Il selvaggio West e l’Altro

Il Petrified Forest National Park, Arizona, USA

Il Petrified Forest National Park, Arizona, USA

Il Sudovest è la parte meno americana degli Stati Uniti; come osservava la guida Wpa del New Mexico nel 1940, «in alcuni luoghi la vernice dell’americanizzazione è davvero sottile». Per questo motivo la regione attira dalla moderna America anglosassone e dall’Europa persone che sono alla ricerca di ciò che gli antropologi chiamano l’Altro. Il Sudovest consente di incontrare due categorie fondamentali dell’Altro, gli indiani e gli ispanici, senza neppure lasciare il Paese, ed è dunque un logico punto di partenza. Nel 1970 non lo sapevo ancora, ma era anch’io un fuggitivo. Per il momento il mio disagio nei confronti della cultura dominante mi aveva soltanto fatto capire che non volevo vivere in città. Non ero «un uomo da marciapiede» come affermava Georgia O’Keeffe, un altro membro del gruppo. Ma nei successivi venticinque anni, l’interesse per l’Altro, il desiderio di reinventare me stesso all’interno di una cultura alternativa, mi avrebbero portato a viaggiare in tutto il mondo. Le persone che si avventurano in una ricerca di questo genere hanno quattro mete privilegiate: il Sudovest americano, l’Amazzonia, l’Africa e il Tibet. Io le avrei visitate tutte, tornando nel Sudovest più di dodici volte. Il Sudovest sarebbe stato il termine di paragone su cui avrei valutato i miei progressi, e lì avrei incontrato o conosciuto indirettamente altri individui di cultura anglosassone come me, anime affini, compagni di fuga che erano stati attirati da questa assolata e mistica parte del mondo, dove molte zone non sono sintonizzate sulla lunghezza d’onda degli Stati Uniti. E fu nel Sudovest che compresi finalmente come la mia ricerca partisse da un presupposto sbagliato, poiché non esiste un’alterità indipendente dalle proiezioni di ciascuno, e la abbandonai. A quel punto avevo viaggiato così tanto che nulla mi sembrava esotico. Avevo capito che nessun modello sociale è privo di aspetti venali. Potremmo dire che avevo incontrato l’Altro, e l’Altro ero io.

Alex Shoumatoff, Leggende del deserto americano, Einaudi, Torino 2015, p. 16.

Scienza e filosofia secondo Enzo Melandri

albert-einstein-17542

«Che le scienze sorgano distaccandosi dalla filosofia è vero; ma è solamente una mezza verità. L’altra metà di questa mezza verità è che la filosofia sorge dalle crisi delle scienze, alimentandosi di quanto vi è in esse di non-scientifico: e le “crisi di fondazione” rivelano periodicamente che in ogni scienza c’è parecchia metafisica. Nondimeno tendiamo tutti a supporre che il distacco della scienza dalla filosofia sia calzante almeno per l’epoca moderna. Da Galilei in poi, tutte le scienze si sono costituite distaccandosi dalla filosofia.

Reciprocamente in epoca antica la filosofia comprendeva tutto e quindi le scienze non potevano rendersene autonome. Ma è proprio vero che sia sorta prima la filosofia e poi le scienze? – Non è vero. Le prime arti-scienze particolari sono sorte nel neolitico. La filosofia greca è la razionalizzazione della crisi che esse subiscono quando pervengono a coesistere nel superiore, più complesso e difficile livello organizzativo della polis. Il progresso accusa quindi una battuta di arresto. Poi, duemila anni dopo, viene il mondo moderno, che è una specie di neo-neolitico. Le seconde scienze-tecniche particolari si distaccano dalla filosofia del primo periodo di crisi e si riapre la vicenda del progresso. Anche qui le cose vanno avanti bene, fino a che le scienze possono sopportare la crisi a cui di nuovo vengono soggette per il fatto stesso di dover coesistere nel superiore, più complesso e difficile livello organizzativo del moderno capitalismo. Ma a questo punto sorge il marxismo, il quale in ultima analisi consiste nella profezia che il progresso dovrà nuovamente accusare – e possibilmente per sempre – una battuta di arresto. La seconda filosofia, se la profezia è vera, sarà la razionalizzazione compendiaria di quest’ultima crisi, che per molti segni si annuncia come definitiva anche nel senso apocalittico.

Lasciamo stare l’inquietante problema del rapporto fra scienze e filosofia. (Noi personalmente tendiamo a credere che anche un mediocre filosofo e per di più del tutto dissenziente con le nostre idee tipo Terenzio Mamiani della Rovere sia superiore per intelligenza complessiva a uno scienziato di tutta simpatia e indiscussa autorità tipo Einstein: ma è una privata opinione che palesiamo per solo scrupolo di onestà e che non vorremmo imporre ad alcuno). Una cosa è certa: ed è che le scienze alimentano la filosofia per lo meno tanto, quanto la filosofia le scienze. Al mondo nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma, e il totale rimane sempre tale e quale».

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 220-221.

Foto in alto (via)

Edward Snowden, la legge, il corpo e la lezione dei Wilco

Edward Snowden

Edward Snowden intervistato dal Guardian nel giugno del 2015

«Le persone che sostengono di non essere interessate alla privacy, perché non hanno niente da nascondere, non capiscono qual è la reale posta in gioco. È come se dicessero che non gli interessa la difesa di un loro diritto. Dire “non mi interessa della privacy perché non ho nulla da nascondere” è come dire “non mi interessa della libertà di espressione perché non ho niente da dire, né della libertà di stampa perché non ho niente da scrivere”.

Assistiamo a una tendenza preoccupante nelle democrazie più avanzate. I governi cercano di restringere sempre di più i limiti dei nostri diritti. Dopo le elezioni, il primo ministro britannico David Cameron ha pronunciato un discorso in cui insinuava che rispettare la legge non rende automaticamente esenti dall’interferenza del governo nella vita privata. Questo approccio è molto distante dall’impostazione tradizionale delle società liberali. La legge stabilisce i limiti di ciò che è consentito. Andare oltre questo concetto e sostenere che il governo non deve solo decidere ciò che è legale o meno, ma anche ciò che è appropriato, ragionevole o eccessivamente ardito, significa concedere alle autorità un potere che non ha precedenti nel mondo in cui siamo cresciuti. A questo punto dobbiamo chiederci se vogliamo che i nostri figli vivano in un mondo meno libero di quello che abbiamo ereditato.

Uno degli aspetti più tragici della restrizione dei nostri diritti, è che questi programmi non aiutano a combattere il terrorismo. Negli Stati Uniti due commissioni indipendenti hanno esaminato i programmi di sorveglianza analizzando informazioni segrete, e hanno stabilito che in nessuno caso la sorveglianza di massa ha dato un contributo rilevante nelle indagini contro il terrorismo. Sappiamo chi sono i responsabili di tutti gli attacchi, dal Canada all’Australia. La verità è che i governi erano a conoscenza della loro esistenza anche prima degli attacchi. Il problema non è che non sorvegliano abbastanza, ma che sorvegliano troppo, al punto da non capire cosa avevamo per le mani. Quando collezioni troppe informazioni e monitori tutto, poi non riesci a capire. E questo deve cambiare.

Ho già detto un paio di volte che una delle differenze più rilevanti tra la mia vita di oggi e quella prima del 2013, è che oggi lavoro molto più duramente rispetto al passato. Dormo meno e mi alzo prima la mattina, ma nonostante ciò mi sento molto soddisfatto del mio contributo. Avere la possibilità di aiutare, di fare qualcosa, di sentirsi parte di qualcosa di importante dopo essersi lasciati alle spalle la propria vita è qualcosa di gratificante.
Quando penso al futuro sento che c’è ancora molto da fare. Il mio lavoro non è concluso. Anzi, direi che è appena cominciato. Sì, abbiamo realizzato qualcosa, tutti noi che vorremmo cambiare le leggi e le politiche sbagliate. Qui non si tratta di far dimettere qualcuno perché ha sbagliato. Sono i sistemi a essere sbagliati. La nostra missione è migliorare i nostri meccanismi. Non solo adesso, ma sempre. Sarà un percorso lungo. Non dobbiamo cambiare solo le leggi, e i sistemi, dobbiamo cambiare i valori. Dobbiamo cambiare il mondo, non solo il nostro paese. Anche ipotizzando che ci sia una sorta di nuovo illuminismo, per esempio nel Regno Unito, in cui i politici approvano riforme per proteggere i nostri diritti e garantiscono il funzionamento democratico della società, una società in cui l’individuo possa fare affidamento sulla protezione della sua privacy, anche in questo caso, appena le comunicazioni superano i confini nazionali, possono essere rubate da tutti gli stati del mondo. Dobbiamo fare in modo che questi diritti siano garantiti non solo dalla legge, ma anche dagli standard tecnologici che si applicano anche fuori dai confini nazionali».

Estratti dell’intervista del Guardian ad Edward Snowden. (Li ho presi da Internazionale, qui, qui e qui)

Fill up your mind with all it can know, don’t forget that your body will let it all go

L’umanista illuminista  Snowden coagula in queste riflessioni la logica bio-logica della politica moderna.

1. Le leggi non intervengono più soltanto quando è in gioco la violazione di esse, ma si muovono prima, quando c’è il rischio che vengano violate. La legge, oggi, decide anche dei comportamenti “appropriati” (il velo), “ragionevoli” (togliersi le scarpe in aeroporto) o “eccessivamente arditi” (avvicinarsi liberamente a una sede istituzionale). Un uso siffatto della legalità restringe lo spazio del lecito, assottiglia il confine tra legale e illegale, rende sempre più difficile distinguere cosa è permesso e cosa no. Tutto è potenzialmente illecito, perché la legge può intervenire, giudicare e sanzionare in ogni aspetto della tua vita.

Si dice che ci si accorge della corporeità delle cose quando queste sono difettose o manchevoli. Ci si accorge della materialità del proprio braccio quando ce lo tagliano. Delle funzioni, completamente inconsce e autonome, del proprio corpo quando queste iniziano a perdere colpi, come quando invecchi. E il corpo dei vecchi non ci piace. Non ci piace ricordare, abbiamo paura di ricordare, vogliamo solo archiviare, immagazzinare, come quando registri un film promettendoti di riguardarlo mentre non lo farai mai. Ricordare è un’altra cosa. Ci fai i conti con quello che ricordi. È un processo di digestione e selezione.

2. Lo zombie è la metafora della sparizione dell’oblio. «Quando collezioni troppe informazioni e monitori tutto, poi non riesci a capire». La società di oggi somiglia sempre più a un morto vivente, a una gigantesca coazione a ripetere. Basta farsi un giro in aeroporto. Oggi si vuole ricordare tutto, con la conseguenza che si scordano un sacco di cose, come quando studi e non ti riposi un attimo. L’esame verrà una merda. L’oblio è fondamentale per ricordare. Fill up your mind with all it can know, don’t forget that your body will let it all go, cantano i Wilco in Wishful thinking. Nutriti, abboffati, scassati, ma poi lascia che il corpo metabolizzi per te. Come una bella cacata: ti metti per caso a selezionare cosa far uscire dall’ano? No, perché ti fidi del tuo corpo e lo lasci fare.

La società, oggi, non si fida più di nessuno, soprattutto dei corpi. È una checca isterica stitica. La straordinaria lezione di Snowden è che il controllo, per definizione, è defettibile.

Melandri e la superstizione

Stevie Wonder, che ha scritto "Superstition"

Stevie Wonder, che ha scritto “Superstition”

Bisogna riconoscere che nella nostra “epoca scientifica” la superstizione non è stata né vinta, né superata, né accantonata: ci si è limitati a tradurla in un altro linguaggio, che imita la scienza propriamente detta solo nel rituale, nel ritmo o nell’atteggiamento esteriore. Così come il ditirambo, in Platone, può ancora esser detto μíμησις τής πράξεως solo “per la mossa”. Nell’età della ragione – che secondo Comte è quella della scienza – la superstizione non è più, in primo luogo, quella religiosa; ma è invece proprio quella scientifica o, meglio, pseudo-scientifica; la quale è propria di coloro che della scienza non sanno nulla, all’infuori di ciò che se ne può ricavare per imitazione “ditirambica”

Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 144-145.

Che cos’è un racconto?

Sciamano delle Ande

Lo sciamano don Sergio, Ande

«Le fasi più antiche della storia vengono distinte tradizionalmente in base alla materia degli utensili adoperati: pietra, ferro, bronzo. Si tratta di una classificazione convenzionale, basata su elementi esterni. Ma è stato osservato che l’uso di utensili, per quanto decisivo, non contraddistingue in maniera specifica la specie umana. Anche se in misura molto limitata, esso è condiviso da altre specie animali. Solo la specie umana, invece, ha l’abitudine di raccogliere, produrre, ammassare o distruggere oggetti che hanno un’unica funzione, quella di significare: offerte agli dei o ai morti, suppellettili funerarie sepolte nelle tombe, reliquie, opere d’arte o curiosità naturali conservate in musei o collezioni. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, o semiofori (come sono stati definiti) hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile, ossia con eventi o persone lontani nello spazio o nel tempo, se non addirittura con esseri situati al di fuori di entrambi – morti, antenati, divinità. La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione di un’assenza […].

Si potrebbe essere tentati di riproporre la vecchia tesi che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, che l’individuo ripercorre nella sua crescita le tappe percorse dalla specie umana. L’osservazione del presente consentirebbe allora di afferrare un passato altrimenti inattingibile. Nel gesto del bambino di diciotto mesi, che (forse) rivive le reazione suscitate dall’assenza e dal ritorno della madre gettando lontano da sé un rocchetto avvolto in un filo, per ritrovarlo gioiosamente subito dopo, si è riconosciuto un modello di ripetizione simbolica, controllata e non coatta, del passato. Ma è lecito cercare le radici del simbolismo mitico-rituale nella psicologia infantile?
Ammettiamo pure che il bambino usi il rocchetto come un semioforo; che il rocchetto designi la madre, sia la madre. Un esempio basterà a illustrare le potenzialità e i limiti dell’analogia tra individuo e specie. L’uso di raccogliere le ossa degli animali uccisi per farli resuscitare è certamente molto antico. Proviamo a supporre una specie animale che tragga buona parte dei propri mezzi di sussistenza dall’uccisione di altre specie animali, vertebrate, reperibili in quantità non illimitata. Ci sono forti probabilità che questa specie finisca prima o poi con l’utilizzare le ossa degli animali uccisi come semiofori.
Bisogna però che alle condizioni già ricordate se ne aggiunga un’altra, decisiva: la specie in questione deve disporre già di quelle capacità simboliche che attribuiamo in maniera esclusiva alla specie homo sapiens. Con ciò il cerchio si chiude. L’origine ci è, per definizione, preclusa […].

Certa invece è la somiglianza profonda che lega i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell’aldilà, tornare dall’aldilà. Questo nucleo narrativo elementare ha accompagnato l’umanità per millenni. Le innumerevoli variazioni introdotte da società diversissime, basate sulla caccia, l’allevamento, l’agricoltura, non ne hanno modificato la struttura di fondo. Perché questa permanenza? La risposta è forse semplicissima. Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’essere stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice di tutti i racconti possibili».

Carlo GinzburgStoria notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, pp. 244-245 e 288-289.

La cosmogonia di Ceram

Un disegno di albero di banana

Un disegno di albero di banana

Secondo un mito sulle origini del genere umano raccolto nell’isola di Ceram (Molucche) la pietra voleva che gli uomini avessero un braccio solo, una gamba sola, un occhio solo, e fossero immortali; l’albero di banane, che avessero due braccia, due gambe, due occhi, e fossero capaci di generare. Nella disputa l’albero di banane ebbe la meglio: ma la pietra pretese che gli uomini fossero soggetti alla morte.

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, p. 223.

Lupi mannari

Nabucodonosor si trasforma in bestia, incisione su una Bibbia del XVIII secolo

Nabucodonosor si trasforma in bestia, incisione su una Bibbia del XVIII secolo

A Jürgensburg, in Livonia, nel 1692, un vecchio di ottant’anni di nome Thiess, che i compaesani consideravano un idolatra, confessò ai giudici che l’interrogavano di essere un lupo mannaro. Tre volte all’anno, disse, nelle notti di santa Lucia prima di Natale, di san Giovanni e della Pentecoste, i lupi mannari della Livonia vanno nell’inferno, «alla fine del mare» (più tardi si corresse: «sottoterra») per battersi contro il diavolo e gli stregoni. Anche le donne combattono contro i lupi mannari: non però le ragazze. I lupi mannari tedeschi si recano in un inferno separato. Simili a cani (sono i cani di Dio, disse Thiess) i lupi mannari inseguono, armati di fruste di ferro, il diavolo e gli stregoni, armati di manici di scopa avvolti in code di cavallo. Anni prima, spiegò Thiess, uno stregone (un contadino di nome Skeistan, ora morto) gli aveva rotto il naso. La posta delle battaglie era la fertilità dei campi: gli stregoni rubano i germogli del grano, e se non si riesce a strapparglieli viene la carestia. Quell’anno però sia i lupi mannari livoni sia quelli russi avevano vinto. Il raccolto di orzo e di segale sarebbe stato abbondante. Ci sarebbe stato anche pesce per tutti.

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008, p. 130.

(Immagine via)

Archeologia filosofica

La radiazione cosmica di fondo fotografata con un radiotelescopio

La radiazione cosmica di fondo fotografata con un radiotelescopio

La relazione tra archeologia e storia corrisponde a quella che, nella teologia islamica (ma anche, sia pure in modo diverso, nella teologia cristiana e giudaica), distingue e, insieme, congiunge redenzione e creazione, «imperativo» (amr) e «creazione» (khalq), profeti e angeli […]. L’opera della salvezza precede, nel rango, quella della creazione: di qui la superiorità dei profeti sugli angeli. (Nella teologia cristiana, le due opere, unite in Dio, sono assegnate nella Trinità a due persone distinte, il Padre e il Figlio, il creatore onnipotente e il redentore, in cui Dio si è svuotato della sua forza).

Decisivo, in questa concezione, è che la redenzione preceda nel rango la creazione. Essa non è un rimedio per la caduta delle creature, ma ciò che soltanto rende comprensibile la creazione, dà ad essa il suo senso. Per questo, nell’Islam, la luce del profeta è il primo degli esseri (così come, nella tradizione giudaica, il nome del messia è stato creato prima della creazione del mondo e, nel cristianesimo, il Figlio, pur generato dal Padre, gli è consustanziale e coevo) […].

La storia delle scienze umane, prima di entrare in una fase di recessione, ha conosciuto un’accelerazione decisiva per tutta la prima metà del XX secolo, quando la linguistica e la grammatica comparata hanno assunto in essa la funzione di «discipline pilota» […]. Proprio nel momento in cui la grammatica comparata, nel suo tentativo di ricostruire, attraverso l’esame di dati esclusivamente linguistici, non soltanto e non tanto i «nomi divini», quanto piuttosto le linee generali delle stesse «istituzioni indoeuropee», raggiungeva col Vocabulaire di Benveniste il suo vertice, si assisteva a una recessione generalizzata di un tale progetto e alla svolta della linguistica verso il modello formalizzato di tipo chomskiano, nel cui orizzonte epistemologico quella ricerca risultava difficilmente proponibile.

Se è vero che la ricerca aveva registrato un progresso significativo quando aveva abbandonato l’ancoraggio a una lingua presupposta come reale e a un popolo che la parlava […], tuttavia non era possibile in quella prospettiva recidere del tutto il collegamento al sostegno ontologico implicito nell’ipotesi.

Nella prospettiva dell’archeologia filosofica che qui si propone, il problema dell’ancoraggio ontologico va integralmente rivisto. L’arché verso cui l’archeologia regredisce non va intesa in alcun modo come un dato situabile in una cronologia; essa è, piuttosto, una forza operante nella storia, così come le parole indoeuropee esprimono un sistema di connessioni fra le lingue storicamente accessibili, il bambino nella psicoanalisi è una forza attiva nella vita psichica dell’adulto e il big bang, che si suppone aver dato origine all’universo, è qualcosa che continua a inviare verso di noi la sua radiazione fossile. Ma a differenza del big bang, che gli astrofici pretendono, anche se in termini di milioni di anni, di datare, l’arché non è un dato o una sostanza, bensì un campo di correnti storiche bipolari, tese tra l’antropogenesi e la storia, fra il punto di insorgenza e il divenire, fra un arcipassato e il presente.

Giorgio Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 107-111.

Agamben, che non è un astrofisico, né a quanto pare un astrofilo, non sapendo che in realtà il Big Bang non si data in milioni ma in miliardi di anni conferma involontariamente ancora di più la concezione di archeologia filosofica che propone. Che il big bang sia avvenuto ieri o quattordici miliardi di anni fa non importa: ciò che è in gioco nella conoscenza scientifica di ciò che accadde quando tutto ebbe inizio non è tanto cosa è veramente accaduto ma come la verità di ciò che è accaduto significhi per noi. La posizione del soggetto nel paradigma della conoscenza pone scienza e religione in una posizione strana, in uno stesso campo di battaglia dove epistemologia (conoscenza certa) ed ermeneutica (interpretazione) entrano in una soglia (per usare un termine caro ad Agamben) di indistinzione. L’assunto è che ogni conoscenza, la più obiettiva concepibile, è già un atto interpretativo, secondo l’efficace nietschismo per cui le interpretazioni sono quello che chiamiamo fatti.

Non ha importanza se esista o meno una lingua indoeuropea. Se fosse mai esistita è ormai andata perduta per sempre, ma anche se non fosse esistita nondimeno il linguista, domandandosi da dove venga la parola “Dio”, può rintracciarne un’origine attraverso la comparazione delle lingue esistenti, alla ricerca di un tessuto comune che non coincide con un’origine felice, con una società senza classi o con una buona società prima della nascita della comunità, piuttosto con una creativa conoscenza delle cose presenti. (Questa “creativa conoscenza delle cose presenti” è ciò che differenzia questa impostazione storico-ermeneutica dalle narrazioni restauratrici dell’estrema destra, che si appellano a un'”origine” letteralmente genealogica, realmente esistita, allontanandosi proprio così da ciò che è decisivo: un’origine indistinguibile dal presente storico; o meglio, un’origine che si “scopre” proprio a partire da ciò che ci preme, che ci urta, oggi).

È una prossimità indistinguibile tra fede e conoscenza, tra filologia e anatomia, tra visione diretta (scienze “tecniche”) e traduzione (scienze “umane”). Una vicinanza che scioglie ogni pretesa di rendere queste due attitudini della conoscenza due approcci separati al mondo delle cose (presunzione che riduce entrambe le “teorie” a una deiezione mondana, alla mercé della masticazione quotidiana dei telegiornali). Ogni volontà di tenere separato cielo e terra è votata al fallimento, perché volente o nolente è opportunista: mio caro Chomsky, questa distinzione tra formalismo ed estetica dell’interpretazione è talmente forzata da determinare una prossimità decisiva della prima alla “mano invisibile” del mercato e dell’economia capitalista, ormai lo sanno tutti.

Questa soglia di indistinzione, che compare ogni volta che la scienza si avvicina all’inizio dei tempi, alla conoscenza ultima, prima della quale c’è soltanto un vuoto pieno di energia – cosa che manda in brodo di giuggiole ogni fricchettone e spiritualista tecno-scientifico (“lo vedi, io l’ho sempre detto che lo Zen Buddista del Tao aveva ragione!) – è un concetto confermato non solo dai filosofi, ma anche dagli scienziati:

La teoria del Big Bang descrive come il nostro universo evolve, non come esso iniziò

James Peebles, in Wikipedia (Wikipé, spero che la citazione sia corretta!)

Insomma siamo sempre in gioco noi come soggetti, qualunque sia il grado di obiettività di ciò che indichiamo come certo.

Il giorno della memoria e l’importanza dell’oblio

auschwitz

Il 27 gennaio del 1945 il campo di Aushwitz veniva liberato. Oggi ci preoccupiamo che il ricordo di quello che è accaduto possa sbiadire, e con esso, in proporzione inversa, la possibilità del suo ripetersi.

La psicoanalisi mette ricordo rimosso in una relazione particolare: se non si ricorda ciò che è accaduto, perché ricordarlo farebbe riaffiorare sentimenti profondamente turbanti, allora il trauma ritorna come rimosso, persistendo e insistendo in forme diverse dall’integrità del ricordo, magari prendendone solo un pezzettino. Un esempio fesso: un profondo turbamento che dà l’indossare un certo capo di abbigliamento perché è con quel vestito che si è stati stuprati, e la vittima non lo sa perché: più che dimenticare l’episodio, qui si tratta di rimuoverlo lasciandone la traccia. Il ricordo apparentemente sparisce per trasformarsi in rimosso, persistendo nel pantalone che si indossava quella sera. Un po’ come se il corpo non dimentica niente di quello che il cervello vorrebbe sotterrare. È la figura micidiale dello zombie: una cosa che dovrebbe essere morta, immobile, passata, persiste dopo la morte, terrorizzandoci. Lo zombie è qualcosa di irrisolto che si vorrebbe risolto, dimenticandolo. Così ritorna e persiste, incessantemente finché non lo si affronta.

La necessità di ricordare quello che è successo nella Seconda Guerra Mondiale non è quindi così fondamentale per scongiurare il suo ripetersi: se anche dimenticassimo, il ritorno del rimosso sarebbe inevitabile. È il trauma della storia. Piuttosto, sarebbe più utile dimenticare, ma in un modo particolare.

La giornata della memoria mi ha ricordato una riflessione di Giorgio Agamben che trattai a novembre di due anni fa a proposito dell’importanza dell’oblio. Più che persistere nel ricordo, come un morto vivente, se la civiltà occidentale volesse davvero imparare da quello che è successo, dovrebbe imparare a dimenticare chiedendosi perché sia successo. Ciò che è accaduto può a quel punto anche sbiadire, perché ormai se ne conosce la ragione profonda. Una dimenticanza simile a quella della terapia: ora che hai scoperto di essere stato stuprato, non c’è più bisogno che il ricordo che non vuoi persista in un feticcio traumatico. Ora che lo sai, puoi dimenticare il trauma, e ricordarlo liberamente.

Giorgio Agamben e l’importanza dell’oblio per una sana memoria 

Chi sono i terroristi/6 – Gli editoriali di Fallaci e Terzani

fallaci terzani

Il 29 novembre del 2001 usciva sul «Corriere» un editoriale di Oriana Fallaci intitolato La rabbia e l’orgoglio. Si racconta che fu l’allora direttore del giornale, Ferruccio De Bortoli, a chiedere alla Fallaci, che viveva a New York, di scrivere qualcosa. All’editoriale della giornalista risposero in tanti, ma la risposta che tutti ricordano è quella di Tiziano Terzani, del 7 ottobre 2001, sullo stesso giornale, Il Sultano e San Francesco.

Tiziano scriveva guardando le montagne dell’Himalaya, Oriana da un grattacielo che guardava altri grattacieli, alcuni dei quali in fiamme. Il primo era immerso nel silenzio e nella pace, il secondo a New York, nel pieno del caos.

La vera radicalità di una scelta non viene dettata dall’orgoglio ferito ma dal coraggio di farsi domande. Essere orgogliosi e rabbiosi è facile, ma rivela miopia dell’autocoscienza, la volontà di mantenere le cose come sono, senza capire, senza cambiare, arroccandosi nei propri privilegi. Domandarsi perché, invece, mette tutto in discussione, rivoluziona le prospettive e apre alla possibilità di un mondo migliore, fregandosene se sia più sicuro: se un mondo è migliore perché più giusto, a che serve domandarsi se sia al sicuro? Chi vuole sicurezza sa di essere in torto.

Voglio riprendere, alternandoli, i passi degli editoriali di Fallaci e Terzani che più mi hanno colpito. Creare una specie di confronto, fittizio, arbitrario, ma capace di mostrare come da un lato con la Fallaci ci sia la facile polarità della discussione, menzognera, impegnata com’è a difendere il più forte. Dall’altro con Terzani una saggezza dispersiva, responsabile, tosta, molto più difficile dei nervi tesi e logorati della Fallaci perché capace di chiedersi, ancora una volta, perché.

Se c’è un elemento che fa la differenza tra i due scrittori/giornalisti, è senza dubbio lo studio, delle persone e delle cose di cui è fatto il mondo.

Riproporre oggi questi passi mostra come in poco più di tredici anni poco o nulla sia cambiato. Bastano due vecchi editoriali del Corriere per comprendere le strutture narrative che ci aspettano nei prossimi mesi. I quotidiani da FLASH/BREAKING NEWS già sottolineano la “nuova era” e il “nuovo fronte europeo” che si è aperto con l’attentato di Charlie Hebdo, quando all’opposto il peggio che ci possa capitare non è che lo status quo, inaugurato il 26 ottobre 2001, giorno della firma del Patriot Act, promulgato da Obama per altri quattro anni il 26 maggio 2011.

(L’editoriale di Fallaci lo trovate qui, quello di Terzani qui)

F: Sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso.

T: Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia» […]. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

F: Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d’ Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi.

T: “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

F: A me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c’è Omero […], l’antica Grecia e la sua scoperta della Democrazia. C’è l’ antica Roma con la sua grandezza […] e il suo concetto della Legge. C’è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell’ amore e della giustizia […]. E infine c’ è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l’automobile, l’aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove […].
Dietro all’altra cultura che c’ è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adoperiamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya.

T: Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.

T: L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo [Warren Anderson, presidente della Union Carbide, accusato dall’India di essere responsabile dell’esplosione nel 1984 della fabbrica chimica di Bhopal: 16mila morti]. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

F: L’ America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele […].  Gli voglio bene e m’ è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa.

T: La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.