Che cos’è una politica di emancipazione

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«Bisognerebbe evitare di farci intrappolare nel gioco progressista di “quanta tolleranza nei confronti dell’altro possiamo permetterci”: dovremmo tollerare che si picchino le donne, che si obblighino i figli a matrimoni combinati, che si brutalizzino i gay e così via? Messa in questi termini, naturalmente, non siamo mai abbastanza tolleranti, oppure siamo sempre troppo tolleranti, perché trascuriamo i diritti delle donne.

L’unico modo per uscire da questa impasse è proporre un progetto positivo universale condiviso da tutti i partecipanti e lottare per la sua realizzazione. Proprio per questo, un compito cruciale di chi oggi combatte per l’emancipazione è superare il semplice rispetto per gli altri e avviarsi verso una vera Leitkultur [cultura dominante] emancipatrice, la sola che può sostenere un’autentica coesistenza e mescolanza di culture diverse.
Il nostro assioma dovrebbe essere che la lotta contro il neocolonialismo occidentale così come la lotta contro il fondamentalismo, la lotta di Wikileaks e di Edward Snowden così come la lotta contro l’antisemitismo così come la lotta contro il sionismo aggressivo sono parte di una stessa e unica lotta universale. Se ci perdiamo nei compromessi, la nostra vita non merita di essere vissuta».

Slavoj Zizek, Rotherham e i limiti della società multiculturale, Internazionale 5/11 settembre 2014, n. 1067, p. 35.

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Il discorso del filosofo sloveno coglie due punti sostanziali relativi all’efficacia delle politiche di emancipazione.

1. I principi universali non possono essere induttivi ma soltanto deduttivi. Non ci si può “mettere d’accordo” sulla base delle identità delle comunità umane concrete che coesistono in uno stesso territorio. Così facendo si determina soltanto il gioco infinito delle classi dominanti con la loro concezione della tolleranza, la loro leitkultur, ovvero esattamente quello che accade oggi, con l’aggravante che questo “gioco delle tolleranze” è travestito da un finto multiculturalismo, una politica pseudo-egualitaria che resta tale fintantoché non tocca gli interessi di chi la promuove.
Invece i principi universali di una sana convivenza multiculturale sono, purtroppo, deduttivi. Dico purtroppo perché sono per forza di cose campati in aria: idee, principi, assiomi etici che solo in un secondo momento vanno “indotti” ovvero, come dice Zizek, “condivisi da tutti i partecipanti”, “lottando per la loro realizzazione”. Lottando per la loro realizzazione? “Ma basta con le guerre e la violenza, vogliamo la pace” afferma chi è già emancipato. “Anche noi vogliamo la pace, ma per ottenerla dobbiamo lottare” replicano quelli che non sono emancipati. Il concetto di lotta porta al secondo punto sostanziale per realizzare una politica di emancipazione su principi universali dedotti.

2. C’è un’universalità di fondo in tutte le eterogenee lotte di emancipazione a cui assistiamo in questi anni. Non si tratta però di un’universalità che balza agli occhi, sostanziale, evidente, ma di un’universalità nascosta che va tirata fuori per i capelli. È un’universalità partecipativacoattiva: questa universalità la dobbiamo trovare, non è lei che trova noi.
Ora però il punto 1, che i principi universali di emancipazione sono essenzialmente deduttivi, rischia di restare un postulato astratto se non prende spunto da qualcosa di concreto. L’eterogeneità delle lotte di emancipazione moderne potrebbe essere la concretezza di cui hanno bisogno i principi di emancipazione universale. L’eterogeneità di eventi quali la primavera araba, le lotte di Wikileaks per la libertà di informazione, il sacrificio di Edward Snowden per la libertà dei cittadini occidentali, la lotta delle Pussy riot contro l’establishment russo, ma anche le proteste di Ferguson contro la polizia che spara ai negri, sono tutte lotte che hanno qualcosa in comune tra loro, pur rivendicando interessi politici diversi, finanche interessi di classe, di lobby, di mestieri, differenti.

Scoprire quale sia questo qualcosa di comune, riordinarlo in un quadro di principi universali da negoziare tra le comunità umane, è lo scopo di ogni politica di emancipazione. Questi principi, essendo dedotti idealmente e non indotti praticamente, non possono che essere massimamente generici ma proprio per questo massimamente etici:

• Il profitto è il valore dello sfruttamento.
• I soldi sono uno strumento, non lo scopo (tecnicamente è merda vitale).
• La finanza attuale non può più essere tollerata come strumento per arricchirsi, va limitata e regolamentata, oppure eliminata, perché il concetto di ricchezza che concepisce non è di tipo distributivo ma speculativo, basato su un finto liberalismo che rivendica una finta propria ricchezza fatta di finti solitari sforzi quando in realtà sono il frutto degli sforzi anche di altri, i quali prendono le briciole, se non nulla (vedi profitto come valore di sfruttamento).

Una volta tutti questi principi si raccoglievano nel concetto di “comunismo”. Ma c’è un tempo anche per le parole. Fortunatamente non per i principi che in esso sono contenuti, che sono immortali.

Riordinare i principi universali e negoziarli tra le comunità umane per una sana convivenza sono il fondamentalmente passo che l’umanità, da quando è nato il comunismo, ha sempre mancato di fare. Fallendo, grandiosamente o miseramente, proprio un attimo prima.

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