The World is yours

«The money get the power and the power get the money, but the money and the power are not the same thing» dice Kostya Novotny, il traditore di Monty della 25esima Ora. Nella figura di Scarface di Brian De Palma questa differenza è ben sottolineata. La sua fulminante e drammatica scalata è volta al potere, non hai soldi, all’acquisizione di uno spazio nel quale esercitare una determinata funzione di controllo (pagata a caro prezzo: ogni conquista di un potere è la conquista della solitudine), non a un banale e astrattissimo mezzo di scambio che in parte costruisce questo spazio – anche se Pablo Escobar riesce in un solo gesto a concretizzare il denaro a tal punto da destituire il principio che lo regolamenta, trasformandolo addirittura per quello che materialmente è: carta straccia da bruciare per sopravvivere al freddo, braccato dai narcotici. Non è mia intenzione sviscerare tutte le tematiche del film e tutti gli aspetti dei personaggi, non ne sarei capace, non sarebbe il posto appropriato e in tanti l’hanno già fatto molto meglio di me. Vorrei invece sottolineare la ricchezza e la complessità della figura di Scarface alias Tony Montana. E’ la figura negativa di un antieroe, l’incarnazione di una violenza inarrestabile, una finestra sull’orrore, ma anche la figura positiva di un dissimulatore. Montana mette fine all’età dell’innocenza, arriva a Miami e sconvolge l’economia criminale della città pompandola e potenziandola, è insomma un efficiente capitalista (nel senso che muove grossi capitali). Lopez, uno dei principali boss di cui Montana diventa il braccio destro prima di sostituirlo, è un godereccio, un ragazzone semplice nel tunnel del divertimento. Lopez è discreto. Come ripete spesso a Montana, la “regola numero uno è quella di non diventare un maiale, muoversi in sordina”, mentre Montana vuole tutto. Il mondo.

Eppure la figura di Scarface è talmente ricca e contraddittoria che riesce nello stesso tempo a essere portatore di valori sani, non solo come anti-eroe che esplicita l’indicibile dei desideri e della società. Così come l’orrore di Conrad (la violenza dell’epoca coloniale), Montana rappresenta tutta la violenza delle organizzazioni criminali, squarcia la tela dell’immaginario collettivo del gangster hollywoodiano (ebbene si, il Padrino è l’immaginario collettivo, l’opinione comune sulla mafia, Scarface non è un’emulazione sostenibile, è un uomo solo, un cafone, al massimo può esserlo come fps). Eppure Montana “mantiene sempre la parola data”, “uccide solo se viene tradito” e non ammazza i bambini – non a caso è proprio quest’ultima rinuncia a scatenare l’inizio della fine. Ed è vero. Che cosa significa, che Montana è un esempio da seguire? No. Significa che Montana, come afferma egli stesso nella scena del ristorante, “dice sempre la verità, anche quando dice le bugie”. Una frase che potremmo benissimo trovare in un dialogo platonico, dove spesso viene affermata l’importanza del mito che, anche se quello che racconta è verosimile, “dice sempre cose vere”. Ovvero trasmette, incarnati negli eroi, gli importanti valori della Grecia antica – la verità del mito è il suo fondamentale ruolo educativo per i giovani cittadini ateniesi, che sia vero o no quello che racconta, perciò un mito è sempre vero, anche quando è verosimile, se non falso. Scarface è un eroe greco travestito da Socrate? Niente di più lontano. E’ un antieroe, qualcosa di moderno e conflittuale, portatore di sani principi etici. Quali? Mi verrebbe da dire la dedizione al lavoro ma non sarebbe corretto. Non è neanche l’attitudine liberale, anzi, Montana è in parte l’esplicitazione delle contraddizioni e degli orrori liberali (solo in un Paese come gli Stati Uniti sarebbe verosimile pensare una storia come quella di Scarface). Che cos’è? Per capirlo potremmo farci aiutare dai due personaggi principali, Tony Montana e il suo migliore amico, Manolo Ribera. Sono molto diversi. Manolo è rimasto un ragazzino, è venuto a Miami con semplici pretese: un lavoro come un altro e tanto tempo libero per rimorchiare qualche donzella, una vita all’insegna della deiezione. Tony No. Non pensa soltanto “a spassarsela” lontano dall’oppressione di Cuba, ha dei precisi obiettivi da raggiungere e per realizzarli deve lavorare su di esso. Lavoro qui è inteso letteralmente: occupare il tempo nel fare qualcosa di produttivoche realizzi i propri scopi. Saper realizzare le proprie ambizioni non è la stessa cosa di saper come realizzare un bisogno giornaliero (fare sesso, mangiare, socializzare). La realizzazione di un’ambizione è rimandata a un tempo ignoto, a volte anche incerto. L’ambizione stessa a volte è oscura, non è semplice come può essere il desiderio scatenato dalla fame. E’ complessa, incerta, incompleta, frammentata, eppure allo stesso tempo solida. Come un sogno. Non a caso quando a Montana viene domandato “Ma tu che cosa vuoi?” egli risponde “il mondo”. Non significa niente “tutto/il mondo”, la verità è che nemmeno lui sa precisamente cosa vuole finché non lo realizza, o ci va vicino. Ma sa che c’è e sa cosa fare. Montana è un “bifolco ignorante” come dice Omar Suarez, eppure la sua ambizione lo rende consapevole degli strumenti necessari per realizzare i suoi scopi. Non sa cos’è il comunismo ma sa bene che gli americani sono ossessionati dai rossi e usa questa loro paranoia per tirarsi dall’impaccio nell’ufficio immigrazione dove stanno per arrestarlo. Non conosce gli organismi federali ma sa bene quando corrompere un funzionario e quando ucciderlo. Montana lavora sulle sue ambizioni come Freud sui sogni e la scena finale sembra suggerire infine un desiderio incestuoso autodistruttivo. Il mondo è tuo nel senso che lo possiedi.

Il mondo è uno spazio infinito, nel senso che infinite sono le performazioni soggettive che ognuno fa della propria vita per cercare di realizzare le proprie ambizioni. Ma il modo per ottimizzare le forze è uno e vale per tutti: lavorare sulle proprie ambizioni, esercitare una volontà di potenza, uscire dalla deiezione oppure, come fa serenamente Manolo, scegliere di restare. Montana sceglie di uscire dalla deiezione, di non essere schiavo delle cose, della pubblicità. Di avere una vita autentica, purtroppo alla fine rivelatasi terrificante, in parte a causa di pesanti conflitti familiari – la madre lo respinge a causa della sua scelta di vita, la sorella lo difende e lui vorrebbe inconsapevolmente trombarsela. Le ambizioni possono essere oscure, ma è impossibile che non ci siano. Possono essere deietorie, come Berlusconi cerca di convincerci, o potenti, oscene e violente come quelle di Tony Montana che, come antieroe, dissimula il romanticismo dietro il mito del potere, e come esempio etico ci insegna l’importanza del lavoro, dell’impegno nella dedizione piuttosto che nella deiezione.

Amev

La paura

La guerra fa più morti del terrorismo. Quest’ultimo impallidirebbe di fronte a quello che collezionano ogni anno nel mondo la fame, l’influenza, gli incidenti stradali, il colesterolo alto, l’alcool, il tabacco. Ma allora perché noi, grandi mangiatori, viaggiatori autostradali, spreconi, grandi bevitori e fumatori abbiamo paura del terrorismo? Nella vita personale di ogni individuo del mondo (ad eccezione di coloro che abitano nei pressi di Baghdad) la probabilità di morire in un attentato è bassissima. Agli occhi di uno statistico la paura del terrorismo è ridicola. Perché non abbiamo paura di cose che potrebbero annientarci veramente, mentre sentiamo la tensione per episodi che potrebbero quasi certamente non capitarci?

La domanda richiede una risposta che forse solo la storia potrebbe soddisfare a pieno. Posso solo dire che il terrorismo destabilizza l’equilibrio economico e politico, mentre gli incidenti autostradali no. Pare che l’influenza si presenti senza destabilizzare l’attività economico-politica. Tutti questi fenomeni hanno un ruolo come parte di un tutto, senza che quest’ultimo venga intossicato e influenzato significativamente dalle morti per la febbre stagionale, o dal numero di persone morte a causa del fumo. La loro presenza ha un senso. Il terrorismo, come la morte, non ce l’ha. E questo per l’uomo è determinante, più della certezza di morire per cause naturali piuttosto che per un attentato. Il terrorismo ha il suo ruolo nel sistema economico e politico, sia locale che internazionale, ma getta l’individuo singolo in una condizione particolare. Attraverso i media, che rappresentano per noi un piano della realtà significativo, e nella vita quotidiana di un cittadino di Baghdad, si instilla la sensazione che non tutto è al suo posto, qualcosa non quadra. Torno a casa e vengo a sapere che New York è stata bombardata, vado al mercato e perdo una gamba. Ho paura. Paura di cosa? Non della morte. Ma della de-significazione di eventi che, tuttavia, accadono. La morte non ha un senso che valga per la dimensione vitale visto che è il suo annientamento. Allo stesso modo il terrorismo non ha un senso che valga per il benessere e per l’equilibrio economico-politico. Temiamo gli attentati non perché abbiamo paura di morire ma perché instillano in noi la sensazione che c’è qualcosa che non va. Che la ricerca del benessere collettivo ha dei presupposti sbagliati. La strada che l’impero economico e politico moderno sta percorrendo ha un sottofondo indicibile, violento, ingiusto, insostenibile. Il colonnello Kurz lo chiama l’orrore. E il terrorismo erompe come una finestra sull’orrore.

Amev