La filosofia del taglio

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Uno dei motivi per cui adoro leggere Giorgio Agamben sta nel fatto che il filosofo italiano struttura i suoi discorsi (in particolare la serie degli Homo sacer) su una bibliografia che non potrò mai affrontare, quella religiosa. In più Agamben è un filosofo vivente e italiano: contemporaneità+lingua madre, che vuoi di più. Ma più di tutto, adoro leggere Agamben perché il professore amico di Morante e Pasolini (è Filippo ne Il Vangelo secondo Matteo), seminarista negli anni ‘60 dei corsi di Heidegger, mi avvicina all’eterogeneità degli studi. Agamben fa vibrare le mie corde di studioso di filosofia cresciuto a pane e storicismo confermandomi che per conoscere la modernità non basta abboffarsi di french theory ma bisogna accostare elementi eterogenei. Per esempio, conoscere un po’ di bibliografia monacale del XII e XIII secolo può essere molto istruttivo per illuminare il rapporto tra uomo e legge nel XXI secolo.

L’eterogeneità degli studi è il metodo che sceglie anche Tommaso Ariemma. Prolifico scrittore, napoletano, classe 1980, professore di estetica a Lecce, qualche mese fa ha pubblicato il suo ultimo libro, Sul filo del rasoio, Estetica e filosofia del taglio, confermando il fatto che in questi tempi aridi di riflessione ponderata e ricchi di attualità affrettata la cura del discorso è nell’eterogeneità degli studi. Come ogni filosofo che non si accontenta dell’accademia, in questo testo Tommaso si fa guidare da un’intuizione per applicarla all’attualità dei prodotti culturali odierni. In altre parole mette in atto quella che viene generalmente chiamata pop-filosofia, un modo come un altro per dire filosofia dopo la fine della filosofia. Filosofia come il tempo che resta tra l’annuncio della sua fine e la fine di questo vittimistico annuncio.

Un po’ come Agamben, fissato con la legge e la regola, Ariemma si è fissato ultimamente su un concetto in particolare, scoprendo come esso si annidi un po’ ovunque nelle cose, come ogni principio filosofico insegna. Questa intuizione è il taglio.

Per Ariemma, studioso di estetica, il taglio è fondamentalmente racconto, «un fatto primitivo» che si rivolge «a quel che di primitivo c’è in noi» (Edward Morgan Forster). Sul filo del rasoio non smette mai di raccontare: mette in scena autori, romanzi, film, aneddoti, tutti accomunati dalla loro capacità di tagliare. Rintraccia il taglio dove meno te l’aspetti, anche lì dove gli stessi autori non danno molta importanza al concetto, confermando la sentenza dell’ultimo filosofo: perdiamo sempre di vista l’essenziale. Deleuze, Benjamin, Agamben, Heidegger, Burroughs, Derrida, Eco, Hume, Hegel, Kojève, Lacan, Foucault, Sloterdijk, McLuhan, Platone, Žižek. E poi Blade Runner, il Batman di Nolan, Lost, le telenovelas, gli anime. Sul filo del rasoio li mette tutti insieme in un vortice incessante di ottanta pagine dove alla fine ciò che resta è il taglio. Ma di che taglio si tratta? L’assunto di base è che tutti questi autori adoperano tagli non allo scopo di separare, ma al contrario per mettere le cose in relazione. Il taglio come resto, propriamente: tagli le cose non per guardare nella fessura, piuttosto perché al contrario è il taglio l’unica cosa che ti resta quando vuoi accostare elementi eterogenei.

Com’è possibile che il taglio metta in relazione quando è proprio ciò che separa? Beh, la filosofia è sostanzialmente questo modo di ragionare, è essa stessa tagliata, bastarda, visto che per nascere si è dovuta tagliare in due: è prima poesia con i presocratici, poi discorso argomentato con Platone. Filosofia è lo stupore (thaumazein, θαυμάζειν) del mondo nello scoprire che per conoscere le cose che sono non ci si deve mai dimenticare delle apparenze. Platone litigava a morte con i sofisti, ma poi in fondo gli voleva bene. Sul filo del rasoio eredita questa concezione della filosofia ponendo il taglio come principio primo che sottende ogni conoscenza, ogni comprensione e ogni processo di relazione. 

Ariemma pone due tesi sul taglio, seguendo la logica hegeliana in una squisita combinazione di dialettica e strutturalismo: nessun taglio si oppone alla relazionenon si dà taglio nell’opera che non sia anche simbolico. Due tesi che sembrano far dialogare le due epistemologie che hanno caratterizzato gli ultimi duecento anni di filosofia: la dialettica della Germania del XIX secolo e la struttura della Francia del XX.

Anziché soffermarmi ad analizzare le singole tesi, vorrei passare direttamente alla seconda, tanto ognuna richiama l’altra e alla fine verranno chiarite entrambe.

Che cos’è questo “simbolico” della seconda tesi, che persiste nonostante il taglio? Occorre una digressione.

Ariemma utilizza questa parola in un senso preciso. C’è un po’ di “uomo simbolico” di Cassirer, un po’ di struttura simbolica di Lévi-Strauss, e un po’ di altre cose che non mi vengono in mente, ma soprattutto c’è dietro il concetto di simbolico di un furbacchione che ha fatto man bassa dell’eredità filosofica a cavallo del XIX e XX secolo per fare del simbolo un concetto originale. Stiamo parlando dello psicoanalista francese Jacques Lacan.
Simbolico per Lacan è la denotazione di senso. Dal sorgere del sole che ti dice che la notte è finita all’interlocutore che ti parla, simbolico è una struttura insieme esosomatica e somatica: non ti appartiene, ma te ne appropri. Simbolico denota l’uomo non solo come essere parlante ma come quell’essere che non può mai smettere di parlare, nel senso di indicare, riferire, denotare, significare, distribuire senso, perfino quando è solo un corpo morto.

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Dov’è la realtà in questa struttura? Semplicemente non c’è, è tagliata fuori. Lacan sostiene che è inutile porsi la domanda sul senso della realtà al di fuori della struttura del senso, del linguaggio, del simbolico, perché ogni volta che ci proviamo a tornarci indietro è sempre il senso, non la cosa in sé; il significante, non il significato; gli occhiali di Kant, non il veduto; la bottiglia di Wittgenstein, non ciò che c’è fuori. In altre parole, guardiamo sempre il dito, mai la luna. La realtà diventa così reale, si sostantivizza: il reale, compatto come un pianeta, impenetrabile, con la sua superficie tagliata dal simbolico. Così, il taglio che opera ogni discorso filosofico, ovvero quel discorso che vuole andare al fondo delle cose non accontentandosi della superficie, in realtà è sempre in superficie. Ariemma si muove parallelo a questa consapevolezza strutturalista affermando con prudenza che il taglio è anche simbolico (rispetto al reale). Lacan lo rimproverebbe con un sempre.

Il concetto di taglio di Ariemma aiuta a comprendere visivamente, esteticamente, il concetto di reale di Lacan. Il reale, afferma lo psicoanalista, è senza fessure, quindi senza tagli. Che significa? Significa che la denotazione di senso è sempre un’operazione di taglio, lì dove il reale è qualcosa che non si può tagliare, appunto senza fessure: non si dà taglio nell’opera che non sia anche simbolico. L’uomo non è semplicemente immerso nel senso, è piuttosto esso stesso questo senso (ecco, sto parlando come Derrida). Non smettiamo mai di parlare e di fraintenderci, sarebbe bello se un giorno ci si intendesse al volo, se si potesse vivere nel reale, rompere la tela del simbolico e approdare alla Luna, all’oggetto, alla cosa in sé. Ebbene, un mondo del genere, afferma Lacan, sarebbe la cosa più terribile che ci possa capitare. È il mondo dello psicotico in cui il simbolico si liquefa e la realtà si destruttura come reale. Lacan va oltre la gabbia del senso, trasforma la stanza del linguaggio nel quale l’essere abita in una sala degli specchi: il simbolico è proprio ciò che fa di un uomo un uomo, non c’è altro, e il velo di Maya andasse a quel paese. 

Simbolico, direbbe Ariemma, è sostanzialmente un taglio sulla realtà, e all’uomo non interessa guardare attraverso la fessura, piuttosto preferisce il contorno. Per questo il taglio mette in relazione: se non ti interessa il buco, da cui non uscirà mai niente di sensato, allora ti deve interessare ciò che sta attorno.

Gli orifizi del corpo sono tagli, fessure attraverso cui passano cose. D’altro canto, una delle più eleganti definizioni di vita è esattamente questa fessura: la vita è l’oggetto da cui costantemente entra ed esce qualcosa, nel respiro, nel mangiare, nel parlare. La vita comincia con un taglio, afferma Ariemma nell’introduzione di Sul filo del rasoio. Il corpo è ciò che è fatto di tagli. Allora, la domanda che si pose Lacan in un pomeriggio di Primavera del 1965 non è poi così stramba: perché i pianeti non parlano? Perché non hanno fessure. Come il reale, sono sfere perfette, mentre l’uomo è pieno di tagli e buchi, per cui ha nella sua struttura il desiderio come mancanza.

Se la relazione che determina il taglio è nel contorno, non è tanto il taglio in sé a interessare Ariemma, quanto una certa articolazione che determina il taglio. Il titolo del suo lavoro è rivelatore: il filo del rasoio come luogo in cui articolare il taglio. L’artista, il chirurgo, lo scrittore, sono tutti accomunati da una capacità di fare del gesto pittorico, dell’operazione sul corpo, della scrittura una fessura su cui, intorno a cui, piuttosto che in cui, conoscere e interpretare il mondo. Questo, afferma Ariemma, esprime Fontana nei suoi quadri.

«Piuttosto che significare qualcosa di antipittorico, i celebri tagli di Lucio Fontana direbbero allora di qualcosa che accade, a fior di tela, su tutti i dipinti»

T. Ariemma, op. cit., p. 26.

Per Ariemma il taglio è nel dettaglio. L’inezia determina l’insieme e l’incompletezza fa di un oggetto un soggetto. Quando l’uomo ha scoperto l’inconscio, ha scoperto sì di non essere padrone a casa propria, ma soprattutto che questa casa dell’essere in cui vive è senza proprietario, è linguaggio esosomatico che non gli appartiene, pur restando una struttura di cui si può appropriare. In pratica la casa dell’essere è un usucapione.

Ad Ariemma però non interessa l’analisi linguistico-strutturalista con le sue conseguenze ontologiche. È un prof di estetica, per cui dice più semplicemente e acutamente che questo soggetto come ciò che è tagliato è la soglia che articola un certo modo di fare arte, quella del montaggio. Ariemma porta all’esempio il finale di Blade Runner che, troppo cupo, viene tagliato con scene dallo Shining di Kubrick; la serie tv Lost con quelle storie piene di buchi che riempiono la sceneggiatura e caricano di aspettative gli spettatori. Tagli che riempiono più che separare. Ancora, la serie tv I Sopranos, con quella narrazione “cattiva” e umana che ha ispirato i vari The Wire e Breaking Bad. Per Ariemma tutte queste produzioni non sono nient’altro che storie determinate da tagli in cui ci identifichiamo. Jimmy McNulty è un abilissimo detective fedifrago, Walter White uno spietato padre di famiglia. Contraddizioni che si sciolgono nell’oscura fessura di un taglio narrativo che dona realismo. 

Chi è stato il primo a mettere in scena questo soggetto tagliato, che manca a sé stesso (manque à être) come direbbe Lacan. Sul filo del rasoio non ha alcun dubbio: è il romanziere d’appendice inglese Charles Dickens. Secondo Ariemma parte della cinematografia e della televisione attuale deve molto al romanziere di Portsmouth. Il regista inglese Christopher Nolan si è ispirato a Dickens nella sua trilogia di Batman e la serie House of Cards lo cita esplicitamente «alla fine del decimo episodio della seconda stagione, citando l’incipit di Storia di due città» racconta Ariemma. Dickens, spiega Sul filo del rasoio, è stato il primo a raccontare il soggetto tagliato tagliando a pezzetti la sua storia, il primo a raccontare storie che mettono al centro il personaggio più che la trama, o meglio storie in cui la trama emerge dal taglio narrativo dato al personaggio.

«Ciò che fa la sua comparsa in Dickens e nel suo successo è una soggettività pensata all’interno di una dinamica di possessione, possessione generata da tagli».

Ibid., p. 44.

L’uomo è posseduto dal simbolico, che si articola tramite tagli.

È un errore, afferma Ariemma, insistere su ciò che ci possa essere dietro il taglio, nello spazio vuoto della fessura, nel buco dietro la tela di Fontana. In realtà è tutto già qui, nel contorno, in una superficie già piena zeppa di tagli. Giocare col reale di Lacan come fosse un Impossibile, un iperuranio a cui protendere, è la vera follia. Reale è al massimo un’idea regolativa, un noumeno di cui è inutile proprio porsi la questione dell’esistenza.

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Un soggetto pensante sul filo del rasoio è quodilibet:

«La traduzione corrente nel senso di “non importa quale, indifferentemente” è certamente corretta, ma, quanto alla forma, dice esattamente il contrario del latino: quodlibet ens non è “l’essere, non importa quale”, ma “l’essere tale che comunque importa”; esso contiene, cioè, già sempre un rimando al desiderare (libet), l’essere qual-si-voglia è in relazione originale col desiderio».

Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 9.

Per questo il taglio mette in relazione, perché se lo guardiamo per quello che è vedremmo solo i contorni del taglio, dettagli, non buchi. Se l’essere è sempre un esser-tale, per riprendere il bellissimo libro di Agamben sopracitato, il reale, senza fessure, è la cosa senza -qual

Così non esiste taglio reale, ogni taglio è sempre simbolico. O meglio, come afferma Ariemma in Sul filo del rasoio: «Tutti i tagli reali vengono compresi come tagli simbolici» (p. 27). 

Il pilota di moto Valentino Rossi parla spesso di “un click nella testa” quando spiega la sensazione che si ha quando la moto diventa un prolungamento del tuo corpo, quando sai, in quel momento, che sei il più forte. Rossi non lo sa, ma si sta riferendo proprio alla relazione che determina il taglio concepito da Ariemma: l’eterogeneità di una relazione in cui un corpo biologico si fa tutt’uno con quello meccanico della moto, con i due oggetti che non si fondono, restano separati, propriamente: sono tagliati dalla relazione, esattamente come il corpo e il linguaggio. Ariemma spiega bene questa eterogeneità della relazione che pone il taglio citando Leroi-Gourham:

«È un processo globale che fa sì che, in un momento dato, l’utensile agisca come un prolungamento del corpo, ma vi è comunque una cesura che non può essere ignorata».

André Leroi-GourhanIl gesto e la parolacit. in T. Maldonado, Memoria e conoscenza, Milano 2005, cit. in T. Ariemma, op. cit., p. 10.

La tecnica del taglio, quindi saper fare (téchneτέχνη) il taglio al momento giusto, è ciò che rende uomo un uomo, che diventa così esso stesso una tecnica, un’antropotecnica direbbe Sloterdijk, un pilota di moto direbbe Rossi.

Filosofia è saper tagliare le cose, giustapporre senza mescolare, mantenere l’eterogeneità delle cose pur mettendole in relazione, come quando tagli la droga:

«Tagliare una droga significa diluirla, miscelandola a una sostanza di minor valore. Il taglio, pertanto, non separa ma aggiunge altre sostanze alla sostanza stupefacente».

T. Ariemma, op. cit.., p. 56.

Sul filo del rasoio si conclude con una specie di pamphlet, quando, staccandosi apparentemente dall’analisi estetica del taglio, sfocia in una proposta politica radicale. Lo fa con continuità, senza prorompere, sul filo del discorso intavolato in precedenza, appunto.

L’appello politico è che si faccia anche di questo taglio filosofico un buon uso nella società. Parafrasando il classico di Ernst KantorowiczI due corpi del re, Ariemma conclude sostenendo che non abbiamo ancora avuto il coraggio di dare un taglio al vero re, che non è quello fisico che ci comanda ma quello simbolico che ci tiene in scacco anche quando il re in carne e ossa è morto.

Dare un taglio al re allora non è limitarsi a soppiantare un re con un altro. Questo è il taglio che divarica e mantiene lo sguardo sul buco che ha creato, e si spaventa, quando invece abbiamo detto che è il contorno a contare. Bisogna insomma adoperarsi in un taglio che faccia sgorgare emancipazione.

Quale racconto può mettere in scena questo taglio rivoluzionario? Ancora una volta, Dickens:

«Dickens è di recente riscoperto e utilizzato quando si vuole ricercare il connubio tra complesso e popolare, ovvero quando si vuole che la narrazione sia magnetica, ma anche emancipatrice».

Ibid., p. 35.

Perché Dickens e non Balzac, Dumas? Perché Dickens racconta il logorio della classe operaia tagliando il confine tra alto e basso. Articola elitario e popolare in un personaggio buono e cattivo, realistico, che si riscatta riflettendo le aspirazioni degli spettatori. Non dimentichiamoci, ricorda Sul filo del rasoioche tutte le intelligenze sono uguali.

Così, alle due tesi di Ariemma sul taglio se ne potrebbe aggiungere una terza: il taglio, quando è principio di relazione, è potenza emancipatrice 

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Per Ariemma il fallimento della Rivoluzione Francese è consistito nel riempire lo squarcio che il taglio ha creato. Ci si è fissati sul buco, così il rivoluzionario taglio relazionale è diventato taglio di sottrazione e divaricazione. Il Terrore, afferma Ariemma, non è figlio della ghigliottina, semmai dell’ossessione di riempire i vuoti di potere che il taglio provoca, anziché lasciarli in pace.

«Si potrebbe parlare del Terrore giacobino come di quel momento in cui il taglio che iscrive in una società smette di proseguire sulla strada del simbolico e ritorna su quella del reale: torna a iscriversi sulla carne per marcare questa volta non l’inclusione, ma l’esclusione dall’ordine simbolico».

Ibid., p. 70.

È proprio questa ossessione per la sostituzione, per il potere, a determinare l’eterno ritorno della servitù volontaria e il rimando ad infinitum di una società senza classi. È questo che rende il comunismo una religione invece di una buona novella. Dobbiamo affezionarci al taglio, sostiene Ariemma, senza preoccuparci di riempire il vuoto che porta con sé. Il comunismo deve avere il coraggio di ereditare questa violenta relazione che determina il taglio se vuole sopravvivere all’assalto liberale, che ci riempe la bocca di rivoluzione senza rivoluzione, di pensiero debole e capitalismo etico e intanto anche lui non può smettere di tagliuzzare e separare un soggetto spolpandolo come in un tritacarne, quando un soggetto è per definizione già tagliato.

Jacques Lacan e la scienza (intervista a Panorama, 1974)

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«[…] Gli scienziati hanno un bel dire che niente è impossibile nel reale. Ci vuole molta faccia tosta per affermazioni del genere. Oppure, come io sospetto, la totale ignoranza di ciò che si fa e si dice. 

Reale e impossibile sono antitetici, non possono andare insieme. L’analisi spinge il soggetto verso l’impossibile, gli suggerisce di considerare il mondo com’è veramente, cioè immaginario, senza senso. Mentre il reale, come un uccello vorace, non fa che nutrirsi di cose sensate, di azioni che hanno un senso».

Oggi, che rapporto c’è tra scienza e psicoanalisi?

«Per me l’unica scienza vera, seria, da seguire, è la fantascienza. L’altra, quella ufficiale, che ha i suoi altari nei laboratori, va avanti a tentoni, senza meta. E comincia persino ad aver paura della propria ombra.
Sembra che stia arrivando anche per gli scienziati il momento dell’angoscia. Nei loro laboratori asettici, avvolti nei loro camici inamidati, questi vecchi bambini che giocano con cose sconosciute, maneggiando apparecchi sempre più complicati e inventando formule sempre più astruse, cominciano a domandarsi che cosa può accadere domani, a che cosa finiranno per portare queste sempre nuove ricerche […].
Solo adesso, quando già stanno per sfasciare l’universo, gli viene in mente di chiedersi se per caso non può essere pericoloso. E se salta tutto? […].
Alle tre posizioni impossibili di Freud, governo educazione psicoanalisi, io aggiungerei, quarta, la scienza. Solo che loro, gli scienziati, non lo sanno di stare in una posizione insostenibile».

Una visione abbastanza pessimistica di quello che comunemente si definisce progresso.

«No, tutt’altro. Io non sono pessimista. Non succederà niente. Per il semplice fatto che l’uomo è un buono a nulla, nemmeno capace di distruggersi. Personalmente, un flagello totale promosso dall’uomo lo troverei meraviglioso. La prova che finalmente è riuscito a combinare qualche cosa, con le sue mani, la sua testa, senza interventi divini, naturali, o altro […]. 
Ma non succederà. La scienza ha la sua brava responsabilità. Tutto rientrerà nell’ordine delle cose, come si dice. L’ho detto: il reale avrà il sopravvento come sempre. E noi saremo, come sempre, fottuti».

Emilia Granzotto, Freud per sempre, intervista a Jacques Lacan, Panorama, Roma, 21 novembre 1974.

Postidealismi psicoanalitici

«Uno degli sketch tipici della commedia televisiva americana è la scena del riconoscimento tardivo: un uomo vede un’automobile che viene portata via dalla stradale; comincia quindi a ridere malignamente della sfortuna del proprietario, prima di sobbalzare per la sorpresa un paio di secondi dopo: “Ma, aspettate, quella è la mia macchina!”. La forma più elementare di questo sketch è, ovviamente, quella dell’auto-riconoscimento ritardato: passo accanto a una porta a vetri e credo di scorgere dietro di essa un individuo brutto e sfigurato; rido, poi, d’improvviso, mi rendo conto che il vetro era in realtà uno specchio e che dunque era me stesso che stavo guardando poco prima. La tesi lacaniana è che questo ritardo è strutturale: non c’è alcun auto-conoscenza diretta; il sé è vuoto».

Slavoj Žižek, Meno di niente, Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, Ponte delle Grazie, Milano 2013, pp. 178-179.

La filosofia della psicoanalisi di Lacan

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Provo a fare un esperimento. Una condensazione filosofica di un testo di Lacan. Si tratta del testo “componibile” per antonomasia, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud. Un testo che è già stato fatto a pezzetti, composto, decomposto, ricostruito e decostruito.
Lo citerò come se sottolineassi, saltando le subordinate, le pause, le parentesi e le esitazioni che rendono la lettura di questo testo la faticosa lettura di un discorso scritto.
Citerò il testo di un autore che non è un filosofo.
Citerò tre pagine de L’istanza, verso la fine, dove Lacan parla del soggetto moderno e dell’importanza della scoperta dell’inconscio. Quelle dove Lacan butta in mezzo Cartesio. Qui sembra in atto lo strapazzamento del soggetto cartesiano ad opera di Freud, ma in realtà non si smette di parlare di psicoanalisi.

Cercherò di citare un Lacan condensato, per dargli un senso “filosofico”. Citerò correttamente il testo, e in un solo caso invertirò le subordinate, verso la fine, nelle due asserzioni in corsivo.

Tutto questo, sostanzialmente, per citare male Lacan. Quindi, per citarlo come si deve.

Proviamo.

Je pense, donc je suis (Cogito ergo sum) non è solo la formula in cui si costituisce, con l’apologeo storico di una riflessione sulle condizioni della scienza, il legame con la trasparenza del soggetto trascendentale della sua affermazione esistenziale.
Forse io non sono che oggetto e meccanismo, e dunque nulla più che un fenomeno, ma sicuramente in quanto io lo penso, io sono, assolutamente. Senza dubbio i filosofi vi hanno apportato importanti correzioni, e in particolare che in ciò che pensa (cogitans), io non faccio mai altro che costituirmi come oggetto (cogitatum). Resta che attraverso questa estrema depurazione del soggetto trascendentale, il mio legame esistenziale col suo progetto sembra irrefutabile, almeno nella forma della sua attualità, e che:

«cogito ergo sum» ubi cogito, ubi sum

Beninteso, ciò mi limita a non esserci, nel mio essere, che nella misura in cui penso che sono nel mio pensiero; in quale misura io lo pensi veramente, non riguarda che me, e, se lo dico, non interessa a nessuno.
Tuttavia, eluderlo col pretesto delle sue sembianze filosofiche, è semplicemente dar prova di inibizione. Perché la nozione di soggetto è indispensabile al maneggiamento di una scienza, i cui calcoli escludono ogni «soggettivismo».
È proibirsi l’accesso a quel che si può chiamare l’universo di Freud. Come si dice: l’universo di Copernico. Infatti è proprio alla rivoluzione cosiddetta copernicana che Freud stesso paragonava la sua scoperta, sottolineando che una volta di più ne andava del posto che l’uomo si assegna al centro di un universo. E il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico? Ecco il problema.
Non si tratta di sapere se parlo di me in modo conforme a ciò che sono, ma se, quando ne parlo, sono lo stesso che colui di cui parla. Il cogito filosofico è nel punto focale di quel miraggio che rende l’uomo moderno così certo di essere sé nelle incertezze su se stesso, o attraverso la diffidenza che da tempo ha potuto imparare a praticare nei confronti delle insidie dell’amor proprio.
Se, rivolgendo contro la nostalgia che essa serve l’arma della metonimia, mi rifiuto di cercare un senso aldilà della tautologia, e se mi decido a non esser altro che ciò che sono, come staccarmi dall’evidenza che sono in questo stesso atto?
Come pure, se mi sposto all’altro polo, metaforico, della ricerca significante, e mi voto a diventare ciò che sono, a venire all’essere, non posso dubitare che anche se mi ci perdo ci sono.
Ora, è proprio su questi punti che si ha la svolta della conversione freudiana. Questo gioco significante della metonimia e della metafora, che incardina il mio desiderio su un rifiuto del significante o su una mancanza dell’essere, si gioca là dove non sono perché non mi ci posso situare.
Sono bastate queste poche parole per lasciar interdetti per un istante i miei uditori: penso dove non sono, dunque sono dove non penso. Parole che all’orecchio teso rendono sensibile con quale ambiguità da furetto sfugga alla nostra presa l’anello del senso sulla funicella verbale.

Ciò che si deve dire è: là dove sono il trastullo del mio pensiero, non sono; là dove non penso di pensare, penso ciò che sono.

La verità non si evoca che nella dimensione di alibi grazie a cui ogni «realismo» nella creazione trae la propria virtù dalla metonimia, e che il senso non offre altro accesso che il duplice gomito della metafora. Il significante e il significato saussuriano non sono sullo stesso piano, e l’uomo s’ingannava a credersi situato nel loro comune asse che non è da nessuna parte.
Questo, almeno, finché Freud non ne ha fatto la scoperta. Giacché se ciò che Freud ha scoperto non è questo, non ha scoperto nulla.

Jacques LacanL’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 2002, pp. 511-513.

L’importanza di guardare il dito, piuttosto che la Luna

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«Si può dunque dire che è nella catena del significante che il senso insiste, ma che nessuno degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in quello stesso momento».

Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, p. 497.

                                                       ***

Siamo inchiodati al simbolo che insegue il senso, come Achille la tartaruga. È stato detto tanto tempo fa, nel 1957, ma ancora oggi la sentenza mantiene al sua attualità. Lacan sostiene che il senso esiste, ma sottostà alla parola, le è subordinato. Per trovare il senso dobbiamo sempre usare una parola per indicarlo. È la catena significante.
In altre parole guardiamo sempre il dito, mai la Luna. Come un occhio strabico, arriviamo a fissare la Luna (un senso c’è), ma dobbiamo continuare a mantenere lo sguardo sul dito (non si smette mai di parlarne), proprio per non perdere di vista la Luna. Ma ciò non ci rende stolti, soltanto però se guardiamo il dito consapevoli che non possiamo fare altrimenti.
Slavoj Žižek porta spesso un esempio efficace per raffigurare questo strano mix di incanto e stupidità, il fatto che il θαυμάζειν (thaumàzein), lo stupore, non sta nell’essere meravigliati del sole che sorge, piuttosto che il parlarne non smette di meravigliarci: il sole sorge sempre uguale, da miliardi di anni, che noia! Piuttosto è il raccontarlo che non ci annoia.
La storia è quella sempiterna del rovesciamento: un prototipo del razionalista laico, in questo caso il fisico Niels Bohr, tiene da sempre un ferro di cavallo sopra l’ingresso di casa (o nel laboratorio).

– “Perché? Proprio tu?” gli domandano i colleghi, stupiti.
– “Perché anche se non ci credo, dicono che funzioni” sentenzia il fisico.

Non si tratta di un “non è vero ma ci credo”, quello lo dice lo stolto che non sa di essere stolto. Piuttosto è “non è vero, non ci credo, ma funziona”.
Significa che possiamo crogiolarci quanto vogliamo nella rivoluzionaria scoperta antropologica che il linguaggio (in senso lato: tutto ciò che indica un senso rispetto a ciò che ci urta, un qualunque oggetto) non sia altro che un’invenzione, e con esso tutte le culture, le religioni e le istituzioni che sul simbolo – ciò che mette (βολή, getta) insieme (σύμ) significante e significato – basano se stesse. Possiamo fare gli illuministi quanto vogliamo, possiamo cinicizzare il mondo all’infinito, scetticizzare su ogni cosa, dall’alto della consapevolezza che c’è un sacco di oppio in giro tra i popoli.
Ma, checché se ne dica, il dito resterà sempre lì, possiamo amputarlo, ma sarebbe un orrore.
È vero, il dito ci rende stolti. Ma sarebbe davvero da stupidi ritenere che serva solo a distrarci, dimenticando che è lo stesso dito con cui si manda a quel paese.

Il maestro assoluto

«Lei sta per distruggere ciò che pretende di fondare, si tratti di una scuola o di un patto di fede con i Suoi amici. 
Lei in realtà delinea soltanto la sua relazione di singolarità, di autoesclusione e di rigetto nei confronti di ogni istituzione collegiale. Nelle Sue requisitorie, Lei confonde strutture e istituzioni. La sola struttura in questione nel Suo atto di fondazione è quella che riguarda Lei più l’analisi più il seminario. Ma Lei ha escluso una quarta componente fondamentale: il riferimento all’avversità.
La difficoltà dei Suoi rapporti con ogni gruppo indipendente, soprattutto se è composto di veri amici, La riconduce sempre al principio del rapporto privilegiato, della fiducia personale che fonda il patto a due solamente sulla complice intesa contro qualsiasi terzo, Lei divide per non regnare mai. La Sua difficoltà a considerarsi riconosciuto, famoso e irrefutabile La porta a ripetere le operazioni di commando sullo stesso terreno di una vecchia guerra in fondo già vinta. Ci attendiamo da Lei un governo sereno, basato su una teoria già ampiamente articolata; e non più esercizi temerari da vecchio partigiano con la vocazione del desperado».

Lettera di François Perrier a Jacques Lacan, 12 gennaio 1965, sette mesi dopo la fondazione dell’École Freudienne de Paris, in Elizabeth RoudinescoJacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 344.

La risposta (in sintesi, sempre in Roudinesco) di Lacan, lo stesso giorno:
«Io non divido, né aspiro a regnare. O siete tutti con me, oppure restate insieme: tuttispero, ma senza di me».

Il piccolo Hans e l’amore

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«Un segno rappresenta qualcosa per qualcuno e, non sapendo che cosa il segno rappresenti, il soggetto, davanti a questo interrogativo, quando appare il desiderio sessuale, perde quel qualcuno a cui il desiderio si rivolge, vale a dire se stesso. E nasce l’angoscia del piccolo Hans.
La madre del piccolo Hans, come tutte le madri, precisa la sua posizione quando, a proposito di quel piccolo guizzo, di quel piccolo ma inequivocabile fremito al primo risveglio di una sessualità genitale che comincia a manifestarsi in Hans, dichiara: Sono cose da sporcaccioni! Il desiderio è ripugnante.
In un modo senza dubbio allusivo ma non ambiguo, quante madri, tutte le madri, davanti al pisellino di Hans o di qualcun altro faranno riflessioni del tipo: è ben dotato il piccolo! Oppure: avrai tanti bambini! Si instaura così una divisione tra quest’oggetto, da una parte, che diventa il marchio di un interesse privilegiato, che diventa agalma, e, dall’altra parte, uno svilimento del soggetto. Egli è apprezzato come oggetto, svalutato come desiderio.
L’amore è dare ciò che non si ha.
Che cos’è che non ha, e in che senso?
Qual è la dimensione nuova introdotta dall’ingresso [del soggetto] nel dramma fallico? Ciò che il bambino non ha, ciò di cui non può disporre in questo momento di nascita e di rivelazione del desiderio genitale, non è nient’altro che il suo atto. Tutto quello che ha è una cambiale sull’avvenire. Egli istituisce l’atto nel campo del progetto.
Vi prego qui di notare la forza delle determinazioni linguistiche. Come il desiderio ha preso, nella congiuntura delle lingue romanze, la connotazione di desiderium, di lutto e di rimpianto, non a caso le forme primitive del futuro sono state abbandonate per un riferimento all’avere. Io canterò è esattamente ciò che vedete scritto: io cantare ho. Che deriva effettivamente da cantare habeo. La lingua latina della decadenza ha trovato la via più sicura per recuperare il vero senso del futuro. Io scoperò più tardiio ho lo scopare nella forma di una cambiale sul futuroio desidererò. Ed è al futuro che questo debito si coniuga quando prende la forma del comandamento: onorerai tuo padre e tua madre ecc.».

Jacques LacanIl seminario, Il transfert, 1960-61, Einaudi Torino 2008, pp. 240-241.

Chi è Socrate?

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«In primo luogo devo ricordarvi che il reale, anzi, la presa sul reale non dev’essere concepita in quell’epoca [VI-V secolo a.c.] come correlativa al soggetto. Si tratta molto semplicemente della Cosa. Non è die Sache, una faccenda, la realtà ultima. Ricordatevi che teoria non si limita a questo, e lo mostra assai bene la prassi da cui essa nasce, la pratica orfica. La teoria non è un’astrazione della prassi, non è neppure il suo riferimento generale. Nel momento in cui appare, è questa stessa prassi. Essa stessa, la teoria, è l’esercizio del potere, to pragma, la grande faccenda. 
Ciò che Socrate chiama episteme, scienza, ciò che insomma egli scopre, coglie, mette in evidenza è che il discorso genera la dimensione della verità. Socrate non è, come si dice, colui che riconduce l’uomo all’uomo, oppure ogni cosa all’uomo. E’ Protagora ad aver dato questa parola d’ordine: l’uomo misura di tutte le cose. Socrate, invece, riconduce la verità al discorso. Egli è, per così dire, il supersofista, ed è qui che risiede il suo mistero, perché se fosse solo il supersofista non avrebbe generato niente di più dei sofisti, vale a dire una reputazione alquanto dubbia.
E’ ben altro che un soggetto temporale ad avere ispirato la sua azione. E così arriviamo all’atopia, all’aspetto instabile di Socrate, che è quello che ci interessa. Se si cerca di leggere la discendenza socratica attraverso le testimonianze contemporanee o vicine oppure attraverso gli effetti più lontani, potrebbe venire in mente la formula di una sorta di perversione senza oggetto. In verità, credetemi, si fa fatica quando si cerca di focalizzare, di fissarsi su come poteva essere effettivamente questo personaggio. 
Un suo discepolo ha avuto l’idea – balzana, bisogna pur dirlo – di andare a consultare il dio di Delfi, Apollo. E il dio ha risposto: vi sono alcuni saggi, ce n’è uno che non è male ed è Euripide, ma il saggio dei saggi, il migliore, il nec plus ultra, è Socrate. Da quel giorno Socrate si è detto: bisogna che io realizzi l’oracolo del dio, ma dal momento che l’oracolo l’ha detto bisogna che lo sia. E’ in questi termini che Socrate ci presenta la svolta del suo passaggio alla vita pubblica. E’ insomma un folle che si crede comandato al servizio di un dio. E’ un messia e, per giunta, in una società di parolai».

Jacques Lacan, Il seminario VIII, Il transfert, 1960-61, Einaudi, Torino 2008, pp. 89-92.

                                                       ***

Per Lacan l’uomo non è un essere del tutto naturale. C’è il linguaggio -inteso in senso largo, molto largo, tutto ciò che ha senso – che lo determina in un modo del tutto particolare, perché esso è esosomatico. Come sintetizza Agamben, riprendendo Wittgenstein, «l’uomo sta nel linguaggio come una mosca intrappolata nella bottiglia: quel che egli non può vedere è proprio ciò attraverso cui vede il mondo. Tuttavia la filosofia consiste appunto nel tentativo di aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia, o almeno a prenderne coscienza». Insomma è la metafora su cui, non c’è dubbio, Kant ha la paternità.
Per dirlo in termini lacaniani, il reale è ciò che sta fuori della bottiglia, e l’uomo non può che limitarsi non a osservare attraverso la bottiglia, ma a osservare la bottiglia e nient’altro, il simbolico. Non ci sarà mai quindi una vera e propria presa del reale, esso ci è interdetto, nonostante il linguaggio si riferisca ad esso. Nel momento in cui parliamo di stiamo già parlando di qualcos’altro, aggiungiamo qualcosa, il senso.
Il reale, dice lo psicanalista francese, è senza fessure (Seminario II), compatto come un pianeta, e Lacan dice: i pianeti, come sappiamo, non parlano (Seminario II). L’uomo è invece pieno di fessure: l’orifizio, l’apertura direbbe Heidegger, è ciò che fa dell’uomo un uomo, un vivente e non soltanto, qualcosa che a differenza degli animali è gettato in pasto al mondo.
Per questo il reale di Lacan non è la realtà ultima, il mondo delle idee, la “realtà”: non c’è niente lì, solo cose di cui non possiamo articolarne il senso, solo cose, forme di brocche vuote direbbe Heidegger (La questione della cosa). Se il reale davvero fosse qualcosa lì per noi, allora prima o poi potremmo comprenderlo, sarebbe solo questione di tempo. Ed è infatti solo questione di tempo, ma è un avvenimento terribile: l’unico momento in cui c’è una presa sul reale è quando smettiamo di parlare. E quand’è che smettiamo di parlare? Quando siamo morti, quando l’uomo non è che il suo corpo.
Lacan potrebbe dire che nonostante ci sia la Luna non possiamo fare a meno di osservare il dito, e non perché siamo stupidi, ma proprio perché siamo intelligenti.
Socrate, il maestro, l’analista, il soggetto supposto sapere, si pone nella situazione di colui che sa tutte queste cose, cioè sa di non poter sapere mai, sa che non c’è mai l’ultima parola, che ci sarà sempre qualcosa da dire, nonostante si sia detto di tutto. Socrate non sa come stanno le cose, sa solo come stanno veramente. E sa benissimo come dirlo.

Nell’immagine in alto: Socrate e Santippe. Incisione di Otto van Veen, XVII secolo.

Salto di qualità

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«L’oggetto di consumo, nella sua versione moderna, è il feticcio […]. Era il capitalismo, dove valeva la previsione del presidente Hoover nei confronti di Edward Bernays, astuto fondatore dei primi sistemi di marketing e di risorse umane, e nipotino di Freud: “Voi avete trasformato le persone in instancabili macchine della felicità” (constantly moving happiness machine). Quel tempo è ormai alle nostre spalle.

[…]

L’oggetto di consumo, oggi, è diventato un gadget. Intercetta più il nostro godimento che il nostro desiderio […]. In fondo il capitalismo non ci dice più come e cosa dobbiamo pensare o desiderare. Non scrive il fantasma. O almeno non soltanto. La scommessa oggi riguarda i corpi e il loro godimento. L’oggetto gadget non evoca, non illude, non innesca la temporalità propria del desiderio e del fantasma: l’attesa, la speranza, la ricerca, l’aspirazione, l’identificazione immaginaria…L’oggetto gadget inchioda il consumatore al suo godimento autistico: tu sei questo. Non si tratta più di ciò che l’oggetto ti farà diventare, ma qualcosa di molto più forte e singolare. In questo, infatti, il capitalismo segue la logica dell’uno per uno a cui punta anche la psicoanalisi».

Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio, clinica dell’immaginario contemporaneo, Mimesis, Milano 2012, p.79.

L’intellettuale di sinistra e l’intellettuale di destra

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Ci fu un tempo ormai lontano, proprio all’inizio della nostra Societé – ricordate? – in cui si parlò, a proposito del Menone di Platone, degli intellettuali. Vorrei dirvi a questo proposito alcune cose massicce, ma che credo siano illuminanti.

Come si fece notare allora, ci sono, già da molto tempo, l’intellettuale di sinistra e l’intellettuale di destra. Vorrei darvene delle formule che, per quanto possano sembrarvi di primo acchito perentorie, possono comunque servirci a illuminare il nostro cammino.

Stolto, o anche démeuré (ritardato), termine piuttosto carico per cui ho una certa simpatia, sono parole che esprimono solo approssimativamente qualche cosa rispetto a cui – ci tornerò – la lingua e l’elaborazione della letteratura inglese mi sembrano fornire un significante più preciso. Una tradizione che comincia con Chaucer, ma che fiorisce pienamente nel teatro del tempo di Elisabetta, si incentra infatti intorno al termine fool.

Il fool è un sempliciotto, un ritardato, ma dalla sua bocca escono delle verità che non solo sono tollerate, ma acquisiscono una loro funzione per il fatto che talvolta il fool è rivestito delle insegne del buffone. Quest’ombra felice, questa foolery di fondo, ecco che cosa costituisce ai miei occhi il pregio dell’intellettuale di sinistra.

[…] A cui opporrei il termine knave […].

Knave a un certo livello del suo impiego si traduce con servitore, ma è qualcosa che va oltre. Non è il cinico, con quel che tale posizione comporta di eroico. E’, per l’esattezza, ciò che Stendhal chiama le coquin fieffé (il furfante matricolato), ossia, in fin dei conti, il signor Tutti, ma un signor Tutti con maggiore determinazione.

Sappiamo come un certo modo di presentarsi che fa parte dell’ideologia dell’intellettuale di destra consista per l’appunto nel porsi per quello che egli effettivamente è – un knave -, in altri termini nel non ritrarsi di fronte alle conseguenze di quello che si chiama realismo, e cioè, quando necessario, nel rivelarsi essere una canaglia.

Dopotutto, una canaglia vale bene uno stolto, almeno per quanto riguarda il divertimento, solo che il risultato della costituzione delle canaglie in branco è infallibilmente una stoltezza collettiva. E’ ciò che rende così sconfortante in politica l’ideologia di destra.

Ma osserviamo qualcosa che non si nota abbastanza: per un curioso effetto di chiasmo, la foolery, che conferisce il suo stile individuale all’intellettuale di sinistra, sfocia con faciltà in una knavery di gruppo, in una canaglieria collettiva.

Jacques LacanIl seminario VII, l’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008. pp. 214-215.