Chi sono i terroristi/5 – Universalismo

tumblr_inline_nbq9vzbv5w1qzg9ge

[Ripubblico un pezzo scritto l’11 settembre 2014 sull’universalismo. Lo spunto fu allora un articolo di Slavoj Žižek sul caso di Rotherham. Universalismo è il contrario di relativismo e della tolleranza volteriana. Il primo è una specie di sofismo infinito che annichilisce ogni diversità, la seconda, allo stesso modo ma all’inverso, tollera chiunque, anche gli intolleranti. In entrambi i casi è buonismo che maschera ignavia, incapacità di prendere posizione. Universalismo è invece la selezione di valori da parte di una cultura dominante. Sembra esattamente la concezione colonialista dell’umanismo che ci ha portato in questo disastro, ma la differenza sta nella definizione di “cultura dominante”: non è la cultura dei bianchi ricchi ma al contrario l’Europa multiculturale che chiede a tutti cosa sia universale e cosa no. Se l’universalismo umanista storico dell’Europa è esclusivo, questo è inclusivamente selettivo: tutti possono parteciparvi, a patto però che si voglia la partecipazione di tutti. È uno sforzo complicato, pericoloso (perché si dovranno scardinare i privilegi), ma più onesto e autentico di un generico universalismo umanista che non è altro che colonialismo mascherato. Questo universalismo pratico, positivo, è lo sforzo di dettare diritti al fine di emancipare tutti. Ma se questa cultura dominante include gli emancipati, su cosa domina? Su chi vorrebbe una società divisa tra sfruttati e sfruttatori, che resterà sempre un’alternativa allettante. Attenzione, vi domina culturalmente, non economicamente, altrimenti non sarebbe nuovamente che la divisione tra sfruttati e sfruttatori. L’universalismo di cui si parla è frastagliato e frastorna chiunque vi partecipa mettendo in discussione i privilegi di cui gode]

«Bisognerebbe evitare di farci intrappolare nel gioco progressista di “quanta tolleranza nei confronti dell’altro possiamo permetterci”: dovremmo tollerare che si picchino le donne, che si obblighino i figli a matrimoni combinati, che si brutalizzino i gay e così via? Messa in questi termini, naturalmente, non siamo mai abbastanza tolleranti, oppure siamo sempre troppo tolleranti, perché trascuriamo i diritti delle donne.

L’unico modo per uscire da questa impasse è proporre un progetto positivo universale condiviso da tutti i partecipanti e lottare per la sua realizzazione. Proprio per questo, un compito cruciale di chi oggi combatte per l’emancipazione è superare il semplice rispetto per gli altri e avviarsi verso una vera Leitkultur [cultura dominante] emancipatrice, la sola che può sostenere un’autentica coesistenza e mescolanza di culture diverse.
Il nostro assioma dovrebbe essere che la lotta contro il neocolonialismo occidentale così come la lotta contro il fondamentalismo, la lotta di Wikileaks e di Edward Snowden così come la lotta contro l’antisemitismo così come la lotta contro il sionismo aggressivo sono parte di una stessa e unica lotta universale. Se ci perdiamo nei compromessi, la nostra vita non merita di essere vissuta».

Slavoj ŽižekRotherham e i limiti della società multiculturale, Internazionale 5/11 settembre 2014, n. 1067, p. 35.

—-

Il discorso del filosofo sloveno coglie due punti sostanziali relativi all’efficacia delle politiche di emancipazione.

1. I principi universali non possono essere induttivi ma soltanto deduttivi. Non ci si può “mettere d’accordo” sulla base delle identità delle comunità umane concrete che coesistono in uno stesso territorio. Così facendo si determina soltanto il gioco infinito delle classi dominanti con la loro concezione della tolleranza, la loro leitkultur, ovvero esattamente quello che accade oggi, con l’aggravante che questo “gioco delle tolleranze” è travestito da un finto multiculturalismo, una politica pseudo-egualitaria che resta tale fintantoché non tocca gli interessi di chi la promuove.
Invece i principi universali di una sana convivenza multiculturale sono, purtroppo, deduttivi. Dico purtroppo perché sono per forza di cose campati in aria: idee, principi, assiomi etici che solo in un secondo momento vanno “indotti” ovvero, come dice Zizek, “condivisi da tutti i partecipanti”, “lottando per la loro realizzazione”. Lottando per la loro realizzazione? “Ma basta con le guerre e la violenza, vogliamo la pace” afferma chi è già emancipato. “Anche noi vogliamo la pace, ma per ottenerla dobbiamo lottare” replicano quelli che non sono emancipati. Il concetto di lotta porta al secondo punto sostanziale per realizzare una politica di emancipazione su principi universali dedotti.

2. C’è un’universalità di fondo in tutte le eterogenee lotte di emancipazione a cui assistiamo in questi anni. Non si tratta però di un’universalità che balza agli occhi, sostanziale, evidente, ma di un’universalità nascosta che va tirata fuori per i capelli. È un’universalità partecipativacoattiva: questa universalità la dobbiamo trovare, non è lei che trova noi.
Ora però il punto 1, che i principi universali di emancipazione sono essenzialmente deduttivi, rischia di restare un postulato astratto se non prende spunto da qualcosa di concreto. L’eterogeneità delle lotte di emancipazione moderne potrebbe essere la concretezza di cui hanno bisogno i principi di emancipazione universale. L’eterogeneità di eventi quali la primavera araba, le lotte di Wikileaks per la libertà di informazione, il sacrificio di Edward Snowden per la libertà dei cittadini occidentali, la lotta delle Pussy riot contro l’establishment russo, ma anche le proteste di Ferguson contro la polizia che spara ai negri, sono tutte lotte che hanno qualcosa in comune tra loro, pur rivendicando interessi politici diversi, finanche interessi di classe, di lobby, di mestieri, differenti.

Scoprire quale sia questo qualcosa di comune, riordinarlo in un quadro di principi universali da negoziare tra le comunità umane, è lo scopo di ogni politica di emancipazione. Questi principi, essendo dedotti idealmente e non indotti praticamente, non possono che essere massimamente generici ma proprio per questo massimamente etici:

• Il profitto è il valore dello sfruttamento.
• I soldi sono uno strumento, non lo scopo (tecnicamente è merda vitale).
• La finanza attuale non può più essere tollerata come strumento per arricchirsi, va limitata e regolamentata, oppure eliminata, perché il concetto di ricchezza che concepisce non è di tipo distributivo ma speculativo, basato su un finto liberalismo che rivendica una finta propria ricchezza fatta di finti solitari sforzi quando in realtà sono il frutto degli sforzi anche di altri, i quali prendono le briciole, se non nulla (vedi profitto come valore di sfruttamento).

Una volta tutti questi principi si raccoglievano nel concetto di “comunismo”. Ma c’è un tempo anche per le parole. Fortunatamente non per i principi che in esso sono contenuti, che sono immortali.

Riordinare i principi universali e negoziarli tra le comunità umane per una sana convivenza sono il fondamentalmente passo che l’umanità, da quando è nato il comunismo, ha sempre mancato di fare. Fallendo, grandiosamente o miseramente, proprio un attimo prima.

Chi sono i terroristi/4 – Il desiderio del fondamentalista

Superuomo

di Slavoj Žižek

[Questo articolo è uscito su The New Statesman il 10 gennaio 2015 e tradotto in italiano da Le parole e le cose]

Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.

Ecco perché trovo insufficienti i richiami alla moderazione sulla falsariga dell’appello di Simon Jenkins («The Guardian», 7 gennaio), secondo il quale il nostro compito è quello di «non reagire eccessivamente, di non pubblicizzare eccessivamente le conseguenze dell’accaduto. È invece quello di trattare ogni evento come un episodio di orrore passeggero». L’attacco a Charlie Hebdo non è stato un mero «episodio di orrore passeggero»: seguiva un preciso piano religioso e politico e, come tale, era parte di uno schema molto più ampio. Certo: non dobbiamo reagire eccessivamente se per questo si intende soccombere a una cieca islamofobia – dovremmo però analizzare questo piano in modo spregiudicato.

Continua a leggere su Le parole e le cose

La maggioranza invisibile

maxresdefault

La maggioranza invisibile è profitto che finisce sempre nelle tasche di qualun altro, è manodopera qualificata ma a basso costo, è elusione continua delle regole per far galleggiare un paese al collasso. La maggioranza invisibile è ricerca vana di un asilo, è scelta fra la carriera e l’avere un bambino. La maggioranza invisibile è studio non riconosciuto, è lavoro in un call center a 370 euro al mese, è figli a carico sostenuti a stento. La maggioranza invisibile è pause sigaretta, è caffè bevuti in serie alla macchinetta. La maggioranza invisibile è solitudine, è tensione precaria non protetta.

La maggioranza invisibile è una pensione da 500 euro, è un figlio disoccupato da mantenere, è un migrante che cerca fortuna. La maggioranza invisibile è raccolta di arance a 15 euro al giorno, è nottate passate in un capannone, è quattordici ore di lavoro sognando un futuro migliore. La maggioranza invisibile è il vicino colto che vive a stento, è tua sorella che lavora senza contratto celando il malcontento. La maggioranza invisibile è forza trainante dell’economia, è schiavitù legalizzata al soldo di chi non produce niente, è pagamento a rate postdatate per i lussi dei garantiti. La maggioranza invisibile è numero che cresce dimenticato, è gruppo sociale in potenza che continua a passare inosservato. La maggioranza invisibile è l’unica speranza per un paese stanco e vecchio. La maggioranza invisibile è la reincarnazione di antiche lotte, è storie di vita comune che un giorno potrebbero farsi racconto.

La maggioranza invisibile di Emanuele Ferragina citata qui (La maggioranza invisibile, Bur, Milano 2014, pp. 248-249), più che la “maggioranza silenziosa” di Nixon richiama gli inesistenti del filosofo francese maoista Alain Badiou. Questi sono molto più poveri di quelli. Sono i riot di Londra, i popoli della Primavera Araba, Occupy Hong Kong e Wall Street, i cittadini di Iguala scesi in strada per chiedere giustizia sugli studenti uccisi dal sindaco, gli indignados spagnoli. Ma invisibili e inesistenti hanno dalla loro diversi punti in comune. Nonostante l’impossibilità di essere visti, sono contati, nel senso che contano per la società, sono forza lavoro a basso costo di una certa importanza, quindi in comune hanno lo sfruttamento. Infine sono eterogenei tra loro, non appartengono a una classe specifica.

Quell’idiota di Derrida

profesorharvey

Un anno ho cercato di leggere Il capitale con un gruppo che seguiva il programma di lingue romanze della Johns Hopkins. Con mia immensa frustrazione, dedicammo quasi l’intero semestre al primo capitolo. Io ripetevo: «Dobbiamo andare oltre, per arrivare almeno alla trattazione della “Giornata lavorativa”», e la risposta era sempre: «No, no, no, dobbiamo chiarire bene. Cos’è il valore? Cosa dobbiamo intendere con denaro e merce? Cos’è il feticcio?» e così via. Usavano anche l’edizione tedesca per accertarsi della traduzione. Scoprii anche che essi si ispiravano a qualcuno che non avevo mai sentito nominare, che pensai dovesse essere un idiota dal punto di vista politico, se non addirittura da quello intellettuale, per aver diffuso un approccio simile. Questa persona era Jacques Derrida.

David HarveyIntroduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro, La Casa Usher, Firenze 2012, p. 15.

Un nuovo “muodo de vivere”

Antica gracia

«Nelle società fondate sulla tradizione orale, la memoria della comunità tende involontariamente a mascherare e riassorbire i mutamenti. Alla relativa plasticità della vita materiale corrisponde cioè un’accentuata immobilità dell’immagine del passato. Le cose sono sempre andate così; il mondo è quello che è. Soltanto nei periodi di acuta trasformazione sociale emerge l’immagine, generalmente mitica, di un passato diverso e migliore – un modello di perfezione, di fronte a cui il presente appare come uno scadimento, una degenerazione. “Quando Adamo zappava e Eva filava, chi era nobile?”. La lotta per trasformare l’assetto sociale diventa allora un tentativo consapevole di tornare a quel mitico passato».

Carlo GinzburgIl formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 2009. p. 91.

La particolarità della crisi contemporanea è che la trasformazione del glorioso passato è ostaggio degli estremismi di destra. A tutti piace Tolkien e il suo meraviglioso mondo fatto di Virtù, Natura e Morale, ma solo gli xenofobi l’hanno inserito nel loro immaginario.

Estremista è ogni visione gloriosa del passato, altrimenti come la fai la rivoluzione? La differenza con qualche generazione fa – quella in cui Nietzsche e Wagner annunciavano e cantavano una gloria che apparteneva a tutti, universale – è che questo estremismo è stato consegnato a chi di tutta questa Storia della Crisi, di questa dinamica della crisi (quella in cui il passato diventa migliore del presente e quest’ultimo va trasformato in un passato che esiste solo nella mente di chi vive nel presente) non ne sa nulla, la vive ma non la sa. La conseguenza è che la crisi è in mano al conservatore, l’estremista di destra, col risultato di radicare e rendere ancora più immobile il presente, riducendo l’immaginario del passato alla sola delizia tolkeniana.

Domenico Scandella detto Menocchio

Bruno-4

Sull’uso del latino nei tribunali:

«Io ho questa opinione, che il parlar latin sia un tradimento de’ poveri, perché nelle litte li pover’homini non sano quello si dice et sono strussiati, et se vogliono dir quatro parole bisogna haver un avocato»

Sulla libertà confessionale:

«La maestà de Dio ha dato il Spirito santo a tutti: a christiani, a heretici, a Turchi, a Giudei, et li ha tutti cari, et tutti si salvano a uno modo»

Sulle leggi e i comandamenti:

«Mercantie»

Sul battesimo:

«Credo che subito nati siamo batteggiati, perché Iddio ci bateza che ha benedetto ogni cosa; et quel battezar è un’inventione, et li preti comenzano a magnar le anime avanti che si nasca, et le magnano continuamente sino doppo la morte»

Sulla cresima:

«Credo sia una mercantia, invention delli homini, quali tutti hanno il Spirito santo, et cercan di saper et non sano niente»

Sul matrimonio:

«Non l’ha fatto Iddio, ma l’hanno fatto li homini: prima l’homo et la donna si davan la fede, et questo bastava; et doppo son venute queste invention dalli homini»

Sugli ordini:

«Credo che il spirito de Dio sia in tutti, … et credo che ognuno che havesse studiato potesse esser sacerdote, senza esser sacrato, perché sono tutte mercantie»

Sull’estrema unzione:

«Credo che sia niente et non vaglia niente, perché si onge il corpo et il spirito non si può ongere»

Sulla confessione:

«Andare a confessar da preti et frati tanto è che andar da un arboro. Se quel arboro sapesse dar la cognitione della penitentia, tanto basterebbe; et se vanno alcuni homini da sacerdoti per non sapper la penitentia che se ha da far per li peccati, accioché ghe la insegnio, che se la sapessero non bisognerebbe andare, et quelli i quali la sano non accade che vadino»

Sui santi:

«Io credo che li santi siano stati homini da bene, et fatte bone opere, et per questo il Signor Iddio li ha fatti santi et credo che pregano per noi. Quanto alle loro reliquie, come sarebbe un brazzo, corpo, testa, mano o gamba, credo che siano come li nostri quando sono morti, et non si debbano adorar né riverire…non si debbe adorar le loro imagini, ma solamente il solo Iddio che ha fatto il cielo et la terra; non vedere che Abram buttò per terra tutti li idoli et tutte le imagini, et adorò il solo Iddio?»

Su Gesù:

«Ha giovato…a noi christiani, in quanto ne è stato specchio che sì come lui è stato paciente a patir per amor nostro, che noi moremo et patemo per amor suo, et non ci facciamo maraveglia se noi moriamo perché Dio ha voluto che morì il fiol suo»

Ma Cristo era soltanto un uomo, e tutti gli uomini sono figli di Dio,

«di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso»

Così, sul Cristo redentore:

«Se uno ha peccati, bisogna che lui faccia la penitentia»

Sulla transustanzazione:

«Non vedo lì altro che un pezzo di pasta, come puol star che sia questo Domenedio? et che cosa è questo Domenedio? altro che terra, aqua et aere. Io ho detto che quella hostia è un pezzo de pasta, ma che il Spirito santo vien dal cielo in essa, et così veramente credo»

Sullo Spirito santo:

«Credo che sia Iddio»

L’Inquisizione: quante sono le persone della Trinità?

«Il Padre, Figliolo et Spirito santo»

I: in quale di queste tre persone credete che si converta quell’hostia?

«Nel Spirito santo»

I: che persona precise della santissima Trinità crede che sia in quell’hostia?

«Credo che sia il Spirito santo»

I: quando che dal vostro pievano son stati fatti sermoni del santissimo sacramento, che cosa ha detto che sia in quella santissima hostia?

«Ha detto che è il corpo de Christo, nondimeno io credeva che fusse il Spirito santo, et questo perché credo che il Spirito santo sia maggior de Christo che era homo, et il Spirito santo è venuto dalla man de Dio. Mi piace il sacramento che quando uno è confessà si va a communicar, et si piglia il Spirito santo, et il spirito sta allegro…; quanto al sacramento dell’eucarestia, è una cosa di governar li homini, cavata da homini per Spirito santo; et il dir la messa è trovata dal Spirito santo, et così l’adorar l’hostia, per far che li homini non sian come le bestie»

Domenico Scandella, detto Menocchio, contadino friulano, interrogato dall’Inquisizione il 28 aprile 1584. In Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 2009, pp. 1-15.

Il formaggio e i vermi

Menocchio

«Io ho detto che quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto signor con quattro capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volse farsi signor alla comparation del re, che era la maestà de Dio, et per la sua superbia Iddio commandò che fusse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, et il populo in gran multitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati. La qual multitudine, non facendo li commandamenti de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso.

Io non ho detto mai che si facesse picar come una bestia. Ho ben detto che si lassò crucificar, et questo che fu crucifisso era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, et di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso; et ora homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque de s. Iseppo et de Maria vergine».

Domenico Scandella, detto Menocchio, coetaneo di Giordano Bruno. In Carlo GinzburgIl formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 2009, p. 8.

Illustrazione di Alberto MagriDomenico Scandella, detto Menocchio.

Musica(lità) e oralità

image

«L’interazione diretta con il pubblico può influire sulla stabilità verbale: le aspettative del pubblico possono infatti contribuire a fissare temi e formule. Ho visto confermata l’importanza delle aspettative in una mia esperienza personale. Alcuni anni fa stavo raccontando la storie dei “Tre Porcellini” a una mia nipotina, ancora abbastanza piccola da conservare una mentalità orale nonostante l’ambiente letterato circostante. A un certo punto dissi: “Egli soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffò, e soffiò e sbuffo”. Cathy si arrabbiò per la formula che avevo usato. Lei conosceva bene la storia, e la mia formula non era quella che si aspettava. Esclamò imbronciata: “Egli soffiò e sbuffò, e sbuffò soffiò, e soffiò e sbuffò”. Io modificai la mia narrazione, accondiscendendo alle richieste del mio pubblico, come spesso hanno fatto altri narratori orali».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 113.

—-

L’oralità, essendo suono, non ha la possibilità di concretizzarsi visivamente, per cui il processo di memorizzazione segue un percorso diverso rispetto alla scrittura. Ricordare ciò che si ascolta richiede ridondanza, invece ciò che è scritto non va necessariamente ricordato, basta riprendere in mano il testo (da qui l’invettiva di Platone contro il pharmacon della scrittura).

Perciò, come per la musica, la formula orale deve accontentare due elementi: ritmo e armonia, che sommati insieme danno eleganza. “Sbuffò” e “soffiò” sono parole che si ripetono tre volte ciascuna, e ciascuna viene ripetuta consecutivamente alla fine e all’inizio della frase successiva, rendendo più facile la memorizzazione di tre sequenze che somigliano a un accordo: alla formula “sbuffò e soffiò” ne seguono due che iniziano con l’ultima parola pronunciata. Tutte e tre esauriscono la combinazione possibile di due parole. Totale: tre formule, con la terza che ripete la prima: armonia.

Nonno Ong ripeteva in modo meccanico e uguale la stessa sequenza rendendone difficile la memorizzazione: tanto vale ripeterlo una volta sola, come se fosse scritto. Ripeterlo tre volte, uguale, a voce, sarebbe la cacofonia della musica mistica, o dance, che è funzionale allo sballo, quando qui siamo di fronte alla lirica di un racconto che deve trasportare l’immaginazione più che il corpo. Cathy, come ogni racconto insegna, desidera qualcosa di armonioso e ritmico.

Cultura orale

«All’estremo nord, dove c’è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta all’estremo nord e lì c’è sempre la neve. Di che colore sono gli orsi lì?»
«Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti. Ogni località ha i suoi animali».
«Stando alle vostre parole, tutti gli orsi devono essere bianchi».

«Spiegate cos’è un albero».
«Perché dovrei, tutti sanno che cos’è un albero, non c’è bisogno che glielo dica io».
«E come potreste definirlo in due parole?».
«In due parole, melo, olmo, pioppo».

«Se arrivaste in un posto dove non ci sono auto, cosa direste alla gente per spiegare che cosa esse sono?».
«Direi che hanno quattro zampe, delle sedie davanti per mettersi a sedere, un tetto per ripararsi e un motore. Ma poi direi: se ci sali per farci un giro, scoprirai cos’è».
«È fatta in fabbrica. In un solo viaggio può percorrere la distanza che un cavallo percorrerebbe in dieci giorni, tanto va in fretta. Cammina con l’aiuto del fuoco e del vapore. Si accende il fuoco, così l’acqua bolle e si trasforma in vapore, il vapore dà forza alla macchina. Non so se ci sia l’acqua in un’auto, ma ce ne deve essere. L’acqua non basta però, ci vuole anche il fuoco».

«Che uomo siete, com’è il vostro carattere, che qualità e che difetti avete, come vi descrivereste?».
«Sono venuto qui dall’UchKurgan, ero molto povero, adesso mi sono spostato e ho dei bambini».
«Ma che difetti avete?».
«Quest’anno ho seminato un pud di grano, e un po’ alla volta correggeremo i difetti».

«Che tipo di persona sei?»
«Cosa posso dire del mio cuore? Come posso parlare del mio carattere? Chiedete agli altri, loro possono dirvi di me, non io».

Domande su persone a bassa alfabetizzazione in Uzbekistan e Kirghizia, anni 1931-32. Aleksandr Romanovič LurijaStoria sociale dei processi cognitivi, Giunti-Barbera, Firenze 1976, pp. 99 ss, in Walter J. OngOralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 99 ss.

L’antica usanza di insultare la madre

image

«Vantarsi del proprio coraggio e/o irridere il nemico sono atti che regolarmente ricorrono nella narrativa: nell’Iliade, nel Beowulf, nelle storie cavalleresche medievali europee, nell’Epica di Mwindo e in innumerevoli altri racconti africani, nella Bibbia. Comune a tutte le società a cultura orale di tutto il mondo è l’insulto reciproco, denominato flyting o fliting dai linguisti.
Cresciuti in una cultura ancora prevalentemente orale, alcuni giovani neri degli Stati Uniti, dei Caraibi e di altri luoghi si impegnano in ciò che nel gergo dei neri è chiamato dozensjoning, o sounding, un gioco, in cui ogni partecipante tenta di superare gli altri nell’insultarne la madre».

Walter J. OngOralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, p. 90.