Recentemente ho letto un interessante post di Massimo Mantellini che raccontava come in due ore di scrolling sui risultati di ricerca Google per “La grande bellezza” abbia trovato i primi link interessanti soltanto dopo il 120° risultato. L’analisi arriva a criticare una presunta perdita di una «capacità automagica» avuta in passato da parte di Big G nel “leggerti nel pensiero” quando cerchi, ovvero di avere subito, diciamo nei primi dieci risultati, quello che cerchi. «Google non funziona più come un tempo» afferma Mantellini, «il suo vecchio magico pagerank» «non sembra più in grado di filtrare alcunché», «i tempi cambiano, le mamme invecchiano, abbiamo bisogno di un nuovo motore» conclude il blogger di Manteblog.
La riflessione di Mantellini è importante perché ci fa notare com’è cambiata, nel giro di pochi anni, la nostra percezione del motore di ricerca per antonomasia: da “magico pagerank” a “mamma invecchiata”. Il che è vero: Google, nato per consuetudine il 15 settembre 1997, è passato da brillante e rivoluzionaria risorsa del web a, soprattutto dopo lo scandalo NSA, pesante, potente e necessaria multinazionale. Insomma, è ormai noto che non c’è più niente di amorevole in Google, anche se pare che non possiamo farne a meno.
Ma una critica di questo tipo ad un motore di ricerca è in realtà soltanto una critica a metà, perché manca di tutta una questione che solo di recente è stata sollevata: la responsabilità di chi cerca e di chi crea i siti. Lamentarsi del fatto di trovare una prima recensione interessante soltanto dal 120° risultato in poi senza tenere conto che la ricerca è stata fatta sulla base di una frase-chiave incompleta quale “la grande bellezza”, e non con un più preciso e ovvio “recensione la grande bellezza”, significa lamentarsi di non trovare subito la ricetta del sorbetto al limone se si scrive “limone”. E’ la logica che, semplificata al massimo, ti porta a dire “piove governo ladro”.
Google per fortuna non crea i siti che indicizza, per cui se si pretende da lui una maggiore efficacia bisogna anche pretendere la maggior efficacia possibile da parte di due entità: il ricercatore (aggiungere “recensione” alla chiave di ricerca se si cerca una recensione è un ottimo inizio) e il sito. Trovare l’equilibrio giusto tra questi due fattori, qualità della ricerca e ottimizzazione dei contenuti che aspettano solo di essere trovati, è la chiave per avere un motore di ricerca onesto, giusto, equilibrato e selettivo. Il SEO dovrebbe essere colui che si occupa di tutto questo. Dovrebbe in teoria non preoccuparsi soltanto di fare un sito “a misura di Google”, ma anche far coincidere le esigenze interne di un sito con quello che Google ti chiede per essere interessante. A seconda di come lo si guardi, SEO può essere semplicemente un’attività di puro marketing nel caso di un sito e-commerce, o anche un ottimizzatore di contenuti nel caso di un giornale online, un ruolo non troppo diverso dal titolista dei giornali di carta. In entrambi i casi la domanda che il gestore del sito si deve fare è sempre la stessa: come adattare i contenuti ai motori di ricerca senza sacrificare la loro qualità?
La “magia” di Google è sparita perché, fortunatamente, è sparita la “magia” messianica del web, passato da rivoluzionario spazio di condivisione di tutte le menti in un più ridimensionato luogo virtuale non tanto diverso da qualunque altro luogo fisico: nella piazza manifesti, soffochi le sommosse, celebri la caduta dei dittatori e vai a vedere il concerto di Laura Pausini. Le stesse cose le fai navigando nel web. Come il mondo, il web è insomma tante cose, anzi è tutte le cose: la definizione di mondo è proprio questa. Ma, attenzione, “mondo”, ci dice la filosofia, non è un’entità. Esiste mica qualcosa che puoi incontrare per strada e dire: “Hey, ciao mondo!”? L’ente “mondo” non esiste, esiste un insieme che contiene tutte le entità fisiche del pianeta, e questo insieme si chiama “mondo”, ma non esiste di per sé. Per un’innata predisposizione del genere umano, ci sarà sempre l’ineliminabile desiderio di fare esistere questo ente “mondo”. E’ il desiderio della “globalizzazione” e sappiamo bene dove ci sta portando: la riduzione di un ente come “mondo” alla sua economia. “Mondo” però non è l’economia mondiale, giusto? Per questo la globalizzazione non funziona, o almeno funziona se fai parte di quelli che nonostante la crisi (o proprio grazie alla crisi) continuano a fare un sacco di soldi. Ma questa è un’altra storia. Tutto questo per dire che quel messianico, confortante e inquietante slogan dell‘“ora cambia tutto” tanto caro ai produttori di smartphone è quindi un’affermazione puramente neutrale, non dice nulla finché non viene “riempita” da cinque questioni di base: chi, cosa, quando, come e perché si debba determinare questo cambiamento globale? Lo si vuole per incrementare la ricchezza economica delle nazioni o anche per qualcos’altro?
E’ una fortuna che non ci sia più la “magia” di Google, perché vuol dire che cominciamo a guardarlo per quello che è davvero: un semplice motore di ricerca, oppure, a seconda di come la si vede, non soltanto un semplice motore di ricerca. La responsabilità dei risultati di ricerca non pende solo dalla parte di chi indicizza i siti, ma anche da chi crea i contenuti da indicizzare, visto che si tratta di due elementi separati che insieme permettono a Google di funzionare. Edward Snowden ce l’ha fatto capire con chiarezza cristallina: dobbiamo smetterla di credere che basta accontentare chi ti indicizza per avere il web delle meraviglie, perché chi indicizza non opera solo nel testo di un sito ma anche e necessariamente sul lettore. Per questo Google sarà sempre un’azienda, un privato, un ente interessato a sapere tutto quello che fai non perché è un voyeur ma perché deve indicizzare alla grande! La sua responsabilità è quindi anche la nostra responsabilità. Libertà è partecipazione oppure no?
Come funziona Big G? Cosa vuole? Cosa vuole da un sito per ottimizzare la baraonda di parole che lo compone? Ma anche: cosa vuoi tu che crei un sito, lo fai solo a scopo di lucro o anche per qualcos’altro? Google è chiamato in causa ad una maggiore responsabilità. E noi lo siamo altrettanto.