Io resto a casa, io esco di casa. Chi sono?

La locandina di “Il ragazzo del Pony Express” (1986), con Jerry Calà e Isabella Ferrari

Sono dipendente di una società privata a conduzione familiare il cui passaggio generazionale è bloccato, come tutte le società a conduzione familiare. Negli anni mi sono ritagliato un piccolo spazio editoriale come responsabile di un giornale specializzato. Il mio regno in declino.

Sono un giornalista freelence, anche se non proprio un vero giornalista freelence, quello che scrive almeno un paio di articoli al mese pagati sui 70 euro e un nome sui social più o meno se lo è fatto. Non ho la pasta, o forse ho un contratto a tempo indeterminato che mi ammoscia l’ispirazione. Comunque sia, saltuariamente, scrivo e ho scritto per quasi tutti, dalle riviste ai quotidiani.

Sono al settimo anno di studio della chitarra classica. L’anno prossimo mi iscriverò al biennio del conservatorio per prendermi la laurea, che sommerò a quella in storia e filosofia per aumentarmi le possibilità di impiego pubblico nella scuola vincendo un concorso.

Una quindicina di anni fa decisi di diventare giornalista e BOOOOOOOM. Il web, facebook, le notizie le leggiamo e le scriviamo tutti. Quel tesserino? Buttalo.

Cinque anni fa decido di diventare un musicista e BOOOOOM, pandemia, fine degli spettacoli dal vivo.

Portassi sfiga? Fortunatamente, forte della mia biblioteca che ha quasi raggiunto il numero dei libri posseduti da Michel De Montaigne, tutto questo ha un nome: modernità. No, no, non è post-modernità, quello è il nome di chi dà i nomi alle cose senza studiare, o non ha le palle di ammettere che la modernità è proprio questo, un’accelerazione che corre parallela all’alienazione. L’altra, quella visione ottimistica della modernità, si chiama positivismo ed è morta alla fine dell’Ottocento.

Questa settimana proverò lo stesso ad andare dagli allievi a dare lezioni private di chitarra, esentasse. Da qui al 3 dicembre smetterò solo alla prima autodichiarazione falsa. La copertura è che dagli allievi ci vado durante le ore di lavoro da contratto da impiegato, ore che da un po’ di tempo ho parzialmente riallocato alla sera e ai week end, così da dare più continuità al feeds del mio giornale.

Sono in freddo con la vicina di casa, professoressa universitaria che mi piace. Mi sono permesso di sgridarla richiamandola alla dignità morale dopo che ha pubblicato un flame post nel primo lunedì delle manifestazioni nelle strade di Napoli contro il lockdown. Scriveva – parafraso ma più o meno stiamo lì – “so tutti ricchi, so tutti camorristi, so tutti stronzi, e devono morire” (per la precisione, ha scritto: non si meritano le cure, non si meritano i dottori). Le ho detto “prof, un po’ di contegno, che cazzo scrivi”, e lei “ma no, non hai capito, che tristezza, mi fai cadere in depressione [gatta morta], tu non mi capisci [gatta morta], ho scritto quelle cose ma mi hai frainteso [a un certo punto, davvero, si è difesa dicendo che non voleva dire quello che ha scritto], volevo solo dire che non è giusto manifestare se c’è il virus, anche se in realtà è giusto di per sé manifestare, ma non è giusto manifestare se c’è il virus, ma è giusto però manifestare, però non è giusto manifestare se c’è il virus, però che cazzo manifestate a fare” e così via in loop, finché non si è stufata e mi ha detto che lei vota Black Lives Matters. Se prima non aveva alcuna intenzione di darmela, figuriamoci adesso.

Pare che quindi si stia stagliando una nuova lotta interclasse (intergenerazionale?). Una querelle tutta faceboocchina tra chi sta a casa e chi va a lavorare. Considerando che i social sono il grosso della nostra percezione della realtà, è una querelle molto seria perché profilerà gli umori di domani. Una questione che mi ricorda un paio di libri con cui l’economista Emanuele Ferragina ha analizzato sociologicamente la crisi del 2008. Lo intervistai sei anni fa. I due libri sono Chi troppo chi niente e La maggioranza invisibile (Rizzoli). Ferragina diceva sostanzialmente che la vecchia generazione figlia dei baby boomers, minoritaria, reggeva le sorti di una maggioranza di precari, la nuova generazione. Così, su due piedi, si potrebbe dire che ora questa dialettica la stiamo interiorizzando tra di noi: ora ci sono alcuni nostri coetanei che se la spassano, e altri che non se la spassano affatto.

Sono un garantito. L’idea di andare in smart working mi eccita perché posso fare sette ore di studio di chitarra giornaliere, cosa che ho fatto nel lockdown di marzo e vi assicuro che è stata un’occasione impagabile, un boost didattico micidiale a 36 anni. Sono anche un negazionista, però, perché ogni tanto devo uscire di casa per riscattare il mio ruolo nell’azienda di famiglia e farmi un nome come insegnante di chitarra classica.

Finché spero, un giorno, di prendere anch’io il posto fisso.