ilPost ha pubblicato la lettera di risposta dell’allora direttore della NASA Ernst Stuhlinger a suor Mary Jacunda, missionaria in Zambia, che gli chiedeva perché spendere tutti questi soldi per le esplorazioni spaziali quando sulla terra milioni di esseri umani muoiono di fame. Stuhlinger si difende appellandosi al vecchio orgoglio positivistico sugli indubbi benefici che il progresso scientifico porta sul progresso umano, e chiude la lettera con la splendida immagine simbolo dell’ambientalismo. Più che la risposta però, è la domanda ad essere interessante. Essa è ingenua come quella che porrebbe un bambino, e analizzarla aiuterebbe a scioglierla, nel senso di analuo.
Prima di tutto bisogna spezzare la linea, deviare il ragionamento che pone due questioni disgiunte l’una dall’altra, quella tra i soldi che si spendono inutilmente per l’esplorazione del sistema solare e quelli utili per aiutare i paesi poveri. Lasciando stare l’utilitarismo di fondo dietro l’innocente polemica della suora – le esplorazioni spaziali non sono utili perché non danno profitto – la verità è che purtroppo la fame nel mondo non è un problema economico ma politico, non è legato alla produzione e alla distribuzione del cibo come ingenuamente afferma Stuhlinger ma alla stessa ricchezza delle nazioni, fondata com’è sullo sfruttamento di una parte della popolazione mondiale, in una parola quel vecchio e famoso termine tanto conosciuto fino a vent’anni fa: il capitalismo. La fame nel mondo è quindi certamente un problema economico nella sua natura, nel senso che risiede nel modo in cui è organizzato il sistema di produzione – quindi anche sulla distribuzione – ma la sua soluzione non richiede un intervento di tipo economico/distributivo – quante tasse destinare all’Africa? come fertilizzare un terreno? – bensì politico, e Stuhlinger si avvicina di parecchio quando afferma che “un efficiente sollievo dalla fame, temo, non arriverà fino a quando tutti i confini tra le nazioni non saranno diventati più labili di adesso”. Che ironia inviare una lettera con temi di questa portata proprio agli Stati Uniti, l’impero economico che, dopo la Spagna del XVI secolo con il colonialismo e dopo l’Inghilterra, il Portogallo e la Francia tra XVII e XVIII con lo schiavismo, basa la sua ricchezza sullo sfruttamento di una parte del mondo. Forse suor Jacunda tanto ingenua non era.
La domanda reale non è quindi come destinare le giuste risorse economiche ai paesi poveri ma perché i paesi poveri sono poveri. Il sintagma “perché la fame nel mondo?” va sostituito con un altro che dà il nome alla causa della fame nel mondo, ovvero perché il capitalismo? Posta così, la questione prende tutt’altra piega, quella reale che va oltre l’opinione del senso comune che invece si domanda: perché gli stati ricchi invece di allontanare gli uomini dalla terra non li avvicinano alle persone bisognose? E’ il trucco della pietà, quello che elogia il valore dell’atto di dare elemosina quando invece altro non è che l’occasione per il ricco di sentirsi a posto con la coscienza.
Che senso ha oggi la domanda “perché la fame nel mondo?”. Nessuna, come tutte le questioni che pone il senso comune. E’ addirittura datata, obsoleta, sostituita da un’altra più attuale: “perché il cambiamento climatico?”. Entrambe però, se seguiamo la linea spezzata che dal senso comune ci porta al reale, pongono la stessa lapidaria e indecidibile domanda: perché il capitalismo?
La globalizzazione dei mercati ha mostrato la straordinaria potenza di un fenomeno tipico del consumismo, la totalizzazione, ovvero la sua straordinaria capacità di fagocitare le opposizioni facendole rientrare nel sistema di produzione. E’ il caso proprio delle politiche di “aiuto” ai paesi poveri, perfettamente incorporate nel sistema di produzione come una grande elemosina mondiale, quello che SlavoJ Žižek, con l’efficace esempio della Starbucks, chiama il capitalismo culturale.