Ho sparato per sbaglio: quis custodiet ipsos custodes?

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Vorrei tanto leggere qualcosa che metta a confronto i fattacci di Ferguson con Rione Traiano. Scovarci le differenze sostanziali e i punti in comune.

Una differenza sostanziale forse non c’è, perché se nella cittadella americana abbiamo a che fare con “negri”, nel quartiere napoletano abbiamo a che fare con “tamarri” e “malamenti”. Se lì è razzismo, qui è classismo.

Forse la differenza sostanziale tra Ferguson e Rione Traiano (nomino il quartiere e non la città perché così non rischio di evocare la retorica della “Napoli violenta”) risiede nella differente sicurezza di sé delle due istituzioni. Un poliziotto degli Stati Uniti mai si sognerebbe di affermare che un colpo diretto nel petto di una persona disarmata sia “partito per sbaglio”: oltre ad essere una palese bugia, non farebbe certamente onore a colui che lo afferma. Sarebbe come se un corridore facesse una buona gara “per sbaglio”. Un poliziotto statunitense, più repressivo e orgoglioso di uno italiano per temperanza e storia nazionale, troverebbe assurdo sostenere di non aver avuto il controllo della propria arma. Un americano che sentisse ammettere da un poliziotto connazionale di aver sparato per sbaglio sarebbe come un italiano che sentisse da un connazionale ammettere di aver cucinato un’ottima pasta “senza farlo apposta”. Il poliziotto americano ha la lungimiranza di dire, con disonestà, che “è stata legittima difesa”, tanto sa che la sua “Arma” lo difenderà sempre.
Un italiano invece la stupidità di non ammetterlo, pur sapendo che in ogni caso la farebbe franca. Perché l’Arma, il corpo della Polizia, lo stato di polizia in generale in tutte le parti del mondo sono insieme dentro e nello stesso tempo al di fuori della legge. Perché? Perché a differenza del cittadino comune, che poliziotto non è, il poliziotto la legge deve farla rispettare.

Qui in Italia, tra i vari Aldrovandi e Cucchi, a differenza degli Stati Uniti c’è l’esautorazione del gesto: non volevo sparare. Quasi come se una pistola di quasi un chilo di peso sparasse da sola. Negli Stati Uniti c’è la virile responsabilità dell’azione, a sua volta vilmente giustificata (“ero in pericolo di vita”).

Questi avvenimenti, accaduti in contesti differenti tra loro, che sia un “negro” o un “tamarro-malamente” a rimetterci le cuoia, rivelano l’elemento fondamentale in comune, il fattore che rivela come un lampo la vera natura dello stato di polizia: sarà sempre al di sopra della legge, per cui se reagisce eccessivamente, commettendo un omicidio non necessario, può scegliere se perseguirsi oppure no, e state sicuri che sceglierà sempre, per puro istinto di conservazione, di non perseguirsi. Quando la polizia, il carabiniere, commettono un omicidio “per sbaglio” si pongono di fronte a un dilemma non da poco: mi auto-perseguo, applicando su di me la legge che applico sugli altri ma minando la mia stessa funzione (come applicare la legge se chi la applica commette illeciti come l’omicidio?), oppure mi auto-escludo dal giudizio legislativo a costo di perdere credibilità ma mantenendo la legittimità del mio mestiere?

È questo il dilemma a cui si sottopone ogni polizia del mondo quando commette una cazzata. È questo il motivo per cui è così vile quando si tratta di essere giudicata: in quanto polizia, non può fare altrimenti. I fascistelli dell’ultima o della prima ora che sono dalla parte del poliziotto in ogni fatto di questo tipo seguono coscientemente o no questa logica.
Tra legittimità e credibilità, la polizia di tutto il mondo deve sempre scegliere la prima se vuole continuare ad esercitare la sua funzione. 

Da qui la domanda capitale, a cui ancora non c’è una risposta: quis custodiet ipsos custodes? si domandava Giovenale. Who watch the Watchmen? ha ripetuto più recentemente Alan Moore.

La reazione esagerata del carabiniere è una vecchia questione, secolare, legata alla natura stessa dello stato di polizia: la polizia o il carabiniere è una figura morale in bilico. Protegge e castra, sorveglia e sopprime, salva e uccide. Esattamente come la legge.

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