Parliamo di vaccini perché Giorgio Gambe gambizza il ragionamento

(Fotogramma /Ipa) via

Viviamo di scienza, di gps, di equazioni matematiche einsteiniane che correggono lo spazio-tempo affinché si possa sapere con precisione metrica dove sta il bar sotto casa. È la scienza che permette di comunicare con chiunque, continuamente, incessantemente, ossessivamente. La prima foto del buco nero è il frutto di un processo di selezione umana di una serie di immagini ricostruite da un’intelligenza artificiale. Non vuol dire che un’IA ha fatto la prima foto di un buco nero al posto nostro ma che avendo noi creato una parabola grande quanto l’emisfero terrestre, la quantità esorbitante di dati prodotta ha richiesto l’elaborazione di un’IA, cosa che ha permesso di fare in qualche mese quello che l’uomo da solo, centinaia di migliaia di persone, avrebbe fatto in anni. L’IA ha compresso il tempo e accelerato i risultati, non ha lavorato al posto nostro, ci ha aiutato. Questa compresenza delle macchine è la cifra della modernità, ma non da oggi, da tipo trecento anni. Volendo esagerare, da quando abbiamo scoperto il fuoco, da quando cachiamo semi per far crescere le piante.

La scienza non è esatta ma perfettibile. Siamo cresciuti con Piero Angela, stiamo crescendo con Neil deGrasse Tyson. L’abbiamo fatta la filosofia della scienza. Il vaccino non è la cura di tutti i mali e metterlo in dubbio non aiuterà a trovare quel paradiso perduto di sinistra. Ha una copertura di un anno, di sei mesi? Boh. Questa incertezza sconvolge? Benvenuti nella realtà da cui nessuno ci salverà.

Il vaccino non è distribuito allo stesso modo ovunque e non risolverà la crisi economica, e non possiamo rompergli i coglioni di questa maniera caricandogli sulle spalle tutte queste responsabilità. Vivere immersi nella tecnologia delle interfacce ci dà il privilegio di poter ignorare gli algoritmi che le fanno funzionare, il funzionamento di un sacco di cose che si usano per vivere. Per esempio, ignoriamo il fatto che le mappe satellitari funzionano grazie agli orologi atomici, che non sappiamo come funzionano. Sono talmente tante le cose che fanno funzionare il mondo senza che noi sappiamo come funzionano che possiamo permetterci di giocare a metterle in dubbio. Tanto, siamo mica noi a mandarle avanti? Siamo pre-adolescenti che subodorano la vita adulta, ci atteggiamo ad adulti senza responsabilità materiali, col cocco ammunnato della mammina e la casa comprata col mutuo del papino. È l’opulescenza della modernità, l’invenzione dei giovani. Ma non da oggi, da tipo centoquant’anni.

Se abbiamo smesso di capire il mondo non significa che il mondo smette di funzionare. Così come se pompiamo gas serra non accoppiamo il pianeta ma la nostra specie. Il pianeta sta bene.

Di fronte alle cose che non possiamo cambiare sclerotizziamo e ci inventiamo gli antagonismi. Per esempio, non lottiamo per l’equa distribuzione del vaccino ma opiniamo aristocraticamente sul gusto del gelato: e me piace alla vaniglia, a me alla fragola, a me fa venire mal di testa. Siamo sempre meno emancipati e di emancipazione ne capiamo sempre meno.

Le polemiche sulla pandemia fatte di tre decenni di dibattito politico sono il sintomo dell’irrisolvibilità di una serie di istanze politiche. In primo luogo l’egalitarismo: abbiamo rinunciato alla redistribuzione della ricchezza e all’universalità dei diritti. Ma non da oggi, da tipo sessant’anni. Solo che questa rinuncia avviene lentamente, come la rana nella pentola, non te ne accorgi, puoi sempre avere la percezione che non sia cambiato nulla, tanto gli schermi e le interfacce ti creano la realtà che ti pare. Della crisi economica non ci abbiamo capito nulla. Decenni di assetto iperliberale della società ci hanno reso cinici come Mickey Rourke e comici come Maccio Capatonda, e realisti verso il capitalismo, assunto come un fatto. Ed è tutto già accaduto. Parliamo del vaccino ma vorremmo disperatamente affrontare un’irrisolvibile crisi economica. I ragazzetti, digiuni di storia ed emancipazione; i vecchi, satolli di garantismo, tutti a millantare complotti, orfani dell’universalità dei diritti. La verità è la fuori. No, Mulder, la pandemia è solo la ciliegina sulla torta. Tu vuoi solo crederci, che è un’altra cosa.

Fa rabbia questa impotenza. È frustrante non poter più trasformare certe cose. Il complottismo è questa impotenza da fine del mondo, questo realismo cinico: tu, certe cose, certi diritti, una certa uguaglianza, non potrai mai ottenerli. Come nel trauma, irrisolvibile per definizione, l’oggetto dell’angoscia ha uno spostamento e ci si ritrova a lottare per una cazzata, la libertà di non farsi il vaccino, di non portare la mascherina, di non ottenere il green pass. Di farsi, fondamentalmente, i cazzi propri e vivere da libertini. Però poi buuuuuh capitalismo.

In una società così distopica, in cui è impossibile oggettivarne del tutto la distopia, il vaccino è l’ultimo degli spostamenti, l’ultima querelle sintomatica dell’irrisolvibilità di certe istanze politiche che c’erano ben prima della pandemia. Il bacino dei non vaccinati volontari è il trauma non ancora analizzato, una certa inerzia, la spossata consapevolezza che comunque sia anche da vaccinato la vita continua ad avere questa inquietante sensazione di scarso controllo. E allora il vaccino non me lo faccio!

Ho un amico che dal Vietnam proclama la felicità comunista dei vietnamiti. Ben gli sta. Non può fare altro che questo in un mondo che non può più soddisfare il desiderio autentico della politica, l’emancipazione. Un esercizio retorico spinto dalla nostalgia comunitaria, il rifiuto di accettare una sconfitta. La crisi economica strutturale si impasta con la disuguaglianza di genere e dei diritti, il ruolo della scienza si confonde con il nostro rapporto con la tecnica, il rapporto della tecnica con la scienza viene confuso col rapporto tra la tecnica e la società. Non abbiamo assolutamente idea di cosa significhi tecnica. Ricicla la plastica e vai in vacanza al mare che fa caldo. I cotton fioc dovresti usarli solo sul padiglione auricolare e i vestiti a basso costo inquinano, mentre speri ogni volta, e ogni volta ne resti deluso, e ogni volta ti illudi che è solo un caso, che la socialità non sia competitiva.

Quando scopriamo che la società non redistribuisce le risorse che ottiene con lo sfruttamento, glorifichiamo il passato dei nostri padri. Millenni di storia ma ci piace soffermarci su un’eccezione generazionale, quella del Dopoguerra, durata appena una ventina d’anni. Uh, la società è ancora divisa in classi; uh, l’organizzazione economica è ferocemente competitiva e non c’è posto per tutti i miliardi di persone che siamo; uh, la disuguaglianza sociale è incompatibile con il diritto alla salute; uh, la sovrappopolazione è un problema enorme. Dovremmo leggere tantissimo, anche Agamben, che quando non era crocefisso dal narcisismo ha dato un grande contributo alla teologia politica. Lasciate che sia Giorgio Gambe a gambizzare i ragionamenti, che siano i vecchi a lamentarsi, tutti quei baby boomers che si sono goduti i frutti della guerra dei loro padri – su Agamben ho la battuta definitiva: è Stato eccezionale. Noi dovremmo stare molto più calmi e rassegnarci. Dovremmo essere saggi.

Non possiamo mettere in mezzo tutta questa miriade di sconfitte, vagonate di questioni irrisolte, ogni volta che affrontiamo le epifanie della realtà. Il vaccino non ti renderà felice, non ti farà trovare lavoro, non ti risolve le magagne familiari, piuttosto rafforzerà il tuo sistema immunitario, e solo su un singolo virus, mentre è l’attività fisica giornaliera a renderti forte. L’homo sapiens per vivere a lungo deve consumarsi, non conservarsi. È solo un cazzo di vaccino, non il capitalismo, che è quella cosa che peggiora la gestione di tutte queste altre. Volete una prova? Non te lo fare il vaccino, non frega niente a nessuno, la baracca va avanti lo stesso e tu puoi tranquillamente disquisire sul gusto del gelato e atteggiarti ad antagonista.

E se volessimo esattamente proprio tutto questo feroce spostamento psicologico, questa polemica, questa confusione di intenti e argomenti? Dovremmo problematizzare tutte le disuguaglianze interiorizzate, tutte le istanze politiche smarrite, invece di fare come se non fosse cambiato nulla e aggrapparci ossessivamente a categorie che non ci appartengono, quelle di due generazioni fa, buone per quando si vive nella bambagia. Solo quando l’abbondanza è ben distribuita i diritti possono farsi universali. Nella penuria della redistribuzione l’autoritarismo regna. Quando questa legge della natura sfugge l’antagonismo viene scambiato per lo sport agonistico.

È un falso problema che si stia creando una categoria fittizia di non vaccinati, di cittadini di serie B, perché la disuguaglianza nella società c’è già, è strutturale, eggrazie che poi il vaccino col cazzo che lo do a tutti. Avendo interiorizzato il realismo di questa condizione – è giusto che la società sia diseguale, è naturale, è ineluttabile – ogni volta ci stupiamo delle sue nefaste conseguenze.

Si deve ragionare sul mondo come fosse la modernità. Ho detto modernità, non mondanità. La socialità è competitiva, compressa, accelerata, alienante. E invece no, facciamo i capricci, facciamo finta di niente, ci rifiutiamo di accettarlo. A scuola bisognerebbe insegnare l’inquietudine della modernità, l’incertezza strutturale della realtà già da prima della modernità, di come la didattica a distanza elimina l’istruzione come esperienza collettiva, relegandola alla scelta di classe di chi può permettersela. Vi ricordate quella sensazione che avevate svegliandovi alle 7 di mattina senza voglia di andare a scuola? Alla fine ci andavate, perché? Perché ci andavano tutti. Non ho detto che dovremmo andare a scuola nonostante la pandemia, ho detto che una scuola a distanza non ti fa vivere l’istruzione e la conoscenza come un dovere sociale. Ma c’è di più, la scuola a distanza è assolutamente fattibile. Questa è la differenza tra problematizzare un cambiamento e fare finta che non sia cambiato nulla. Lo sapevate che l’uomo prima della scienza usava la magia per esorcizzare il terrore della natura?

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