Con ciò il cerchio si chiude. L’origine ci è, per definizione, preclusa […].

Certa invece è la somiglianza profonda che lega i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà. Questo nucleo narrativo elementare ha accompagnato l’umanità per millenni. Le innumerevoli variazioni introdotte da società diversissime, basate sulla caccia, l’allevamento, l’agricoltura, non ne hanno modificato la struttura di fondo. Perché questa permanenza? La risposta è forse semplicissima. Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice di tutti i racconti possibili».

Carlo GinzburgStoria notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, pp. 244-245 e 288-289.

La cosmogonia di Ceram

Un disegno di albero di banana

Un disegno di albero di banana

Secondo un mito sulle origini del genere umano raccolto nell’isola di Ceram (Molucche) la pietra voleva che gli uomini avessero un braccio solo, una gamba sola, un occhio solo, e fossero immortali; l’albero di banane, che avessero due braccia, due gambe, due occhi, e fossero capaci di generare. Nella disputa l’albero di banane ebbe la meglio: ma la pietra pretese che gli uomini fossero soggetti alla morte.

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, p. 223.

Lupi mannari

Nabucodonosor si trasforma in bestia, incisione su una Bibbia del XVIII secolo

Nabucodonosor si trasforma in bestia, incisione su una Bibbia del XVIII secolo

A Jürgensburg, in Livonia, nel 1692, un vecchio di ottant’anni di nome Thiess, che i compaesani consideravano un idolatra, confessò ai giudici che l’interrogavano di essere un lupo mannaro. Tre volte all’anno, disse, nelle notti di santa Lucia prima di Natale, di san Giovanni e della Pentecoste, i lupi mannari della Livonia vanno nell’inferno, «alla fine del mare» (più tardi si corresse: «sottoterra») per battersi contro il diavolo e gli stregoni. Anche le donne combattono contro i lupi mannari: non però le ragazze. I lupi mannari tedeschi si recano in un inferno separato. Simili a cani (sono i cani di Dio, disse Thiess) i lupi mannari inseguono, armati di fruste di ferro, il diavolo e gli stregoni, armati di manici di scopa avvolti in code di cavallo. Anni prima, spiegò Thiess, uno stregone (un contadino di nome Skeistan, ora morto) gli aveva rotto il naso. La posta delle battaglie era la fertilità dei campi: gli stregoni rubano i germogli del grano, e se non si riesce a strapparglieli viene la carestia. Quell’anno però sia i lupi mannari livoni sia quelli russi avevano vinto. Il raccolto di orzo e di segale sarebbe stato abbondante. Ci sarebbe stato anche pesce per tutti.

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, p. 130.

(Immagine via)

L’antica usanza di insultare la madre

Papa Francesco

Papa Francesco

In volo tra lo Sri Lanka e le Filippine, il 15 gennaio Papa Francesco ha fatto una specie di seduta di catechismo in aeroplano. Una cosa che i papi hanno fatto raramente (non credo Ratzinger l’abbia mai fatta, Giovanni Paolo II sono certo sarà stato il primo) ma che Bergoglio sta invece inaugurando come un’abitudine. Parlare del più e del meno in aeroplano con giornalisti e colleghi religiosi, dissertare sull’attualità, con la differenza che a parlare è il Papa.

La cosa curiosa che ha detto, ripresa un po’ da tutti, e in un linguaggio degno del miglior catechismo di paese, è che se qualcuno gli insulta la madre si merita un pugno.

Chissà cosa avrà voluto dire. Forse che Zidane, alla fine, ha fatto bene a chiavare una testata a Materazzi. Chi lo sa. In ogni caso, quello che Bergoglio dovrebbe sapere è che l’usanza di insultare la madre è un’antica usanza, tutt’altro che spregevole. Tecnicamente si chiama flyting, o fliting. Lo facciamo dalle medie ed è un’attività formativa tra i puberali in odore di adolescenza, soprattutto maschi. Insegna alla leggerezza e all’ironia. Se avessi tirato un pugno a chi insultava mia madre sarei stato preso per un pazzo violento.

Non bisogna tirare pugni, Bergoglio. Bisogna rispondere per le rime, è questo che ti insegnano alle scuole medie quando si mette in mezzo la madre.

Stiamo parlando di un’usanza antica, vecchia come il tempo. Walter J. Ong, nel suo classico Oralità e scrittura, racconta che negli Stati Uniti i ragazzi originari dei Caraibi organizzavano (o organizzano tutt’ora, chi lo sa) dei match verbali a suon di insulti materni. Roba seria, una specie di contest hip-hop con i genitali delle madri degli altri al posto delle rime. Si chiama dozens, joning, o sounding.

Musica(lità) e oralità

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«L’interazione diretta con il pubblico può influire sulla stabilità verbale: le aspettative del pubblico possono infatti contribuire a fissare temi e formule. Ho visto confermata l’importanza delle aspettative in una mia esperienza personale. Alcuni anni fa stavo raccontando la storie dei “Tre Porcellini” a una mia nipotina, ancora abbastanza piccola da conservare una mentalità orale nonostante l’ambiente letterato circostante. A un certo punto dissi: “Egli soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffo”. Cathy si arrabbiò per la formula che avevo usato. Lei conosceva bene la storia, e la mia formula non era quella che si aspettava. Esclamò imbronciata: “Egli soffiò e sbuffò, e sbuffò soffiò, e soffiò e sbuffò”. Io modificai la mia narrazione, accondiscendendo alle richieste del mio pubblico, come spesso hanno fatto altri narratori orali».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 113.

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L’oralità, essendo suono, non ha la possibilità di concretizzarsi visivamente, per cui il processo di memorizzazione segue un percorso diverso rispetto alla scrittura. Ricordare ciò che si ascolta richiede ridondanza, invece ciò che è scritto non va necessariamente ricordato, basta riprendere in mano il testo (da qui l’invettiva di Platone contro il pharmacon della scrittura).

Perciò, come per la musica, la formula orale deve accontentare due elementi: ritmo e armonia, che sommati insieme danno eleganza. “Sbuffò” e “soffiò” sono parole che si ripetono tre volte ciascuna, e ciascuna viene ripetuta consecutivamente alla fine e all’inizio della frase successiva, rendendo più facile la memorizzazione di tre sequenze che somigliano a un accordo: alla formula “sbuffò e soffiò” ne seguono due che iniziano con l’ultima parola pronunciata. Tutte e tre esauriscono la combinazione possibile di due parole. Totale: tre formule, con la terza che ripete la prima: armonia.

Nonno Ong ripeteva in modo meccanico e uguale la stessa sequenza rendendone difficile la memorizzazione: tanto vale ripeterlo una volta sola, come se fosse scritto. Ripeterlo tre volte, uguale, a voce, sarebbe la cacofonia della musica mistica, o dance, che è funzionale allo sballo, quando qui siamo di fronte alla lirica di un racconto che deve trasportare l’immaginazione più che il corpo. Cathy, come ogni racconto insegna, desidera qualcosa di armonioso e ritmico.

Cultura orale

«All’estremo nord, dove c’è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta all’estremo nord e lì c’è sempre la neve. Di che colore sono gli orsi lì?»
«Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti. Ogni località ha i suoi animali».
«Stando alle vostre parole, tutti gli orsi devono essere bianchi».

«Spiegate cos’è un albero».
«Perché dovrei, tutti sanno che cos’è un albero, non c’è bisogno che glielo dica io».
«E come potreste definirlo in due parole?».
«In due parole, melo, olmo, pioppo».

«Se arrivaste in un posto dove non ci sono auto, cosa direste alla gente per spiegare che cosa esse sono?».
«Direi che hanno quattro zampe, delle sedie davanti per mettersi a sedere, un tetto per ripararsi e un motore. Ma poi direi: se ci sali per farci un giro, scoprirai cos’è».
«È fatta in fabbrica. In un solo viaggio può percorrere la distanza che un cavallo percorrerebbe in dieci giorni, tanto va in fretta. Cammina con l’aiuto del fuoco e del vapore. Si accende il fuoco, così l’acqua bolle e si trasforma in vapore, il vapore dà forza alla macchina. Non so se ci sia l’acqua in un’auto, ma ce ne deve essere. L’acqua non basta però, ci vuole anche il fuoco».

«Che uomo siete, com’è il vostro carattere, che qualità e che difetti avete, come vi descrivereste?».
«Sono venuto qui dall’UchKurgan, ero molto povero, adesso mi sono spostato e ho dei bambini».
«Ma che difetti avete?».
«Quest’anno ho seminato un pud di grano, e un po’ alla volta correggeremo i difetti».

«Che tipo di persona sei?»
«Cosa posso dire del mio cuore? Come posso parlare del mio carattere? Chiedete agli altri, loro possono dirvi di me, non io».

Domande su persone a bassa alfabetizzazione in Uzbekistan e Kirghizia, anni 1931-32. Aleksandr Romanovič LurijaStoria sociale dei processi cognitivi, Giunti-Barbera, Firenze 1976, pp. 99 ss, in Walter J. OngOralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 99 ss.

L’antica usanza di insultare la madre

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«Vantarsi del proprio coraggio e/o irridere il nemico sono atti che regolarmente ricorrono nella narrativa: nell’Iliade, nel Beowulf, nelle storie cavalleresche medievali europee, nell’Epica di Mwindo e in innumerevoli altri racconti africani, nella Bibbia. Comune a tutte le società a cultura orale di tutto il mondo è l’insulto reciproco, denominato flyting o fliting dai linguisti.
Cresciuti in una cultura ancora prevalentemente orale, alcuni giovani neri degli Stati Uniti, dei Caraibi e di altri luoghi si impegnano in ciò che nel gergo dei neri è chiamato dozensjoning, o sounding, un gioco, in cui ogni partecipante tenta di superare gli altri nell’insultarne la madre».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 90.