Il giorno della memoria e l’importanza dell’oblio

auschwitz

Il 27 gennaio del 1945 il campo di Aushwitz veniva liberato. Oggi ci preoccupiamo che il ricordo di quello che è accaduto possa sbiadire, e con esso, in proporzione inversa, la possibilità del suo ripetersi.

La psicoanalisi mette ricordo rimosso in una relazione particolare: se non si ricorda ciò che è accaduto, perché ricordarlo farebbe riaffiorare sentimenti profondamente turbanti, allora il trauma ritorna come rimosso, persistendo e insistendo in forme diverse dall’integrità del ricordo, magari prendendone solo un pezzettino. Un esempio fesso: un profondo turbamento che dà l’indossare un certo capo di abbigliamento perché è con quel vestito che si è stati stuprati, e la vittima non lo sa perché: più che dimenticare l’episodio, qui si tratta di rimuoverlo lasciandone la traccia. Il ricordo apparentemente sparisce per trasformarsi in rimosso, persistendo nel pantalone che si indossava quella sera. Un po’ come se il corpo non dimentica niente di quello che il cervello vorrebbe sotterrare. È la figura micidiale dello zombie: una cosa che dovrebbe essere morta, immobile, passata, persiste dopo la morte, terrorizzandoci. Lo zombie è qualcosa di irrisolto che si vorrebbe risolto, dimenticandolo. Così ritorna e persiste, incessantemente finché non lo si affronta.

La necessità di ricordare quello che è successo nella Seconda Guerra Mondiale non è quindi così fondamentale per scongiurare il suo ripetersi: se anche dimenticassimo, il ritorno del rimosso sarebbe inevitabile. È il trauma della storia. Piuttosto, sarebbe più utile dimenticare, ma in un modo particolare.

La giornata della memoria mi ha ricordato una riflessione di Giorgio Agamben che trattai a novembre di due anni fa a proposito dell’importanza dell’oblio. Più che persistere nel ricordo, come un morto vivente, se la civiltà occidentale volesse davvero imparare da quello che è successo, dovrebbe imparare a dimenticare chiedendosi perché sia successo. Ciò che è accaduto può a quel punto anche sbiadire, perché ormai se ne conosce la ragione profonda. Una dimenticanza simile a quella della terapia: ora che hai scoperto di essere stato stuprato, non c’è più bisogno che il ricordo che non vuoi persista in un feticcio traumatico. Ora che lo sai, puoi dimenticare il trauma, e ricordarlo liberamente.

Giorgio Agamben e l’importanza dell’oblio per una sana memoria 

Morti viventi

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«Malgrado la fatica degli storici, degli scribi e degli archivisti di ogni specie, la quantità di ciò che va irrimediabilmente perduto è infinitamente più grande di ciò che può essere raccolto negli archivi della memoria. In ogni istante, lo scialo ontologico che portiamo in noi stessi eccede di gran lunga la pietà dei nostri ricordi e della nostra coscienza. Ma questo caos informe del dimenticato non è inerte né inefficace. Vi sono una forza e un’operazione del dimenticato, che non possono essere misurate in termini di memoria cosciente né accumulate come sapere, ma la cui consistenza determina il rango di ogni sapere e di ogni conoscenza. Ciò che il perduto esige, non è di essere ricordato e commemorato, ma di restare in noi e con noi in quanto dimenticato, in quanto perduto – e unicamente per questo, indimenticabile […].

L’alternativa qui non è fra dimenticare e ricordare, essere inconsapevole e prendere coscienza: decisiva è la capacità di rimanere fedeli a ciò che – pur incessantemente dimenticato – deve restare indimenticabile, esigere di rimanere in qualche modo con noi, di essere ancora – per noi – in qualche modo possibile […]. Se, invece, rifiutiamo questa esigenza, se perdiamo ogni relazione con la massa del dimenticato che ci accompagna come un golem silenzioso, allora essa si manifesterà in noi in modo distruttivo e perverso, nella forma di ciò che Freud chiamava il ritorno del rimosso, cioè il ritorno dell’impossibile come tale». 

Giorgio AgambenIl tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 43-44.

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Pensiamo all’Olocausto. La paura di dimenticarlo – ora che stiamo avvicinandoci alla prima generazione cresciuta senza “uomini che hanno vissuto la guerra” – è cocente. Ma, seguendo Agamben, non vi deve essere alcuna paura di dimenticare se, seguendo Freud, ciò che dimentichiamo è ciò su cui abbiamo lavorato, se ciò che stiamo per dimenticare sappiamo che è qualcosa di possibile, ogni giorno, tutti i giorni. La paura non è di dimenticare l’Olocausto ma di vederlo ripetersi. Ma se un oblio dovesse determinare il ripetersi di ciò che è accaduto, non è perché si dimentica ciò che è accaduto, ma perché si dimentica ciò che ha significato. Si dimentica che è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni volta in forme diverse, non necessariamente quelle del lager: Di nuovo, è sempre qualcosa di possibile. Se non prendiamo coscienza di questo, c’è il ritorno del rimosso, quello che la filmografia moderna ha ben rappresentato con la figura dello zombie: deve essere morto, trapassato; allora perché continua a persistere? Si dimentica ciò che si fa proprio, e che in quanto proprio non c’è bisogno di portare alla mente ogni volta. Questo è l’oblio che cancella l’ossessione di ricordare, elimina la necessità di fissare immagini, forme, senza badare a sostanze e contenuti. Se non si ricorda l’Olocausto in quanto possibile, se non lo si ricorda come ciò che ha significato per noi, la sua crudeltà ritorna e persiste come un’inammissibile morto vivente.

Negazionismo e governo dei corpi

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Il 15 ottobre la Commissione Giustizia del Senato ha approvato un emendamento presentato dal senatore Felice Casson (PD) che modifica l’articolo 414 del codice penale (istigazione a delinquere) prevedendo un aggravio di pena del cinquanta per cento «se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra. La stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità». In questi giorni la stessa Commissione sta discutendo un emendamento all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 – presentato in origine da Silvana Amati del Pd il 16 ottobre dell’anno scorso (il 16 ottobre del 1943 avvenne il rastrellamento del ghetto di Roma) – che prevede tre anni di reclusione e una multa fino a 10mila euro a chi nega l’esistenza di genocidi. La legge del ‘75 è la ricezione della Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966. Entrambi gli interventi in Commissione riguardano il cosiddetto “reato di negazionismo”, su cui in questi giorni se ne discute parecchio. Il primo che propose in Italia un progetto di legge di questo tipo, seguendo l’esempio di diversi paesi europei che già lo adottano da decenni, fu nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, e prevedeva condanna e reclusione a chi negava l’esistenza della Shoah. Alla proposta di Mastella seguirono diverse reazioni contrarie. La più famosa fu quella di un gruppo di 197 storici universitari italiani che in una specie di manifesto dello storicismo affermarono che il progetto di legge di Mastella avrebbe sostituito «a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge». infine, l’11 ottobre è morto il capitano delle SS Erich Priebke, il “boia delle Fosse Ardeatine”, manco a farlo apposta appena due giorni prima del settantaseiesimo anniversario del rastrellamento di Roma.

La tempesta perfetta.

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Il negazionismo è una brutta bestia, ma una legge che ne certifichi il reato non è necessaria, è anzi l’ammissione di un’impotenza. Come spiegano i 197 storici italiani nel documento del 2007, si offrirebbe in primo luogo «ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà». Ma la cosa più grave, afferma il gruppo di storici italiano, è che si imporrebbe «una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato». La preoccupazione degli storici è attuale e scottante. Oltre a contenere implicitamente un’autocritica – gli storici denunciano proprio la mancanza di una “pratica educativa”, “una coscienza comune sulla verità storica della Shoah”, altrimenti non verrebbe in mente a nessuno di discutere seriamente una legge di questo tipo, né a 197 professori di intervenire così – il documento degli universitari è prezioso, afferma il paradossale effetto del reato di negazionismo: la delegittimazione della cultura storica, l’esautorazione dell’educazione scolastica e della sensibilità intellettuale dal determinare una coscienza storica dell’Olocausto. Per affrontare il negazionismo, afferma una buona fetta del mondo accademico italiano, non è necessaria la forza bruta della legge, ma un sano dibattito pubblico. David Irving ha scontato 400 giorni di prigione non solo perché negazionista, ma soprattutto perché colpevole di razzismo e apologia del nazismo, e la sua opinione non ha mai contato nulla. In Francia, Belgio, Germania e Austria (i paesi più colpiti dalle deportazioni) la negazione dell’Olocausto è reato, mentre in Israele, Portogallo e Spagna è addirittura punita qualsiasi negazione di un genocidio. Sono armi in più contro l’oblio della storia, ma quella principale resterà sempre la conoscenza storica, l’unico strumento capace di sconfiggere qualunque propaganda.

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Esiste una legge contro chi afferma l’esistenza di scie chimiche o di una corporazione di alieni che ci governa da millenni? No, perché sono una serie di evocative balle che si smontano semplicemente col buon senso. Il dibattito tra cospirazionisti e cacciatori di bufale non rafforza né le posizioni dell’uno né dell’altro, esalta soltanto la potenza del confronto razionale. Lo stesso discorso dovrebbe valere per chi nega la Shoah. E’ una realtà oggettiva che tra il 1933 e il 1941 la Germania nazionalsocialista ha pianificato e quasi portato a termine l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei d’Europa. Che poi Irving abbia sostenuto che le camere a gas servivano per sterminare i pidocchi è soltanto la libertà di spararle grosse. Se poi ci si sente a tal punto offesi da avere il bisogno di tappargli la bocca allora vuol dire che il revisionismo opportunista di questi individui tocca un nervo scoperto.

E’ il rischio di oblio della storia, la verità che con i totalitarismi noi europei non ci abbiamo ancora fatto i conti. Sotto lo stress di un trauma, tendiamo a cristallizzare questo periodo storico come un capitolo che vogliamo chiuso ad ogni costo, forte di una lettura storica ai limiti dell’interpretazione religiosa: il momento in cui Male ha fatto la sua comparsa sulla terra. Per questo il negazionismo fa paura, perché ha la forza liberatoria dell’antidogmatismo, la stessa che troviamo nella teoria del complotto. Ma perché mai l’Olocausto deve essere un dogma? Abbiamo la storia dalla nostra parte, sono fatti realmente accaduti, non abbiamo bisogno di una chiesa. La paura del negazionismo è la nostra preoccupazione storica più forte, quella della possibilità di un errore ermeneutico da parte delle generazioni future.

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Purtroppo l’Olocausto è stato un affare umano, troppo umano, è questa l’insopportabile verità che non dobbiamo dimenticare. Quella che svela come i totalitarismi del XX secolo siano stati il governo dei corpi in un vorticoso e avviluppante delirio, la conseguenza estrema di un governo in cui vita e politica sono tutt’uno a tal punto che sia la politica a decidere della vita e non il contrario. Da qui l’organizzazione totale dell’esistenza dell’uomo, da quando nasce a quando muore. Questo bisogna insegnare a scuola. Di questo dobbiamo parlare quando affrontiamo faccia a faccia gli orrori dei totalitarismi: il loro nuovo uso del corpo che inaugura l’indicibile verità della politica moderna.

La fusione di vita e politica non fa un animale politico ma un animale la cui vita si fa tutt’una con la politica a tal punto da scambiare la stessa vita per uno dei tanti elementi che compongono la polis. A tal punto da determinare il bisogno del diritto alla vita, di diritti umani. E’ questa la verità che l’Occidente tarda ad affrontare. E’ questa la vera negazione. C’è un filo rosso che collega l’ideologia totalitaria di allora con l’organizzazione totale dell’economia capitalista di oggi. Discutiamo di questo. Difficile parlarne, perché è scandaloso, come l’Olocausto. Ma limitarsi a paventare l’Olocausto dei totalitarismi senza vedere il nuovo uso dei corpi che c’è alla sua base, alle sue fondamenta, è la più grande ingiustizia che si possa fare alle sue vittime, quella che si limita a ricordare, ci costringe a non dimenticare.