Il decadentismo di Star Wars

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Il dilagare di citazionismi starwarseschi da parte delle istituzioni, dai cattolici italiani ai democratici americani, non è una cosa divertente. È la conferma che questa prima parte del XXI secolo sarà ricordata come l’epoca dell’isteria della cultura pop, in una curva ascendente direttamente proporzionale alla fine della sua energia creatrice: quando sono i vertici dei quadri a fare proprie, per la massa, tutta una serie di temi cari alla sottocultura, ad andarsene a quel paese è proprio il valore propulsivo di una sottocultura, la sua capacità di emancipare gli oppressi, i secchioni, i piscioni, gli underdog, quelli che di sottocultura si nutrono e che non sono mai la massa. Tipo il rap che diventa popolare, tipo Jay-Z che, nato poveraccio, oggi non è più la voce del ghetto. Fagocitata dal merchandaising e dal serial-cinematografismo, la sottocultura nerd è ormai definitivamente tramontata, soppiantata da tempo dal più socievole e normalizzato geek (una contraddizione in termini, pensateci: un disadattato cool, un sociopatico socievole, praticamente un autistico perfettamente inserito nella società, come si vorrebbero gli autistici).

La conferma che viviamo in un periodo di decadenza delle sottoculture, ridotte a un residuo fatto di splendore estetico (come per il Tardo Impero romano), arriva dal capovolgimento di senso di Star Wars, che da opera di pace in tempi di pace degli episodi IV-V-VI (1977-83), dopo la fase intermedia, autocritica, degli episodi I-II-III (1999-2005), è diventata opera di guerra in tempi di guerra con gli episodi VII-VIII-IX (2015-19). È il segno dei tempi di una politica mondiale senza più blocchi continentali, guerre fredde, buoni e cattivi, ma sempre più egemone, sempre più orientata a destra, sempre più concentrata sulla difesa dell’Impero contro i Ribelli, sempre meno concentrata sugli affari sociali e sempre più diretta al mantenimento dei privilegi e delle differenze di censo, di ceto, di classe. Non sto dicendo che lo Star Wars di oggi è propaganda neoliberale, piuttosto che è la propaganda neoliberale ad essersi appropriata ormai anche di Star Wars: potremmo parlare di Star Wars in modo diverso, meno di Dart Vader e più di Leila, ma abbiamo scelto di fissarci col primo.

Sforniamo mitopoiesi come se non ci fosse un domani. Il citazionismo è ovunque. Ma diciamo la verità, tutto questo pullulare di spade laser e flash mob militari non è rassicurante. Non può entusiasmare un cinema pieno di gente in divisa e facce allegre. Non è nostalgia, inquieta e basta. Un entusiasmo che puzza di marcio perché è nei confronti di una storia lunga, complicata, un’epopea di fantascyenza che richiede passione, non tifo. È bellissimo vedere quanta voglia di sottocultura abbiamo nel XXI secolo, ma non lasciamoci ingannare dalle apparenze: non è voglia di sottocultura ma è un certo uso che della sottocultura si fa per giustificare le egemonie culturali disinnescandone la carica sovversiva, come per l’hipster: un amante della tecnologia “buona”, quella meccanica e difficilmente manipolabile, ridotto ad amante della barba e delle camicie a quadroni.

Il nuovo Star Wars, esattamente come il vecchio, compiace i desideri del pubblico: la differenza è che il pubblico di allora era più ricco, più entusiasta, più ottimista, più emancipato di quello di oggi che è depresso e deve entusiasmarsi per questa nuova formidabile trilogia scritta da un fan ad uso e consumo dei fan. Il problema è che questo entusiasmo, prova provata della contaminazione reciproca tra cultura bassa e alta, è la triste messa in scena del modo in cui il linguaggio politico si appropria di espressioni popolari per adattarli al proprio uso. Il nuovo Star Wars è un ammiccamento continuo. A cosa, non si sa. Come il vecchiardo che per fare lo splendido ammicca e sorride al giovane. E il giovane si chiede: ma questo che vuole?

 

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