Il social è mio e me lo gestisco io

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Quindi dei social network puoi farne anche un uso creativo, tipo se sei un’artista.

M’ero invece abituato all’idea di un Monolite dove far fare pugnette al proprio ego, a una Cosa (nonostante mi sia quasi del tutto disintossicato dalla terminologia lacaniana, ci sta sempre bene a voler fare gli antropologi. E a voler esser corretti questa parola è freudiana). Credevo che i social fossero un blob impossibile da maneggiare il cui uso comporta sempre una certa invischiatura, un certo appiccicume, un che di inattaccabile da cui ci si deve solo difendere. Come con lo specchio. Invece c’è una certa, autonoma autarchia (anche l’autarchia, oggi, può essere viziata, per cui lasciatemi dire “autonoma autarchia”) che è possibile esercitare. Accipicchia!

Io appartengo a quel cinquanta per cento di persone del mondo occidentale che conserva tutto. (Come ci starebbe bene ora una striscia di Zero Calcare con quel suo umorismo da studente fuorisede). Non butto niente. Suppellettili, mobili della nonna ricevuti in eredità (ho un cappotto della marina militare della seconda guerra mondiale di mio nonno che non vi sto a dire. Forse è la cosa più preziosa che ho in casa, lo dico perché se ce l’ho è proprio grazie a questa mania). Zaini, corde di chitarra rotte, bollette del 1997, vhs. Ma soprattutto carte, cartuscelle e calzini bucati. Non si butta via niente, si deve conservare tutto altrimenti come assecondare la propria ansia di controllo?

Invece questi qui prendono e cancellano tutto, come se da un giorno all’altro decidessi di buttare tre quarti delle cazzate che conservo. Ma siamo impazziti?!

Che gesto rilassante, distensivo. Un po’ come a dire “l’ego è mio e me lo gestisco io”. Un po’ come fa Beyonce che, dopo una parentesi femminista facilona, ha deciso di interpretare una più decisa e complessa topona autarchica e manesca che pubblica album senza promozione e sfascia auto di compagni fedifraghi. Così, all’improvviso, manco fossimo negli anni ’70.

La neurologia – la scienza statistica che colora aree del cervello come fossero i SATA di una scheda madre e che invece di presentarle come metafore ce le spaccia come cose scientifiche che accadono veramente – ce lo spiega efficacemente: la coscienza è un ritardo, la ridondanza del pattern neuronale, un flusso indistinto di feedback, l’eco della stanza dei bottoni dove si prendono le decisioni. (Odio i neurologi: paraculi ignoranti e insicuri. Vaccelo a spiegare che sono duemila anni che i filosofi stanno a dire le stesse cose senza bisogno di tomografie computerizzate. “Ma qui è diverso, è scienza”. Grrrrr. Segna: un articolo che dia addosso alla neurologia. Anche se, a dire il vero, questa bella immagine della coscienza come riverbero è contenuta in un libro di filosofia). I Radiohead ci stanno quindi dicendo che essendo l’ego una cosa indistinta che archivia solo quando non se la passa bene, perché non farne ciò che si vuole? Il social è mio e me lo gestisco io.

Che bravi questi artisti. Ogni tanto ci ricordano che il mondo non è destinato per forza a essere governato da uno Stato Mondiale Distopico. In realtà, le cose stanno già andando in questa direzione – di cui il romanzo rappresentativo che finora è invecchiato meglio, molto meglio di 1984, è Il Mondo Nuovo di Huxley – ma alla fine, tutto sommato, questo non significa che siamo perduti del tutto. C’è sempre la possibilità di esercitare una certa autonomia. I Radiohead ci stanno dicendo che, per essere liberi, qualcosa, purtroppo, va sempre sacrificata.