Free Solo è un documentario del 2018 diretto dagli statunitensi Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi, coppia nel lavoro e nella vita. Lei è una documentarista, lui un climber professionista che ha scalato montagne in Pakistan, Tibet, più volte l’Everest. Prima di Free Solo, insieme hanno realizzato Meru (2015), la storia della scalata di Chai del monte Meru, ostica montagna dell’Himalaya indiana con picchi da oltre 6 mila metri.
Free Solo (Oscar 2019 per il miglior documentario) racconta la storia dell’arrampicata di El Capitan, montagna di 2,307 metri del parco nazionale di Yosemite, in California, da parte dello scalatore di Sacramento Alex Honnold, nel giugno 2017. Una scalata unica nel suo genere perché realizzata in free solo, senza alcuna assicurazione, ovvero corde, imbragature e qualsiasi altra protezione. Honnold ha affrontato un big wall, la scalata di una parete molto alta, che può richiedere anche giorni – ma con imbracature, caschi, cibo, tende e quant’altro. Il grado di difficoltà della parete scalata da Honnold è classificato come 5.12d VI, ovvero richiede un livello massimo dei requisiti tecnici (la casse 5 è la più alta) e un tempo di ascesa di più giorni (VI). Honnold è asceso per quasi mille metri, quindi partendo circa a metà montagna, in 3 ore e 56 minuti senza neanche una borraccia, solo con i vestiti, le scarpe e una sacca di magnesio.
Per realizzare il documentario sono state affrontate sfide non da poco: come non distrarre Honnold, rischiando di farlo cadere; come registrare i suoni di un’arrampicata a decine di metri di distanza, cosa che ha richiesto il coinvolgimento di un tecnico del suono, Jim Hurst (No Man’s Land).
«Nel corso della storia, eravamo ossessionati dalla possibilità che la nostra presenza, ogni volta che accendevamo le telecamere, potesse metterlo in pericolo», racconta Vasarhelyi. «Il giorno della scalata ogni singola persona sapeva esattamente quali riprese avrebbero dovuto ottenere», racconta Chin, «quanto saremmo dovuti stare lontani l’un l’altro, come ci saremmo mossi, quando ci sarebbero state le riprese più importanti e quando ci potevamo riposare. Era molto chirurgico».
Free solo è un racconto su un’arrampicata straordinaria, incomparabile, irripetibile, e anche una storia su come riprendere un’arrampicata di questa portata.
Segue il resoconto di una chiacchierata su whatsapp tra Giuseppe Sasso, avvocato e atleta amatoriale, e Paolo Bosso, giornalista autore di questo blog. Abbiamo riflettuto sul significato dell’impresa di Honnold, su cosa possa insegnarci questo gesto straordinario. I suoi limiti, i suoi pregi.

Vasarhelyi e Chin sul set di Free Solo (National Geographic/Chris Figens)
Giuseppe «Free solo non mi ha convinto. Partendo dal presupposto che si tratta di una grande impresa, e rappresenta un grande gesto atletico, ci sono delle cose che non mi hanno convinto. Innanzitutto Alex Honnold è poco comunicativo, non mi piace, le sfaccettature della sua personalità sono carenti, è un animale: affettivamente arido. Il problema di fondo è che questa grande impresa sportiva non è frutto di un ragionamento, di un sistema organizzato, non si basa tanto sulla forza di volontà del soggetto quanto sulla sua incoscienza. Folli come lui, al mondo, non ce ne sono, Honnold è ineguagliabile. Di conseguenza non c’è tenzone, competizione, nessuno vorrà fare quello che ha fatto lui perché nessuno farebbe un’impresa in cui un solo errore ti costa la vita. È il rovescio dell’impresa delle Coxless Crew, l’equipaggio di quattro donne che ha attraversato a remi il Pacifico (nel documentario Losing sight of shore, ndr). Non erano atlete professioniste, sono partite due volte, una ha mollato, sono state tenaci e ce l’hanno fatta. Al contrario, l’impresa di Honnold mi dice che solo un pazzo può accettare una sfida in cui non sono ammessi errori».
Paolo «È un discorso politico quello che fai: quale valore sociale, universale, può avere l’impresa di Honnold? Per lo spettatore è frustrante vedere quello che fa, nessuno lo potrà emulare, non c’è una comunità che può riconoscersi in un gesto del genere. Proviamo però a salvare qualcosa di quest’opera, qualcosa di criticabile ma comunque esemplare. Credo che stia nel suo valore estetico. Quello che fa appare sovraumano. Da un lato è inarrivabile – e qui giustamente ti chiedi cosa c’è di sano, di etico, in un’impresa del genere -, dall’altro però si tratta sempre di un atleta, quindi quello che fa gli riesce perché si allena. Allenamento che consiste nel trovare la concentrazione. Ti invito a riflettere su questo: lui è la dimostrazione di come con la concentrazione, quindi arrivando a conoscere il proprio stato mentale, si possano fare cose incredibili. Il prezzo da pagare, però, è la rinuncia al mondo: Honnold è incapace di fare qualsiasi cosa che non sia arrampicarsi. Lavorare sulla concentrazione è lavorare sull’isolamento. Il primo tentativo di scalata in free solo di El Capitan è una rinuncia, a un certo punto torna indietro, capisce che non è nello stato mentale per continuare, non è concentrato come lui sa che dovrebbe essere. Questa è una capacità notevole, e forse è l’elemento da salvare, la cosa esemplare: la grande capacità di concentrazione, di focalizzazione. Chiamiamola anche determinazione. Honnold sembra avere una qualità metafisica, estremamente individuale, che fatica ad adattarsi alla società. Si stacca da terra».
G «E bastava che un’ape gli entrasse nella manica per farlo cadere. Le grandi imprese devono farci sognare, ma devono anche essere solide, avere una base reale, come la preparazione a una gara. Qui si parla di un’impresa sportiva fine a sé stessa. Immagino che nel mondo dell’arrampicata libera ci siano tanti atleti bravi come Honnold ma non tanto pazzi da spingersi a fare una cosa del genere. Il gesto tecnico-atletico passa in secondo piano, sembra più determinante il coraggio di mettere in gioco la propria vita, in altre parole di non farsi pesare questa possibilità. Io non credo che gli scalatori del suo livello abbiano questo grado di incoscienza. Ci sarà gente più allenata e più forte di lui ma senza sindrome di Asperger, senza un’amigdala a bassa reattività, quindi incapaci di gestire un free solo di questa portata. L’incoscienza di Honnold, la scalata di El Capitan, non dà valore alla vita, e questo è sportivamente mortificante, non mi piace. Non posso qualificarla come una grande impresa atletica alla pari del record dei cento metri o del giro del mondo a piedi».
P «Facciamo qualche esempio di impresa sportiva estrema ma esemplare»
G «Quella di Felix Baumgartner. Ha rischiato la vita ma ha messo in moto un’equipe di medici e ingegneri che hanno studiato le reazioni del corpo a quelle altitudini e velocità e vestito un uomo di 43 anni che si è lanciato a quasi 40 chilometri di altezza raggiungendo una velocità di punta superiore a quella del suono. È stato una specie di cavia. Le maratone coast to coast statunitensi, le imprese di Lucio Bazzana, mostrano come il corpo non sia fatto per correre decine di chilometri al giorno. In tutti questi esempi si sperimentano limiti a vantaggio tanto della scienza che del fascino dell’impresa in sé, che diventa invitante. Il fascino dell’impresa di Honnold sta nel fatto che può morire, tutto qui. Non c’è calcolo del rischio, non ci sono piani B. Dal punto di vista atletico, del contributo tecnico all’arrampicata in sé, non fa niente di diverso da chi scalerebbe con la corda. Honnold si allena duramente, ma come per raggiungere il grado di perfezione richiesto per scalare in free solo per mille metri? In palestra, o scalando, ma con la corda, decine e decine di volte».
P «Chris Sharma, come racconta il documentario King Lines, ha girato il mondo per trovare la forma fisica e allenare la tecnica che gli ha permesso di arrampicarsi su un arco naturale in mezzo al mare. La sua impresa è uno step per l’arrampicata, un’invenzione, una cosa replicabile in altri contesti. Peter Croft, quando Honnold gli dice cosa sta per provare a fare, gli risponde che lui il free solo lo pratica, appunto, da solo, e senza dirlo a nessuno. Per due motivi: perché è la soddisfazione di un desiderio non condivisibile, una cosa intima, e poi perché non vuole far sentire in colpa nessuno dovesse cadere. Forse ho capito cosa non ci è piaciuto di Free solo: è dissacrante, mette il naso dove non dovrebbe».
G «Il primo tentativo di Honnold fallisce, guarda caso, quando sente la pressione della troupe che lo riprende. È naturale, ma mi ha mostrato anche il lato artificioso dell’impresa: quanto influisce lo sponsor, i diritti, sull’impresa? Se non c’è un effettivo contributo atletico all’arrampicata, perché si fa riprendere mentre lo fa?».
P «Diciamolo anche in termini filosofici. Manca in questa impresa l’elemento ordinario. Le grandi imprese devono far sognare, ma cos’è che ci fa sognare? Lo straordinario nell’ordinario. La trascendenza nella natura. Una spedizione scientifica che diventa un incontro ravvicinato con la morte, come sono state quelle alla scoperta dell’ultimo continente da scoprire, l’Antartide. All’inizio del Novecento la gente entrava in competizione per raggiungere il Polo Nord e il Polo Sud. Erano solo pazzi? No, ci hanno anche permesso, con le loro imprese, di conoscere l’ultimo continente rimasto, un’impresa immensa per impatto storico, culturale, tecnologico, sociale. Ci hanno lasciato un’eredità. Le imprese di Sharma, Baumgartner, Bazzana incuriosiscono scienziati e gente comune, arricchiscono la consapevolezza del mondo. Qualcosa di ordinario, una spedizione, una corsa, che incontra lo straordinario, un continente alieno».
G «Un corpo che si ribella all’allenamento».
P «È questo miscuglio di alto e basso, di ordinario e straordinario, che rende queste imprese esemplari. Un esperimento sulla muffa diventa la scoperta della penicillina. Cosa c’è di ordinario in quello che fa Honnold? Il padre aveva la sindrome di Asperger e, a giudicare dalle cose viste nel documentario, potrebbe tranquillamente essere anche lui un autistico “ad alto funzionamento”, cosa che spiegherebbe facilmente la sua altissima capacità di concentrazione. Detta così, anche quello che avevo salvato all’inizio si allontana, essendo qualcosa con cui non mi posso più misurare. Studio la chitarra e un tale controllo dello stato mentale farebbe comodo: ci riuscirei senza un po’ di Asperger? Il sacrificio di Honnold è ascetico e questo non è giusto, non è esemplare perché ogni volta che mi ci misuro fallisco. La sua impresa è sublime, kantianamente parlando: l’intelletto fatica a seguire l’immaginazione, la ragione viene in soccorso grazie all’idea che, diversamente dal concetto, riesce a comprendere le cose al di là di qualsiasi esperienza. L’impresa di Honnold, non essendo replicabile, mette in scena le virtù di una concentrazione per pochi eletti».