Gravity è un film senza centro, come quando sei in assenza di gravità (più correttamente in caduta) a 600 chilometri sopra la terra. Non c’è sopra e sotto, né sinistra e destra. La trama rispecchia questa assenza. Già dieci minuti dopo l’inizio, il film ti dice: la storia è finita, ora si tratta solo di scoprire se l’astronauta sopravviverà.
E’ un film che trova il suo senso, la sua gravità, alla fine, quando l’astronauta ce l’ha fatta, mettendo piede sulla terraferma. E’ la scena più bella del film, l’unica con un’atmosfera, l’unica con la gravità. L’astronauta, che non aveva altro scopo che scendere verso la terra, rischia di morire perché scende troppo: ammarata, per poco non affoga, tirata giù insieme alla capsula che l’ha portata sana e salva sulla terra.
Da qui inizia la scena più intensa. Si toglie la tuta diventata zavorra, riemerge, qualche secondo per riprendere fiato, poi nuota verso la riva. Arriva. E’ pesante. Sgomita strisciando come un anfibio di milioni di anni fa in un mondo senza tempo: paesaggio tropicale, tanto verde, tanta terra.
Sembra avere le gambe paralizzate, ma è solo la gravità unita alla spossatezza. Sorride: se ne rende conto. L’inquadratura smette di esitare su di lei e si allarga leggermente, quel poco per permettere di vedere un po’ di questo mondo in cui è atterrata. Non sembra la terra, almeno non soltanto, potrebbe essere qualunque altro pianeta. L’astronauta è diventato esploratore, neo Cristoforo Colombo in un mondo che di nuovo non ha nulla. Si alza in piedi, smette di essere un anfibio, alla mercé degli aggeggi che l’hanno portata a terra, metà donna metà macchina. E’ autonoma, è in piedi, ritrova il suo centro e si incammina. Non importa se il luogo in cui si trova è sconosciuto, non siamo lontani da casa. E’ un mondo che non ha nulla di nuovo perché non è nulla che non possa essergli già familiare ora che ha lasciato lo spazio vuoto. Questo mondo è già casa.