Mac Demarco, hipster fuori, autore dentro

Mac Demarco

Mac Demarco

Kurt Cobain era incazzato nero per via del nuovo ordine mondiale che si andava profilando all’inizio degli anni ’90. Ventuno anni dopo che l’ordine mondiale è rimasto sostanzialmente lo stesso – e fa pure schifo – Kurt Cobain è diventato Mac DeMarco. La rabbia si è trasformata in goliardia, la musica si è calmata, e il sovversivo nichilismo autodistruttivo è diventato pura dementia. L’unica cosa rimasta, la trascuratezza.

Classe 1990, canadese, pare fumi parecchie sigarette. Gli piacciono tanto le musicassette, i suoi album li registra così. Il primo, YING YANG, un lavoro rock dove si intuisce già il Mac Demarco che sarà (non l’ho ascoltato molto, per cui accontentatevi di questo cliché), dovrebbe essere una demo perché è autoprodotto, ma è un album a tutti gli effetti. Il secondo, anche questo si maschera dietro un “EP”, si chiama Rock and Roll Night Club, il lavoro con cui Mac viene conosciuto dal mondo. Un album fatto male, non c’è dubbio, nel senso che è registrato proprio male. Intervallato da incursioni radiofoniche finte, è un mix di ritmiche blues con cantate tra il soul e il brit-pop (la voce richiama Damon Albarn).

Urla alla camera con un cappello di lana in testa che ci saranno trenta gradi. Ha uno spazio tra gli incisivi frontali che sembra fatto apposta per renderlo più punk. È brillo di birra economica quel tanto che basta per essere allegro, ma non troppo da impedirgli di suonare. Tanto strimpella (non è vero, questo articolo è pieno di ironie, scovatele!). Tanto, non siamo mica negli anni ’90 che bisogna per forza stare incazzati. Non avendo niente di tragico da raccontare della sua infanzia, si diverte a fare il punkettone mandando bacetti. È proprio il figlio dei nostri tempi, dove la dissoluzione estetica e politica del rock anni ’90 ci ha permesso di apprezzare Elio e le Storie Tese. Mac Demarco è un incrocio tra un appassionato blues-rocker, il più classico degli hipster analogici e Maccio Capatonda. Una miscela che trasfigura il moscio low-fi in un’arte originale, ricca della leggerezza dell’ironia.

Cosa suona Mac Demarco? A missare i suoi pezzi, aggiungendo un minimo di pulizia del suono, uscirebbero suoni più banali, la sua forza sta infatti in un’ottima tecnica blues-rock combinata ad una sciatta postproduzione. La prima volta che l’ho ascoltato (grazie a quella meravigliosa Pitchfork app di Spotify che bastava cliccare sulle copertine per ascoltare al volo le nuove uscite ma che poi è stata eliminata mortacci loro) era perché mi incuriosiva la copertina di Rock and Roll Night Club: un uomo che si sparge rossetto sulla bocca con aria disinvolta e per nulla gayofila. Si intuiva subito la minchiaggine, così volevo vedere di che musica si trattava. Premo play e mi parte una cosa registrata male. Fu amore a prima vista.

È questo gioco di contrasti che ci piace, tra lo spessore musicale, la pessima registrazione e una personalità da adolescente demente. Quello che avremmo sempre voluto chiedere alla nostalgia musicale del low-fi: l’autoironia. È un certo uso del low-fi ad essere il suo asso nella manica, quel genere che andava forte negli anni ’00, nel post-post rock, quando ci si era talmente sganasciati i maroni di definire i generi musicali che ormai ci si scocciava pure di post produrli. Solo che Mac il low-fi non lo fa perché si porta, o perché è “dolcissimo e bellissimo”, ma perché così gli viene. Insomma, Mac Demarco è indie, ma non è colpa sua, e non gliene importa. È un mix irresistibile di estetismo grunge, rhythm and blues e dementia. È l’esempio più schietto che in natura niente si crea dal nulla, soprattutto in musica. Ed ha un sound inconfondibile. Ti basta ascoltare pochi secondi, manco fossero gli U2, per dirti ah, sì, è un Mac. Un autore.

Dopo Rock and Roll Night Club è seguito II, con in copertina un ragazzo che stringendo una brutta chitarra elettrica fa il segno della vittoria con un cappello della Standa in testa. Ridicolo, ma non la musica. Un’estetica che è il suo guscio, utile forse a proteggere la sua preziosa creatività dalle etichette facili. Anche II è sporco e sognante quanto Rock and Roll. Li ho ascoltati insieme, non ho avuto il tempo di digerirli singolarmente perciò li percepisco come un’unica striscia creativa, tra l’altro sono usciti a distanza di qualche mese l’uno dall’altro. La terza fatica, Salad Days, esce due anni dopo, nel 2014, ed è il suo lavoro minore. L’errore è stato quello di missare i pezzi dando più presenza alla batteria, e il risultato non è stato un granché: troppo pulito, asciutto, poco significativo. Così il suo entrourage si sarà reso conto che è meglio restare se stessi: trascurati. E infatti la sua quarta fatica, uscita un mese fa, è un ritorno alle sciatte origini (per usare un cliché, solo che ho aggiunto “sciatto”). Si chiama Another one, a sottolineare una prolifica attività musicale: quattro album in tre anni. È il lavoro più scanzonato. Parla d’amore. L’album più leggero che l’artista canadese che veste grunge, suona blues e registra male abbia fatto finora.

Bassa fedeltà e cazzeggio. Un connubio che ancora nessuno aveva fatto all’indomani del post-post-post-rock. Grande Mac, ti vogliamo bene. Un abbraccio da parte mia e di Gianni Morandi, che anche se non ti conosce sono sicuro che ti abbraccerebbe se glielo chiedessi. Tanto lui abbraccia tutti.

Vi saluto con questa ultima clip, montata male.

L’insostenibile leggerezza della ritmica

Sapete cos’è che mi dà fastidio di Neon Bible, Funeral e di tutte quelle epiche produzioni che cadono sotto la sommaria definizione di “new-new wave”? La ritmica, quello stracazzo di rullante e grancassa che deve essere quasi completamente l’UNICA virtuosità ritmica. Ci sono rimasto sotto per un po’ con questa fascinazione, gli Interpol li ho adorati ma ora non riesco più ad ascoltarli. Sarà l’eta. Sarà il mio mood atttuale, in bilico tra il recupero di un background rock mai avuto e una persistente passione per i suoni nuovi, ma non nuovi in assoluto, bensì quelli che rimescolano e inventano con umiltà e passione. Senza ammiccare.