Oggi parliamo di Silvia e altre amenità, al Bar della D’Urso

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La prima regola del bar è dimenticare di essere in un bar, altrimenti non te la godi, non puoi disquisire di qualsiasi cosa col tuo barista, il tuo mitico barista che ti fa un cappuccino megagalattico.

Interessarsi alle idiozie che si sono dette su una cosa che dimenticheremo presto (Silvia chi?) è altrettanto idiota di scrivere cose pseudoscioviniste rancorose e bugiarde che ogni giorno il Bar della D’Urso dei Social partorisce. Con una differenza: l’analfabeta funzionale, il frustrato fascista, scrive così perché a lui gli fa bene scriverlo, si sfoga. Ma chi morbosamente segue dei rutti mentendo a se stesso dicendosi che segue “reazioni” – mi dispiace, è morboso anche solo condividere o commentare una sola volta un cazzo di link su cazzo qualsiasi di argomento a caso che mai ti avrebbe acceso interesse se non che se ne sta parlando – che giustificazione ha?

Siamo trash tanto quanto il trash che ci scandalizza. Siamo trash pure quando triggeriamo il trash. Questa è la perversione maggiore, con una responsabilità enorme sulla diffusione della merda in cui navighiamo.

Qualsiasi oggetto di critica implica legittimazione, investitura. E così prendiamo sul serio, prendiamo in giro e ci scandalizziamo di fronte a Ciprì e Maresco. Quanta dignità si dà a ciò che scandalizza? Scandalo di cose idiote che sconosciuti scrivono su Facebook. Ma veramente facciamo?

Perché cazzo condividiamo cose che non approviamo? Guardate che è una bella perversione, questa. Proprio fetish. Condividere le cose che si criticano, condividere un articolo che critica una cosa che non approviamo. Guardate che è perversione. Va bene se si tratta del decreto economico, ma di commenti online, dai, quanto cazzo vogliamo gonfiarla l’inutilità di questa bolla transitoria? Guardate che ci sono cose che si possono ignorare, non ci perdiamo proprio nulla. Nulla. Capito, nulla. Datti una cazzo di calmata.

Possono pure essere i re dell’universo, Selfieni e i capitani coraggiosi, ciò non toglie che restano dei cazzo di Ciprì e Maresco. “Loro” sono analfabeti funzionali, vomitano sulle tastiere e gli fa bene, perché ne hanno bisogno, vivono una vera merda, che non abbiano un soldo o anneghino nell’eredità di mamma e papà, il grado di isolamento culturale è ineluttabilmente simile. Ma “noi”, che leggiamo libri e ci atteggiamo a professionisti, che ci diamo da fare e lavoriamo, che ogni santo giorno ci lamentiamo degli altri che non hanno la schiena dritta, noi che giustificazione abbiamo ad aver contribuito al trend?

Nella logica, le opposizioni devono necessariamente far parte dello stesso insieme, altrimenti le alterità non si possono costruire ed entrare in conflitto. Ma quando addirittura non c’è opposizione e persone con la stessa vita di merda litigano tra loro, di che spettacolo si tratta?

E tu credi che con l’arma dell’ironia puoi avere il giusto distacco. Ti rivelo una cosa: l’ironia è di destra. Tu credi di fare dei distinguo e invece no, stai solo rafforzando l’insieme di cui fai parte. Strutturi pseudo-opposizioni tra analfabeti funzionali e professionisti di questo cazzo. Tra capelli da spaccare e superiorità morale. Sei solo un grande pesce.

Scandalizzandosi si erge un piedistallo dove ora-lui-dic-una-poesia. Se ne rafforza il comportamento. Ha detto una cosa violenta, non politicamente corretta! No, è un rutto. E poi sfottilo, mi raccomando, mentre lui se la ride e vota il Capitano. Sfottilo, sfottilo, vai, vai. No, ma tranquillo, sfotti. Hai ragione tu.

Il disinteresse, la censura, a volte sono un dovere politico. Ma c’è un problema: la censura politica è un’azione nell’interesse comune (almeno nelle intenzioni di chi la mette in pratica) e purtroppo a noi, proprio in questo momento, fissati come siamo col focolare domestico, del bene comune non ce ne può fregar di meno.

Questo è il Bar della D’Urso, amici. Benvenuti, qua si vende e si compra, dandosi un tono da sommelier con il tavernello.

Così fan tutti

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In un mondo post-atomico, post-moderno, dove ideali quali uguaglianza, fratellanza e libertà sono buoni per vendere qualcosa. In un mondo dove addirittura la Chiesa ha capito che deve strizzare l’occhio alla modernità se vuole entrare nel XXI secolo, fa strano vedere la Merkel indignarsi e sbattere i pugni su un tavolo che non è più di sua proprietà da un pezzo, e fare l’offesa strizzando l’occhio a un “popolo” iscritto per di più a Facebook.

Nel web c’è un piccolo giardino

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La privacy è un’invenzione, nel senso che c’era un tempo in cui non esisteva. E’ nata in un lasso di tempo che va dal XVI al XX secolo, quello dell’ascesa della borghesia, vecchia parola caduta in disuso dopo la fine del valzer degli antagonismi del secolo passato. E’ importante precisare questo punto, affinché non si naturalizzi il concetto, finendo per credere che la tutela degli affari propri sia un bisogno connaturato alla persona, qualcosa di sacrosanto.

Uno dei leitmotiv sulla privacy moderna è che nel web sia messa a rischio. Facebook più di tutti manifesta questa inquietudine. Tra poco arriverà Graph Search, il primo motore di ricerca in cui i risultati siamo noi, la nostra anagrafe. Il suo avvento pare porterebbe con sé due conseguenze. La prima è che vi si manifesterebbero pienamente le contraddizioni della personalità pubblico-privata: gente che si autodefinisce cattolica e apprezza la Durex; sposati che seguono siti di dating; professanti omofobi che firmano una petizione online in favore dei pacs. Quasi come se nel web il super-io scompaia, deflagri l’interiorizzazione dei codici di comportamento, del galateo, dei costumi, e l’identità diventa patologica, con la mano sinistra che non sa cosa sta facendo la destra. 

L’altra conseguenza, più inquietante, su Graph Search è il timore dell’arrivo di un altro strumento di controllo. Così alla Cina basterà andare su Facebook per vedere gli orientamenti politici del suo popolo. Ma un simile rischio non tiene conto del fatto che i veri dissidenti difficilmente si iscriverebbero a Facebook, e un tale timore si riduce realisticamente a quello della propaganda, nel peggiore dei casi a un altro raffinato strumento di marketing politico e culturale.

Come si dice, nel privato le persone sono molto diverse da come sono pubblicamente. In genere è un parametro che misura le ipocrisie, e lo iato tra i due dipende da quanto ci si racconta e si è raccontati nel pubblico, quanto si è insomma un personaggio pubblico. Ciò vale per tutti, dai conferenzieri ai pornoattori. Nel web questo raccontarsi e farsi raccontare pare avviluppare le persone in contraddizioni ideologiche e luoghi comuni. Ma non è nient’altro che l’identità stessa. Ci si ritrovi in una piazza, tra le quattro mura di casa o nel giardino di casa, si deve sempre fare i conti con la propria incoerenza. All’inizio invece pareva che il web fosse un luogo terzo, neutrale, dove questa tendenza patologica di un soggetto incoerente potesse scomparire lasciando spazio a un avatar. Poi si è fatto i conti con la realtà: il web non è molto diverso da qualunque altro luogo pubblico.

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L’ossatura dei social network si fa sempre più definita, e sta andando verso la forma di un incubatore irriflesivo dove il luogo non determina i soggetti ma questi ultimi a determinare quello, come la piazza, dove la qualità di un dibattito dipende da chi interviene. All’inizio lo si è scambiato per un luogo di esistenze autentiche, con tutte le conseguenze del caso, come quelle di un certo giornalismo che va sul Twitter di un personaggio pubblico pensando di parlare con il vero personaggio pubblico, quello privato (che macello…), senza rendersi conto di essere di fronte ad un ufficio stampa. Questa ingenuità è finita e stiamo iniziando a considerare lo spazio del web in maniera meno ingenua e sognante. Questo perché qui il pubblico e il privato sono gli stessi che si ritrovano nella realtà che sta fuori lo schermo. Siamo di fronte a un posto non meno autentico di una festa di paese, di un pranzo di gala, di una cena tra amici.

Nel web il privato è in gioco tanto quanto e non di più di un qualunque meno virtuale luogo pubblico. La cosa è irritante, come una pagina di commenti. Si credeva di avere a che fare con un Nuovo Mondo dove potersi creare una nuova identità, un luogo di frontiera dove andare a briglia sciolta verso terre sconosciute. Chi poteva immaginare invece che qui bisogna mantenere lo stesso contegno che si ha a tavola in presenza di estranei? La conseguenza positiva è che ci si responsabilizza nel suo uso visto che ad ogni nostro intervento è in gioco la nostra faccia, non quella delle emoticon ma la stessa in carne e ossa con la quale sorridiamo. Nello stesso tempo però si deve fare i conti con un luogo non meno libero del giardino di casa, della piazza. E la buon vecchia libertà resta quella di sempre. 

Ma quale trasformazione culturale

Tra la prima metà del XIX e a tutto il XX secolo sono state scritte tonnellate di pagine sulle dinamiche sociali, il modo in cui noi ci vediamo, il modo in cui vogliamo mostrarci, il modo in cui condividiamo le nostre esperienze. La condivisione delle proprie esperienze è uno dei modi più elementari per rendere reale ciò che si è vissuto. Poi è arrivato il web, e pare che le cose siano radicalmente cambiate. Apparenza. E’ solo una questione di mezzo, di tecnica, di strumenti con i quali lo scopo non cambia. A dirla tutta, il fatto che questi mezzi stiano cambiando il nostro comportamento, è una vecchia questione iniziata molto prima, con chi rifletteva sulla tecnica già nel 1929. Perciò diffidate dalle letture superficialmente critiche sulla superficialità di facebook e simili. Sono mezzi. Se proprio si vuol capire cosa stia accadendo, Max Weber e la scienza psicoanalitica del ‘900 vanno più che bene. Anzi, credo che facebook, più di ogni altro, ironizzi sul nostro esibizionismo che, negli ultimi 10 secoli, non è cambiato di una virgola. E questa non è una critica.

Schizofrenia

Può una persona essere iscritta al trasgressivo gruppo “…ma anche no!”, seguire una vrangata di persone che partecipano allo spassosissimo “festival del doppio senso” e contemporaneamente essere iscritta al gruppo “Adoro Carol Vojtyla”? Certo. Facebook serve a tante cose, ma come mostra lui cinicamente la coerenza delle persone non lo fa nessuno