«La più grande vittoria del sionismo -una vittoria che regge da oltre un secolo- è l’aver persuaso gli ebrei e gli altri che il “ritorno” a una terra disabitata rappresenta la giusta, anzi la sola soluzione ai dolori del genocidio e dell’antisemitismo. Dopo aver passato anni a vivere, studiare e militare nella lotta per i diritti palestinesi, sono più convinto che mai che abbiamo del tutto trascurato lo sforzo -l’umano sforzo- necessario a dimostrare al mondo l’immoralità di ciò che ci è stato fatto: credo che sia questo il compito che oggi, come popolo, abbiamo di fronte […]. Se non mobilitiamo le nostre voci in modo da smascherare con sistematicità il progetto sionista per ciò che è ed è stato, non potremo mai aspettarci che nella nostra condizione di popolo inferiore e dominato cambi qualcosa […]. La nostra lotta contro il sionismo va vinta innanzitutto a livello morale, per essere poi combattuta nei negoziati da una posizione di forza morale, dato che sul piano militare ed economico noi saremo sempre più deboli di Israele e dei suoi sostenitori».
Edward Said, La questione palestinese, The End of the Peace Process. Oslo and After, Pantheon Book, New York 2000, pp. 93-94, via.
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Il ragionamento di Said potrebbe costituire un’ossatura teorica, un chiavistello politico, anzi, il grimaldello politico con il quale il conflitto israelo-palestinese possa trovare, se non una soluzione (i conflitti, checché ne dica Hegel, non hanno sempre in-sé e per-sé la propria soluzione), quantomeno un’epistemica (ἐπιστήμη, epì-, «su», histemi, «stare», «porre», «stabilire». Quindi, «che si tiene su da sé») da cui partire. Ovvero: le cose stanno così, esse costituiscono un fatto.
Qual è questo fatto, anzi, quali sono questi fatti?
1. La superiorità militare di Israele finché gli Stati Uniti restano impero.
2. La natura coloniale della costituzione dello stato di Israele.
Questo significa che per risolvere il conflitto, Israele e i suoi otto milioni di abitanti devono andare semplicemente via? Assolutamente no. La frittata ormai è fatta, una marcia indietro è impossibile, e questo costituisce il terzo fatto:
3. È impossibile eliminare, proprio perché “Stato”, lo stato di Israele.
Il discorso di Said è raffinato e difficile da trasformare in atto pratico perché non impegna nella semplice relazione oppositiva amico-nemico, in nome del quale si sceglie da che parte stare e si vuole semplicemente che l’Altro scompaia (nella storia nessuna guerra è mai finita così. Il vincitore prende tutto, ma il perdente resta. Hegel aveva ragione: ogni negazione dell’opposto non è mai un’abolizione ma sempre una mediazione). Per fare un esempio concreto, è la strategia che si vuole abbia adottato Mandela: spalla a spalla con il bianco colonizzatore per ottenere molto più di quello che si può ottenere facendogli la guerra.
Se abbiamo stabilito che c’è un’imprescindibile superiorità militare di una delle due parti (almeno finché gli Stati Uniti saranno un impero), quale scellerato proclamerebbe una lotta armata profondamente impari se non per promuovere velatamente i suoi interessi? È questo il punto nel quale gli interessi privati di un palestinese qualunque coincidono con gli interessi borghesi dell’intellettuale occidentale “filo-palestinese”.
È quindi la diplomazia l’unica strada percorribile. Ma non quella delle rappresentanze internazionali, perché queste portano alla ribalta gli interessi particolari degli stati-nazione. Piuttosto sono gli interessi particolari delle rappresentanze locali a costituire in questo caso una rivendicazione universale, cioè quella di un popolo che proclama la propria autodeterminazione non su un’evanescente “Palestina” -concetto anch’esso di proprietà borghese-occidentale- ma su una moltitudine di “etnie” e interessi particolari uniti tutti sotto un’unica condizione, quella di una moltitudine sottomessa.
L’intifada ha qui la sua forza concreta, quando mostra una lotta profondamente impari, come lo sono tutte le lotte di emancipazione. Un bambino contro un carrarmato, un sasso contro un cannone. La lotta più inutile che si possa fare dato l’esito scontato, eppure proprio per questo necessaria perché mostra l’evidenza di un’ingiustizia, di una sopraffazione senza alcuna possibilità di replica.
Cosa dice Said? Che la pratica politica per risolvere il conflitto ha la sua chiave nella moralità. Che significa? Che finché le richieste dei “palestinesi” (la moltitudine di popoli che vivono in quella zona) non vengono affermate su un piano morale, resteranno per sempre lettera morta. Ciò non significa che gli abitanti di questa zona del mondo che non sono israeliani devono affermare la propria superiorità morale rispetto all‘“assassino colonialista”, quanto piuttosto affermare il diritto all’autodeterminazione in un contesto evidentemente coloniale.
La conseguenza di questo punto di arrivo è di nuovo l’improponibile punto di partenza: se sono un colono, smetterò di esserlo quando il colonizzatore sparirà. C’è quindi un loop, un circolo che alla fine ti riporta sempre qui. Per questo il conflitto israelo-palestinese è diventato la questione palestinese: come risolvere l’impasse di uno stato inventato contro un altro stato inventato?
L’impasse sta nel fatto che siamo di fronte a due nazioni inventate, ma in realtà tutte le nazioni, proprio in quanto nazioni, sono inventate. Ciò che abbiamo imparato dall’avventura coloniale, ciò che gli studi postcoloniali hanno dimostrato, è proprio l’insostenibile naturalità di uno stato. Ogni stato, come afferma Homi Bhabha, è disseminato. Non è un’entità chiusa ma un’interstizio (per usare un termine caro allo strutturalismo antropologico) aperto; un’entità fragile quando si racchiude in un nucleo “originario”, “vero”, “autentico”, incredibilmente forte quando si disperde in tutte le sue particolarità interne. Viviamo in un mondo in cui il diritto naturale di una nazione ad esistere è semplicemente ridicolo. Siamo tutti consapevoli oggi che ogni nazione ha dietro di sé una storia fatta di sopraffazioni e invenzioni culturali atte a giustificare, nascondere e armonizzare l’orrore fondativo, il violento strappo con il quale un popolo afferma sé stesso e nello stesso tempo distanzia sé stesso da questo atto (il “nakba” -l’esodo forzato e indiretto di non meno di 700mila persone per fare spazio allo stato di Israele- è l’atto fondativo di Israele che gli israeliani non possono ammettere come proprio perché atto criminale).
Seguendo questo ragionamento disillusorio sul concetto di nazione, si arriva alla conclusione che tanto il sionismo quanto l’anti-sionismo rappresentano una tremenda ingenuità, perché entrambi si rifanno all’ingenuo e premoderno concetto di “nazione” come entità naturale, fissa e immutabile. Quindi chi si dice sionista è uno stupido? No, semplicemente opportunista, porta avanti interessi particolari, di classe, che poco hanno a che vedere con questioni nazionali. È quello che Said afferma quando dice che bisogna «smascherare con sistematicità il progetto sionista», mostrare quindi gli interessi privati e tutt’altro che romantici dietro l‘“amore per la propria terra” (che non c’entra niente con la “terra promessa” biblica). Non è un caso che proprio nel momento storico del tramonto (attenzione, un tramonto del genere può durare secoli) delle nazioni come entità naturali -di cui i nazionalsocialismi rappresentano l’ultimo baluardo- sia seguito il rigurgito conservatore del sionismo.
Per questo l’abolizione dello stato di Israele è ipocrita e “borghese”: l’unica soluzione in questo senso è abolire non lo stato di Israele ma ogni stato. Ma questo ancora nessuno è disposto a farlo.
Said non propone una soluzione (non è detto che un conflitto del genere possa mai risolversi), piuttosto un piano empirico evidente su cui i popoli che lottano contro l’oppressore possano riconoscersi: la loro superiorità morale, fintantoché resteranno oppressi, nei confronti dell’oppressore. Questa superiorità morale va mantenuta però in una complicata consapevolezza: io Israele non ho alcun diritto naturale da reclamare così come coloro ai quali ho usurpato la terra non hanno alcun diritto naturale di cacciarmi.
La finalità di questa superiorità morale è puramente comunicativa: devono saperlo tutti, tutti devono rendersi conto della condizione di oppressi in cui vivono i popoli di quella zona che non sono israeliani. E quelli che devono convincersi più di tutti sono soprattutto l’opinione pubblica dell’impero che rende possibile la superiorità militare di Israele sugli altri popoli confinanti: gli Stati Uniti.