L’antica usanza di insultare la madre

Papa Francesco

Papa Francesco

In volo tra lo Sri Lanka e le Filippine, il 15 gennaio Papa Francesco ha fatto una specie di seduta di catechismo in aeroplano. Una cosa che i papi hanno fatto raramente (non credo Ratzinger l’abbia mai fatta, Giovanni Paolo II sono certo sarà stato il primo) ma che Bergoglio sta invece inaugurando come un’abitudine. Parlare del più e del meno in aeroplano con giornalisti e colleghi religiosi, dissertare sull’attualità, con la differenza che a parlare è il Papa.

La cosa curiosa che ha detto, ripresa un po’ da tutti, e in un linguaggio degno del miglior catechismo di paese, è che se qualcuno gli insulta la madre si merita un pugno.

Chissà cosa avrà voluto dire. Forse che Zidane, alla fine, ha fatto bene a chiavare una testata a Materazzi. Chi lo sa. In ogni caso, quello che Bergoglio dovrebbe sapere è che l’usanza di insultare la madre è un’antica usanza, tutt’altro che spregevole. Tecnicamente si chiama flyting, o fliting. Lo facciamo dalle medie ed è un’attività formativa tra i puberali in odore di adolescenza, soprattutto maschi. Insegna alla leggerezza e all’ironia. Se avessi tirato un pugno a chi insultava mia madre sarei stato preso per un pazzo violento.

Non bisogna tirare pugni, Bergoglio. Bisogna rispondere per le rime, è questo che ti insegnano alle scuole medie quando si mette in mezzo la madre.

Stiamo parlando di un’usanza antica, vecchia come il tempo. Walter J. Ong, nel suo classico Oralità e scrittura, racconta che negli Stati Uniti i ragazzi originari dei Caraibi organizzavano (o organizzano tutt’ora, chi lo sa) dei match verbali a suon di insulti materni. Roba seria, una specie di contest hip-hop con i genitali delle madri degli altri al posto delle rime. Si chiama dozens, joning, o sounding.

Musica(lità) e oralità

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«L’interazione diretta con il pubblico può influire sulla stabilità verbale: le aspettative del pubblico possono infatti contribuire a fissare temi e formule. Ho visto confermata l’importanza delle aspettative in una mia esperienza personale. Alcuni anni fa stavo raccontando la storie dei “Tre Porcellini” a una mia nipotina, ancora abbastanza piccola da conservare una mentalità orale nonostante l’ambiente letterato circostante. A un certo punto dissi: “Egli soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffo”. Cathy si arrabbiò per la formula che avevo usato. Lei conosceva bene la storia, e la mia formula non era quella che si aspettava. Esclamò imbronciata: “Egli soffiò e sbuffò, e sbuffò soffiò, e soffiò e sbuffò”. Io modificai la mia narrazione, accondiscendendo alle richieste del mio pubblico, come spesso hanno fatto altri narratori orali».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 113.

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L’oralità, essendo suono, non ha la possibilità di concretizzarsi visivamente, per cui il processo di memorizzazione segue un percorso diverso rispetto alla scrittura. Ricordare ciò che si ascolta richiede ridondanza, invece ciò che è scritto non va necessariamente ricordato, basta riprendere in mano il testo (da qui l’invettiva di Platone contro il pharmacon della scrittura).

Perciò, come per la musica, la formula orale deve accontentare due elementi: ritmo e armonia, che sommati insieme danno eleganza. “Sbuffò” e “soffiò” sono parole che si ripetono tre volte ciascuna, e ciascuna viene ripetuta consecutivamente alla fine e all’inizio della frase successiva, rendendo più facile la memorizzazione di tre sequenze che somigliano a un accordo: alla formula “sbuffò e soffiò” ne seguono due che iniziano con l’ultima parola pronunciata. Tutte e tre esauriscono la combinazione possibile di due parole. Totale: tre formule, con la terza che ripete la prima: armonia.

Nonno Ong ripeteva in modo meccanico e uguale la stessa sequenza rendendone difficile la memorizzazione: tanto vale ripeterlo una volta sola, come se fosse scritto. Ripeterlo tre volte, uguale, a voce, sarebbe la cacofonia della musica mistica, o dance, che è funzionale allo sballo, quando qui siamo di fronte alla lirica di un racconto che deve trasportare l’immaginazione più che il corpo. Cathy, come ogni racconto insegna, desidera qualcosa di armonioso e ritmico.

Cultura orale

«All’estremo nord, dove c’è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta all’estremo nord e lì c’è sempre la neve. Di che colore sono gli orsi lì?»
«Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti. Ogni località ha i suoi animali».
«Stando alle vostre parole, tutti gli orsi devono essere bianchi».

«Spiegate cos’è un albero».
«Perché dovrei, tutti sanno che cos’è un albero, non c’è bisogno che glielo dica io».
«E come potreste definirlo in due parole?».
«In due parole, melo, olmo, pioppo».

«Se arrivaste in un posto dove non ci sono auto, cosa direste alla gente per spiegare che cosa esse sono?».
«Direi che hanno quattro zampe, delle sedie davanti per mettersi a sedere, un tetto per ripararsi e un motore. Ma poi direi: se ci sali per farci un giro, scoprirai cos’è».
«È fatta in fabbrica. In un solo viaggio può percorrere la distanza che un cavallo percorrerebbe in dieci giorni, tanto va in fretta. Cammina con l’aiuto del fuoco e del vapore. Si accende il fuoco, così l’acqua bolle e si trasforma in vapore, il vapore dà forza alla macchina. Non so se ci sia l’acqua in un’auto, ma ce ne deve essere. L’acqua non basta però, ci vuole anche il fuoco».

«Che uomo siete, com’è il vostro carattere, che qualità e che difetti avete, come vi descrivereste?».
«Sono venuto qui dall’UchKurgan, ero molto povero, adesso mi sono spostato e ho dei bambini».
«Ma che difetti avete?».
«Quest’anno ho seminato un pud di grano, e un po’ alla volta correggeremo i difetti».

«Che tipo di persona sei?»
«Cosa posso dire del mio cuore? Come posso parlare del mio carattere? Chiedete agli altri, loro possono dirvi di me, non io».

Domande su persone a bassa alfabetizzazione in Uzbekistan e Kirghizia, anni 1931-32. Aleksandr Romanovič LurijaStoria sociale dei processi cognitivi, Giunti-Barbera, Firenze 1976, pp. 99 ss, in Walter J. OngOralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 99 ss.

L’antica usanza di insultare la madre

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«Vantarsi del proprio coraggio e/o irridere il nemico sono atti che regolarmente ricorrono nella narrativa: nell’Iliade, nel Beowulf, nelle storie cavalleresche medievali europee, nell’Epica di Mwindo e in innumerevoli altri racconti africani, nella Bibbia. Comune a tutte le società a cultura orale di tutto il mondo è l’insulto reciproco, denominato flyting o fliting dai linguisti.
Cresciuti in una cultura ancora prevalentemente orale, alcuni giovani neri degli Stati Uniti, dei Caraibi e di altri luoghi si impegnano in ciò che nel gergo dei neri è chiamato dozensjoning, o sounding, un gioco, in cui ogni partecipante tenta di superare gli altri nell’insultarne la madre».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 90.