Dani Alves, psicanalista

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In psicanalisi si chiama ripetizione, ovvero la persistenza di un concetto o di una sensazione. E’ il punto di ancoraggio del nevrotico, l’allucinazione dello psicotico, o la semplice ansia, l’angoscia, il chiodo fisso per quelli a cui prima o poi passa. E’ in sostanza l’ossessione, la persistenza dell’identico che ritorna, inesorabilmente, incessantemente. Può rappresentare una fonte di ispirazione, ma anche un incubo. E’ la morte, l’orrore del corpo freddo, l’ineluttabile destino di tutte le cose viventi che, nella loro infinita varietà dinamica e mutevole, vanno inesorabilmente verso la cessazione di ogni movimento. Ripetizione è la nausea sartriana della persistenza dell’esistenza.
Dani Alves, giocatore del Barcellona, ha applicato senza saperlo questo principio all’antirazzismo, rendendolo devastante per efficacia. Il 27 aprile, contro il Villareal, gli hanno lanciato una banana. Senza battere ciglio Alves l’ha presa, gli ha dato un morso, l’ha gettata a terra e ha battuto un calcio d’angolo. Il gesto è diventato virale, con tantissimi narcisi che non aspettavano altro per farsi un selfie finalmente diverso, con una banana in mano per esempio. 
L’efficacia antirazzista del gesto del giocatore del Barça sta tutta nella ripetizione. Alves non ha reagito per opposizione (protestando, offendendosi) ma al contrario per affermazione, ripetendo il gesto che ha subìto. Dagli spalti l’invito era chiaro, con tutto il carico di invenzioni che caratterizza l’offesa razzista: “Tu, negro, che sei un gradino sotto la scala evolutiva dell’essere umano [invenzione], mangiati questa banana come fanno le scimmie [invenzione]”. A questo sobrio, scherzoso e leggero messaggio, Dani ha risposto come risponderebbe ogni persona serena in un contesto come quello del gioco: ha accolto l’invito razzista, smontando di fatto ogni possibile provocazione.

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E’ quello che fanno gli afroamericani del ghetto quando tra di loro si chiamano negri (niggernigga). Pronunciano la stessa parola con lo stesso significato ma in un altro contesto: rispettano la sintassi, la semantica, ma non la pragmatica. Il trucco sta nel ripetere, senza badare a chi proferisce, e a proferirla non è più il carnefice, ma la vittima. Attraverso la ripetizione, la parola viene sradicata e riutilizzata nel suo significato più puro, neutro. Il suo senso viene ribaltato, pur mantenendosi inalterato: negri sono e negri rimangono. Con la differenza che il gesto, la profanazione, la profonda offesa della parola nigger viene presa alla lettera: nigger è un termine neutro di origine spagnola che indica la persona con la pelle scura. “Sono io!” afferma il negro ingenuo che non sa cosa nigger significhi, se non, appunto, con-la-pelle-scura. Così il “negro” detto “fra negri” non è più discriminante, anzi lo è (se c’è un negro, è perché c’è un bianco), ma al contrario: sono io, negro, che mi distinguo da te, bianco. E nigga diventa solidarizzante, comunitarizzante. Nigger è tra pari sinonimo di fratello, mentre tra schiavo e padrone indica al contrario il nemico (ancora oggi non conviene a un bianco apostrofare un negro, a meno che non gli sei amico, con un hey nigga!). In entrambi i casi, però, il significato è esattamente lo stesso, non viene alterato. Quando viene ripetuta alla lettera, persistendo identica a se stessa in un nuovo contesto, una parola muore nel suo uso corrente (“negro” è una parolaccia; le banane le mangiano i negri e i finocchi) per svelarsi nel suo proprio significato (“negro” significa “con-la-pelle-scura”; la banana è un frutto che si mangia). La persistenza della ripetizione è la parola nella sua identità propria.
Dani Alves, come tutti i nigger, come tutti gli esseri umani di tutto il pianeta terra, mangia le banane. E quando gli hanno offerto una banana si è limitato a mangiarla, capovolgendo il messaggio:

– “Mangia la tua banana, negro”
– “Ok. Mh, buona”

Quale carceriere non andrebbe su tutte le furie?
Per concludere, il gesto di Alves, ripetendo il movimento vitale dell’offesa razzista, di fatto arresta e annulla l’efficacia del gesto, ammazza il razzismo mettendogli di fronte uno specchio. E l’ondata di selfie con banana al seguito sta lì a sottolinearlo: rafforza e ripete la ripetizione fino alla nausea, fino alla morte.
Il razzismo nello sport – il razzismo urlato per attirare l’attenzione, non quello utilizzato scientificamente per attaccare e isolare una minoranza (come invece ha fatto Donald Sterling proprio negli stessi giorni) – non si combatte con l’antirazzismo, ma assumendo su di sé la sua banalità, il semplicistico e antiscientifico ragionamento che sta alla base di ogni offesa razzista. 
Negli stadi il gioco del razzismo viene preso troppo seriamente, aumentando enormemente il suo impatto sull’opinione pubblica, più di quanto vorrebbe colui che ha lanciato una banana. Dani Alves ha riportato la questione sul terreno che gli compete, fuori dalle trasmissioni tv del pomeriggio e dalle conferenze stampa degli allenatori, piuttosto inchiodandola lì dove nasce.
In questi contesti la ripetizione del gesto razzista da parte di chi subisce l’ingiuria smaschera l’ingenuità dell’ingiuria, la banalità del ragionamento dietro l’offesa. La banalità della banana.

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