Qualche sera fa ero a cena con una mia amica che insegna giornalismo. A un certo punto l’ho scandalizzata. Da come ha reagito sembrava che avessi fatto proposte indecenti alla cameriera suonando l’inno nazionale italiano sui bicchieri con il coltello e la forchetta. Ma non avevo fatto nulla di tutto questo. Mi aveva chiesto se avevo letto un certo romanzo, e io le ho semplicemente risposto che non leggo un’opera di narrativa dal 1971.
Mentre mi guardava a bocca aperta, le ho spiegato che la mia decisione risale all’epoca in cui studiavo a Cambridge. Ero seduto nella mia stanza a leggere un romanzo, quando all’improvviso mi venne in mente che avrei usato meglio il mio tempo leggendo un libro di storia, la materia in cui mi stavo laureando. Misi da parte il romanzo e da allora non ne ho più aperto uno.
Per quanto possa sembrare strano, ne ero convinto, e lo sono ancora. M’interessano solo le cose successe veramente, e non ho voglia di leggere storie inventate. “Ma”, ha protestato lei, “a volte la narrativa rivela verità più profonde”. Mi avevano già fatto quell’obiezione. “Se la pensi così”, le ho risposto, “devo raccontarti la storia di Jimmy’s world“.
Jimmy’s world era il titolo di un articolo di cronaca apparso sulla prima pagina del Washington Post il 28 settembre del 1980. Cominciava così: “Jimmy ha otto anni ed è un eroinomane di terza generazione… Si droga da quando ne ha cinque… e tutti i giorni Ron, l’amante di sua madre, gli infila un ago nel braccio e fa cadere il povero bambino di quarta elementare in un sonno ipnotico”.
La notizia fece sensazione, la polizia e i servizi sociali della città cominciarono freneticamente a cercare il piccolo Jimmy per salvarlo. L’articolo era ben scritto, e qualche mese dopo vinse il riconoscimento più ambito dai giornalisti americani: il premio Pulitzer.
L’aveva scritto una giovane e ambiziosa cronista di nome Janet Cooke. Era nata a Toledo, in Ohio, e il quotidiano locale decise di scrivere un articolo sulla sua concittadina più famosa. Utilizzando le note biografiche che Cooke aveva fornito alla commissione del Pulitzer, il giornale telefonò alle università in cui diceva di aver studiato per le sue varie lauree. Tutte risposero che Janet Cooke non aveva studiato lì. A quel punto la redazione chiamò il Washington Post per chiedere spiegazioni. Il Post fece le sue indagini, ottenne le stesse risposte, e cominciò a suonare un campanello d’allarme. La direzione convocò Cooke per interrogarla.
Nel suo curriculum aveva dichiarato di parlare portoghese, e le chiesero di dire due parole in quella lingua. Non fu in grado di farlo. Le chiesero di mostrare ai colleghi del Post dove abitava Jimmy. Non poteva. Allora le chiesero di presentare qualche prova della sua storia. Non poteva fare neanche quello, e alla fine confessò che Jimmy era una sua invenzione. Rifiutò il premio Pulitzer e si dimise dal giornale.
Finito il racconto, ho fatto una domanda alla mia amica: “Se invece di uscire sulle pagine di un giornale questo articolo fosse stato pubblicato in un libro di racconti, dove sarebbe stata la verità più profonda?”. La mia amica mi ha risposto che la scrittrice aveva usato la sua fantasia per colpire i lettori e descrivere i terribili effetti della droga. Era un avvertimento, e l’immagine di un bambino di otto anni tossicodipendente era molto potente.
Dato che era altamente improbabile che esistesse un drogato così giovane, ho replicato che la storia non era potente ma assurda. Non conteneva nessuna verità perché era stata inventata. Era come il film su un processo che avevo visto in tv la sera prima. L’ho trovato abbastanza piacevole fino a quando non ho cercato notizie sul caso su Google e ho scoperto che lo sceneggiatore aveva cambiato alcuni punti essenziali della storia per renderli più vicini allo stereotipo delle fiction di questo genere, secondo cui il giudice crudele vuole assolutamente che l’imputata sia giudicata colpevole (in realtà il magistrato aveva ritenuto che le prove contro di lei fossero così inconsistenti da chiedere alla giuria di dichiararla innocente).
In conclusione, quello che penso della narrativa è che se un fatto o un personaggio sono plausibili, non ho alcun desiderio di leggere il frutto della fantasia di uno scrittore. Per me la fiction ha valore solo quando non cerca di riprodurre la realtà, quando supera i limiti di ciò che è fisicamente possibile e diventa una fantasia rivelatrice o commovente. Preferisco Pinocchio, il Canto di Natale di Dickens, o Mary Poppins a una storia che racconta di persone inventate in situazioni “reali”, o di persone reali in situazioni inventate.
Molti pensano che il mio rifiuto della narrativa sia insensato, e devo ammettere di non aver mai conosciuto nessuno che condivide il mio punto di vista. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i lettori di Internazionale. Scrivete i vostri commenti sulla pagina di Facebook della rivista. E niente invenzioni, per favore.

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