Caterina Benincasa (1347-1380), conosciuta come Caterina da Siena (fatta santa da Pio II nel 1461 e dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970), beveva il pus delle piaghe infette dei lebbrosi per punire il sentimento di ribrezzo provato alla vista dei moribondi. «Non aveva mai gustato cibo o bevanda tanto dolce e squisita» si legge nelle sue lettere. Caterina era una mistica, e come tutti i mistici aveva un particolare rapporto con il proprio corpo, ovvero quello di esasperare una corporeità che appartiene al cristianesimo stesso.
Cristo è stato crocifisso tra sofferenze atroci, con la carne della schiena strappata a frustate e diversi chiodi impiantati tra gli arti. È la passione, una narrazione in cui si struttura un certo rapporto con il corpo. La stessa passione laica della letteratura moderna, quella che “divora e consuma”, con la differenza che mentre quest’ultima piange romanticamente l’autodistruzione dell’oggetto (l’amore, l’amato) che appassiona, il cristiano esulta per lo scopo ultimo di questo rogo del corpo.
L’inizio della cristianità è questo rapporto con il corpo, questo disprezzo e insieme questa morbosa curiosità di esplorarlo, fisicamente, bevendone il pus o martoriandolo. «Così prego io il dolce nostro Salvatore, che egli ci guidi a sbranare e a macellare, li corpi nostri» (C. da Siena, Le Lettere, Einaudi, Firenze 1939, p. 895).
Generalmente l’idea che si ha della cristianità è quella di un’anima ingabbiata in un corpo, in attesa di una morte che la renda libera di salire in cielo. La cristianità concepirebbe un corpo passivo, un corpo-involucro, immobile, quando invece questo corpo ha una parte massimamente attiva nell’ottenimento della salvezza. C’è piuttosto una dialettica tra il corpo e lo spirito: l’umiliazione del primo serve alla salvezza del secondo. Nella cristianità il corpo è sì uno scarto, ma non lo è di suo, lo deve diventare attraverso la partecipazione attiva di chi lo abita: se non lo si umilia frenandone gli appetiti, si resta peccatori. La carne va pertanto martoriata e disprezzata, pur restando, come dice Caterina, una «navicella» per l’anima.
Una bellissima xilografia rinascimentale di Bernardino de Conti raffigura lo storico Bernardino Corio, autore della Patria Historia. Sotto, il motto È bello doppo il morire vivere anchora. Per chi ha fatto il classico sa di cosa sto parlando, sta sulla copertina del dizionario di latino Castiglioni-Marotti IL, quel tizio che ingoia una clessidra. Il tempo è stato ingoiato dalla resurrezione di Cristo. Con la cristianità ciò che conta è il tuo posto in paradiso dopo la morte, con la terra luogo in cui espiare le colpe di Adamo e testare la propria salvezza.
Ridurre la cristianità a un disprezzo del corpo è un errore. Abbiamo detto che c’è un disprezzo e insieme una curiosità morbosa per la carne. C’è quindi piuttosto una perversione della corporeità, un’ambivalenza costitutiva fatta di attrazione e repulsione, come quando non resistiamo a odorarci il dito dopo esserci grattati le parti basse: fa schifo, ma è il nostro odore, dolciastro, attraente. La Chiesa è l’istituzionalizzazione di un certo desiderio, di un certo modo di vivere, di una perversione che non è stata inventata dal cristianesimo ma soltanto raccolta: non è il cristianesimo che ci rende perversi ma è una certa perversione (ripeto, attrazione e insieme repulsione, perversione come il gioco in cui si articola questa soglia indistinta tra piacere e dispiacere) della natura umana ad appartenere di conseguenza anche al sentimento cristiano. Perciò lasciate perdere l’ira verso la Chiesa quando colleziona scandali, perdereste solo tempo. C’è qualcosa di molto più profondo di una religione inquietante, piuttosto un’inquietudine che si è fatta religione.
Non riesco a trovare dove ho letto una breve riflessione di Giorgio Agamben sulla perversione costituiva della cristianità (forse in Mysterium iniquitatis, il discorso fatto il 13 novembre 2012 all’Università di Friburgo in occasione della laura honoris causa in teologia, poi edito da Laterza in Il mistero del male). In ogni caso, andando a memoria, il filosofo italiano sostiene che la difficoltà della Chiesa di affrontare una volta per tutte, apertamente, la pedofilia dei suoi preti è in realtà una falsa difficoltà. Non c’è alcun imbarazzo o difficoltà per la Chiesa. Questo perché è lo stesso celibato, spiega Agamben, a mettere il corpo davanti a una sfida impossibile da superare (l’astinenza sessuale), ed è quindi logico che ogni tanto, in qualche posto del mondo, un bambino debole e indifeso venga molestato da un prete. Per sua natura, un corpo non è fatto per l’ascetismo, e nonostante ciò riesce lo stesso a fare dell’ascetismo una pratica. È la perversione: è impossibile astenersi dai desideri sessuali, dagli appetiti della gola e dalle brame di controllo e potere, e nonostante questo qualcuno, qualche volta, riesce ad astenersi per tutta la vita. È la straordinaria natura dell’uomo che lo rende qualcosa di più dell’animale istintuale ma un animale capace di mettere di fronte a sé l’istintualità.
Agamben ritiene che i casi di pedofilia nella Chiesa, e lo scandalo sull’omertà che li accompagna, sono l’occasione per vedere esplicitata la natura perversa del cristianesimo: i casi di pedofilia rappresentano la valvola di sfogo necessaria per mantenere la sacralità del celibato. Rinunciare al celibato per “sconfiggere” la pedofilia nella Chiesa significherebbe scuotere alle fondamenta la cristianità, mettere in discussione quel particolare ruolo del corpo, mettere in discussione la salvezza e rinunciare al paradiso.
Perciò non stupiamoci se Papa Bergoglio afferma che picchiare i bambini senza colpirli in faccia «ha senso della dignità», è una punizione fatta «nel modo giusto». Non scandalizziamoci se afferma che «il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi». Non facciamo i borghesucci ignoranti di storia, la Chiesa è stata per secoli in guerra contro i musulmani (che pure loro so perversi, ma in modo diverso). La Chiesa è fatta così, è sempre stata così. La posizione di Bergoglio non sembra violenta, è violenta, è la stessa violenza nei ricordi di mia madre quando alle elementari dalle suore veniva bacchettata sulle mani, «che si facevano rosse rosse. Come il sangue». Le cape ‘e pezza provavano piacere, un piacere perverso nel punire un corpo che contribuisce alla salvezza dell’anima al prezzo di rinunciare ai suoi desideri.
C’è una profonda passione della cristianità dietro la punizione e l’abuso corporale. La stessa passione che ha spinto il papa, appena qualche settimana fa, a dire che chi mette in mezzo le madri si merita un pugno. Se il corpo non serve a nulla, se non per essere umiliato al fine di rendere lo spirito non ancorato alla materia, allora non c’è nulla di male se lo picchio e ne abuso.
Anzitutto, sottoscrivere le proprie parole mettendo nome e cognome è cosa elementare e doverosa. Anche se, sinceramente, parole tanto idiote quanto ignoranti, tanto da sfociare in calunnie vere e proprie verso la Chiesa, non meritano neanche di saperne la fonte. Se deve parlare, cerchi prima voglia di sincerità in sé stesso, poi.. taccia. La sua rabbia, la sua voglia di screditare, la sua stupidaggine, non fanno neanche scomodare la fede: qui si tratta di intelligenza e rettitudine di ricerca, che mancano totalmente! Non scriva… glielo consiglio… ci passa meglio di fronte alle persone..la crederanno più intelligente di quello che non è.
Sara M.
Ciao Sara. Sono un giornalista e questo è un blog. Quello che ho scritto, e che giustamente ti ha scandalizzato, in realtà raccoglie le riflessioni di tante persone, tanti filosofi, tanti cristiani, che per secoli hanno riflettuto sul ruolo del corpo nella cristianità. Uso un linguaggio esplicito dovuto all’uso di termini psicanalitici (come perversione), ma sono termini scientifici, nel senso che sono precisi, tutt’altro che calunniosi. Queste cose così forti che dico sono in realtà molto note nella patristica, anche se non vengono utilizzati termini diversi. Ora però vorrei che non mi chiedessi di non scrivere, è una cosa molto brutta da dire. Se davvero desideri questo, non avresti dovuto commentare, non avresti dovuto leggermi, perché chiedere a una persona di non scrivere scrivendogli un commento a cui lui risponderà scrivendo, questa è perversione. So che mi odi. Io no. Ciao.