La promessa del capitalismo: vivere come gli ateniesi

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«I capitalisti cercano di estendere l’influenza e assicurarsi il miglior ritorno possibile sui loro investimenti; finché niente vi si oppone, essi si infischiano delle convenzioni e dei costumi locali. È solo quando l’ambiente costituisce un ostacolo alle loro mire che viene a galla la necessità di imporre degli aggiustamenti e, all’occorrenza, sconvolgere le abitudini sociali.

[…]

Gli adepti del culturalismo non mancano, del resto, di far valere la diversità delle nostre forme di consumo come una prova del fatto che i nostri bisogni sono culturalmente costruiti. Ma simili truismi non dicono niente della comune aspirazione degli uomini a non morire di fame, di freddo o di disperazione.
Ed è precisamente di questa umana preoccupazione del benessere che il capitalismo si nutre ovunque si insedi. Come osservava Marx, la “sorda pressione dei rapporti economici” (Il Capitale, libro primo, capitolo 28) basta a gettare i lavoratori nelle reti dello sfruttamento. È vero indipendentemente dalle culture e dalle ideologie: appena [i lavoratori] posseggono una forza lavoro (e nient’altro), la vendono. Se il loro ambiente culturale li dissuade dall’arricchire il loro padrone, sono liberi di rifiutare, ovviamente; ma ciò significa, come ha mostrato Engels, che sono liberi di morire di fame».

Vivek ChibberCapitalism, class and universalism: Escaping the cul-de-sac of postcolonial theory, Socialist Register, n. 50, in L’universalismo, un’arma per la sinistra, Le Monde Diplomatique, n. 5, anno XXI, maggio 2014, Il Manifesto, anno XLIV, n. 119, 20 maggio 2014.

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L’anno scorso il professore di sociologia newyorkese è stato uno degli studiosi più discussi nel campo. Nel suo Postcolonial Theory and the Specter of Capital (Verso, Londra 2013) ha criticato fortemente gli studi postcoloniali, colpevoli secondo lui di aver sferrato un attacco mortale al marxismo e alla sua teoria del capitalismo, distruggendo in un sol colpo ciò che di buono c’è nell’analizzare gli attuali rapporti economici con una teoria vecchia di centocinquant’anni, ma soprattutto gettando nel ridicolo l’uso della stessa parola “capitalismo”, l’ordine economico che tende ad essere scelto in ogni angolo del mondo.
I postcolonialisti hanno contribuito a “de-europeizzare” il marxismo, mostrando come le lotte per l’emancipazione possono avere altre forme oltre a quella classica proletaria, tanto cara a un uomo morto trentaquattro anni prima della Rivoluzione d’ottobre. Ma, sostiene Chibber, la furia critica dei postcolonialisti è stata esagerata. Perché non ha soltanto reso ingiustamente inattuale il marxismo, ancora oggi molto fecondo nello spiegare i rapporti di forza in politica e in economia, ma addirittura il capitalismo stesso, guarda caso (e non è una coincidenza) nel momento in cui regna indisturbato nel mondo. Basta vedere capitalismo ovunque! Affermano i postcoloniali. È un’ossessione europea.
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Il capitalismo è sfuggente. È difficile identificarlo, localizzarlo. Nessuno si dice capitalista oggi, piuttosto lobbista, industriale, imprenditore, ma capitalista no. Perché? Perché il capitalismo non è un semplice rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, è qualcosa di più profondo, mentre ciò che sale in superficie è solo l’ossessione del profitto. 
Da buon marxista, Chibber sostiene che il capitalismo si nutre di preoccupazione del benessere
La tragedia, o la farsa, del capitalismo è che esso si lega indissolubilmente ai bisogni primari: mangiare, bere, cagare, scopare. Quattro pilastri che vengono prima di qualunque economia, cultura, simbologia, istituzione, istruzione, buon senso, ragione. Sono i pilastri della sopravvivenza, quelli che ci avvicinano all’animale e ci allontanano dal divino. Quelle quattro cose che non richiedono una particolare intelligenza per essere eseguite. Quelle quattro cose che siamo tutti costretti a fare se vogliamo vivere, prima ancora di vivere ricchi, felici, soddisfatti. La caratteristica fondamentale di questi quattro pilastri è che non piovono dal cielo ma richiedono una partecipazione attività di colui che deve goderne. Dobbiamo in pratica dedicare un sacco di tempo alla sopravvivenza.
L’uomo, da quando è nato, ha sempre desiderato di liberarsi di questo fardello. Vorrebbe tanto dare per scontati questi bisogni primari, renderli non più bisogni naturali ma esigenze che si soddisfino da sé, automaticamente, come l’aggiornamento in background di un’applicazione, così da poter dedicare tempo a fare altre cose.
Com’è possibile che si arrivi a sperare che mangiare, bere, cagare e scopare siano cose che possano, diciamo così, capitare, possano piovere dal cielo senza alcuno sforzo? Il cibo non si procaccia da solo, bisogna alzarsi presto tutte le mattine e andare a caccia per ottenerlo. Quindi, da un lato c’è sempre una libera scelta dietro i bisogni primari: puoi sempre scegliere se procacciarti il cibo o morire di fame. Dall’altro siamo obbligati a scegliere di procacciarci il cibo se vogliamo continuare a vivere per scegliere. Ecco in due parole spiegato il principio della libertà: la libertà è una scelta condizionata. Solo dio, un essere che non ha né corpo né vita, può liberamente scegliere, incondizionatamente.
Questo principio di libertà aiuta a capire certe dinamiche di sottomissione dei popoli, la ragione per cui alle volte non c’è altra scelta che sottomettersi. Seguendo un filone che va da La Boétie ad Engels, la scelta tra essere sfruttati o ribellarsi non rappresenta più una scelta quando è in gioco la sopravvivenza. La servitù volontaria non è sempre una questione di debolezza, può anche essere una questione di necessità.
La micidiale forza del capitalismo sta nel creare un corto circuito tra queste due matrici, la necessità dei bisogni e la libertà. Esso lega due cose molto diverse: lavoro e benessere, necessità vitali ed economiche, merce e valore, scambiandole e ripetendole senza soluzione di continuità.
Chi non sogna di sollevarsi dal fardello dei bisogni primari? L’uomo è più di un animale, ma meno di un dio: ha pur sempre un corpo, proprio quello che la scienza moderna ci promette di sostituire con i miracoli della medicina. La potenza del capitalismo sta tutta in questa visione, è figlia del desiderio di immortalità, che non è altro che un profondo desiderio di morte: vivere senza bisogni vitali, vivere senza corpo, vivere come dio. Così, da mastro televenditore, il capitalismo sentenzia: perché ancora con sta storia che si deve perdere un sacco di tempo a bere, mangiare, cagare e scopare? Tu, consumatore, uomo, hai bisogno di ben altro. Hai diritto alla felicità prima della vita. La felicità è più importante delle inezie della sopravvivenza.
Un sacco di volte nella storia abbiamo ottenuto questo particolare stato. Un periodo storico molto famoso, in cui si poteva ammirare indisturbati la bellezza del mondo senza chinarsi a raccogliere bacche. Era la Grecia del V secolo avanti cristo. A quei tempi un terzo della popolazione delle città-stato dell’Attica si dedicava ai piaceri dell’esercizio politico e del libero pensiero, mentre gli altri due terzi si preoccupavano non solo di procacciare il cibo per se stessi, ma anche per l’altro terzo.

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