La logica del profitto è storica: il profitto è un modo come un altro per fare economia. Non è quindi una condizione naturale dell’economia, tenendo presente che una condizione naturale dell’economia non esiste.
La logica del profitto è arbitraria: sono proprietario, senza alcun merito ma per pura casualità (di classe, di lignaggio, di acquisti fatti sulla base di rendite precedenti, e così via), di un bene (industria, terreno, etc.) che rendo disponibile nei termini di una sfruttabilità, non di un’adoperabilità: chi disporrà di quel bene deve adoperarlo più di quanto ne abbia bisogno, affinché quel più di lavoro che farà sia ripagato al proprietario per averne concesso l’uso. Essendo il bene non suo, il lavoratore non ha il diritto di adoperarlo il tempo che gli serve, ma dovrà lavorare quel poco in più quanto basta per far fare profitto al capo.
Così alla pura, immeritata (nel senso di casuale) condizione di proprietario/capo/sfruttatore, corrisponde una immeritata (sempre casuale) condizione di dipendente/sfruttato. Il primo merita un profitto sulla base di una condizione (essere il proprietario) puramente casuale. Il secondo merita uno sfruttamento sulla base di una condizione (non sono proprietario) in cui si ritrova, anch’esso, per pura casualità. Alla base del capitale non c’è quindi niente di trascendente. Eppure esso si pone come una trascendenza quando si presenta come una condizione naturale dell’economia in una prospettiva messianica: non c’è alternativa al modo di produzione capitalista, un altro mondo non è possibile.
Il capitale è la più efficace e potente forma di economia perché riflette la pura arbitrarietà dei rapporti di forza, dei territori, dei poteri e delle rendite. Oggi crediamo che tutto questo sia “naturale”, proprio perché riflette, tutto sommato, i rapporti sociali. È il motivo per cui il liberismo ci sembra così “naturale”: è naturale come la giungla. E questa è un’arma teorica davvero straordinaria.
L’economia capitalista mondiale di oggi si regge su una pura arbitrarietà mascherata da naturalità, comprimendo la contraddizione con sistemi sempre più repressivi. Dal XVIII secolo ci vantiamo di essere usciti dallo stato di natura, dalla condizione di animale, e siamo diventati grandi, civilizzati, per abbracciare infine un modello di sviluppo economico basato sullo stato di natura, la giungla, su uno Schumpeter qualsiasi. Il capitalismo è insuperabile per definizione, in due sensi: perché dopo di lui c’è solo distruzione (per sfruttamento delle risorse e degli uomini), e perché non c’è cosa migliore per produrre ricchezza. Davvero non c’è di meglio. Davvero per quanti sforzi possiamo fare (utopici o no che siano), alla fine sempre là andiamo a finire.
Ma credere alla naturalità della logica del profitto non è molto diverso dal credere che la storia sia la volontà di dio: se il capitale è la forma finale dell’economia, il suo luogo naturale e necessario, allora la storia stessa ha una sua finalità, un’intrinseca necessità, come un disegno di dio (un dio capitalista a questo punto).
L’umanità è bizzarra. Si vanta di poter campare tranquillamente dopo la morte di dio sussistendosi con un sistema economico che giustifica sé stesso attraverso una naturalità divina, necessaria, insuperabile. Perché il capitalismo concentra così tanta antropologia? Perché la logica del profitto ha raggiunto oggi la sua egemonia, diventando così metafora per tutto. Ma come tutti gli imperi che raggiungono il massimo livello di espansione, si sente anche terribilmente insicuro, e insiste sulla naturalità della sua posizione arbitraria. Così non gli resta che glorificare sé stesso, visto che non ci sono nemici da demonizzare. Non gli resta che far credere a tutti di essere il luogo necessario e naturale dell’economia, come il fascismo che riscrive la storia dicendo che quest’ultima è sempre stata fascista. È una logica insicura, terribilmente insicura, ma anche terribilmente potente. Tanto potente quanto debole. Un nonnulla la scuote e la mette in crisi. Così, per mantenere la sua egemonia, non gli resta che rappresentarsi come una cosa totalmente naturale e necessaria. Come dio.
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