Mi trovavo affianco ai soldati francesi di stanza vicino a un terreno abbandonato, presso la prefettura di Niono. Un elicottero stava decollando sollevando enormi nuvole di polvere. Istintivamente, tutti i soldati nei dintorni hanno indossato le loro sciarpe per evitare di ingoiare la polvere. Era sera. La luce del sole filtrava attraverso gli alberi e le nuvole sollevate dall’elicottero. C’era una bella luce. Ho visto questo soldato che indossava questo foulard divertente e ho scattato la foto. Al momento non ho trovato la foto particolarmente straordinaria o sconvolgente. Il soldato non posava. Non c’è stata alcuna messa in scena dell’immagine. Il ragazzo se ne stava lì, proteggendosi il viso dalla polvere, aspettando che l’elicottero atterrasse. Nessuno mi ha impedito di scattare la foto.
Nel racconto di Issouf Sanogo, autore dell’immagine del soldato francese con il foulard della morte, è contenuta tutta la potenza del fotogiornalismo. Una foto che ha costretto Thierry Burkhard, portavoce dello stato maggiore della Francia, a intervenire definendo il comportamento del soldato «inaccettabile». «Questa immagine – ha detto – non è rappresentativa dell’azione che la Francia conduce in Mali». Invece è rappresentativa eccome, essendo nient’altro che la più essenziale raffigurazione del soldato, portatore di morte.
Sanogo spiega che la scena non è una messa in scena, nessuno si è messo in posa, il soldato non faceva nient’altro che coprirsi dalla polvere alzata dall’elicottero. Certo, l’immagine è scenica, come lo è la scelta del soldato di indossare un foulard del genere invece di una semplice sciarpa, così come la scelta del fotografo di scattare con un determinato taglio che racchiude un cannone, un blindato, soldati sullo sfondo e una “bella luce”. Sanogo era ben consapevole di cosa stava per ritrarre, e probabilmente anche delle conseguenze dello scatto una volta pubblicato, ma le sue intenzioni si fermano qui, limitandosi a voler mostrare ciò che accade senza influenzare. Fotogiornalismo insomma.
L’immagine pare faccia da contraltare ad un’altra, letteralmente scenica, quella di Joker, il soldato di Full Metal Jacket che indossa una spilla della pace e un casco con su scritto “born to kill”. Il soldato di Kubrick nello stesso tempo si mente (spilletta) e si afferma per quello che è (casco), racchiudendo in una sola persona le contraddizioni del militarismo del dopoguerra: soldato mandato sul fronte per mantenere la pace o soldato con le stesse buon vecchie funzioni di sempre? In realtà in entrambi i casi siamo di fronte alla stessa immagine, con la differenza che Joker porta su di sé le contraddizioni che il soldato francese mostra solo in parte, rimandando il resto a chi lo osserva: sono portatore di morte, ma non servivo a portare pace e democrazia?
L’ironia sta qui nel gioco della maschera, nella quale collimano le angosce e le verità della cultura occidentale. Per mostrare il suo vero volto il soldato non si mostra, anzi si copre. Per togliere il velo della menzogna sulla guerra moderna, quella delle missioni di pace, se n’è dovuto stendere un altro, un velo che non nasconde, ma che anzi al contrario mostra le cose per quelle che sono. E’ un nascondersi che mostra, un mostrare che nasconde. Gli antichi greci avevano un termine per indicare ciò che si mostra celandosi, ciò che scoprendosi si mantiene nella velatezza: a-letheia, il non-velato. E’ ciò che traduciamo col termine verità. Un mostrare che in questo caso aderisce perfettamente a ciò che vogliamo dire: per mostrarsi ci si deve in parte nascondere.
C’è un velo molto più antico del foulard indossato dal soldato, e che in questo caso assolve la stessa funzione, il chador. Il suo uso millenario è legato al segno distintivo per antonomasia del sesso femminile: i capelli lunghi. Il velo utilizzato dalle donne musulmane, infatti, serve a raddoppiarli, rafforzando l’identità di chi lo indossa. Stendendo un velo che parte dai capelli e copre tutto il corpo, il chador rafforza simbolicamente chi lo indossa, così da essere immediatamente riconoscibile: una donna sposata di un determinato luogo, status sociale, etnia. Tutte informazioni che la sola capigliatura non potrà mai dare. Qui come lì per mostrare la propria identità ci si copre, rendendo inequivocabile chi c’è sotto: una donna, un soldato. E’ un esempio di rappresentazione difficile da digerire per il mondo cristiano, da sempre legato all’iconoclastia della trasparenza figurata, del Dio barbuto, dei santi del calendario, del Gesù Cristo dal cuore spinato, fino ad arrivare all’ossessione statunitense per le impronte digitali. Niente di più lontano dalla rappresentazione islamica che proibisce categoricamente l’immagine di Maometto e di Allah.
Il foulard del soldato ci dice che siamo al cospetto di uno strumento di morte. Questo risulta «inaccettabile» per le istituzioni che tanto si spendono per mascherare questa verità. Come si potrebbe perpetrare la menzogna delle “missioni di pace” se i soldati mostrassero il loro vero volto? Per dirsi, la verità deve conservare una certa velatezza, si direbbe una certa rappresentanza. Anche la menzogna ha lo stesso identico movimento, con la differenza che il velo non lo vediamo, non ne siamo consapevoli, pur trovandosi davanti agli occhi. Così non basta più indossare elmetto e mimetica per mostrare il vero soldato. Per ristabilire la verità bisogna coprirlo, affinché egli si sveli.