Il caso di Caterina Simonsen è un buon esempio della bassa qualità che può raggiungere un dibattito (in questo caso un non dibattito) sul web. L’opinione pubblica “del web” è n’è più ne meno che la classica opinione pubblica, definibile a differenza di quella “classica” come una nuova articolazione del confronto casuale senza filtri. Cos’è un confronto casuale senza filtri? E’ quando parli con il tuo vicino di autobus, quando al semaforo scambi quattro chiacchiere con il motorino di fianco al tuo, quando disquisisci al supermercato su quale bottiglia di rosso acquistare. E’ la chiacchiera da bar, vero cemento dei rapporti sociali. E’ il più e il meno, il discorso che non conclude nulla, senza filtri, quello che non impegna a responsabilizzare chi parla ma al contrario dà la libertà di poter dire boiate senza essere un idiota.
Il confronto casuale senza filtri permette di scongelare le tensioni, archiviare i rancori. E’ un fattore fondamentale nelle relazioni tra gli abitanti di uno stesso paese, di una stessa città, di una nazione. Vi è in gioco l’identità di chi parla, il principio di appartenenza e una buona dose di felicità (cosa c’è di meglio di un inconcludente scambio di battute in fila alla posta per sentirsi meglio?). Sono discorsi dalle grandi potenzialità, perché possono portare molto in alto, ma anche molto in basso. La filosofia ha un termine specifico per definire il confronto casuale senza filtri: senso comune. Senso comune è l’humus del ragionamento, il punto di partenza per ogni discorso. Lasciato lì dov’è si perde nel qualunquismo, ma affinato e lavorato porta al comizio politico, al salotto radical chic, al discorso della classe dirigente, finanche al pensiero filosofico, purché sia frutto di un confronto determinato e voluto, anziché casuale, mediato nei toni e fondato sul rispetto reciproco degli interlocutori, che insomma responsabilizza chi parla impegnandolo a dare il meglio di sé. C’è quindi una salita per gradi: dal senso comune al discorso ragionato, dal confronto casuale senza filtri al confronto voluto e responsabile.
Il senso comune è quindi un terreno neutro da cui può nascere di tutto: riflessioni barbare, pregiudizi storici e brillanti sillogismi. Il senso comune è merda nel senso proprio del termine: può finire nel buco del water ma anche nel terreno di un nuovo orto.
Cosa c’entra tutto questo con il caso di Caterina Simonsen? C’entra nel senso che è un perfetto esempio di confronto casuale senza filtri che non è decollato. C’è un tema importante, la sperimentazione animale, che non ha fatto un passo verso l’argomentazione visto che si è accontentato degli strumenti facili della pietà e della compassione. Ma Caterina, consapevolmente o no, ha sollevato un tema profondo e attuale.
Osserviamo questa immagine e decifriamo tutti i messaggi contenuti, sia quelli espliciti che impliciti, facendo caso alla schizofreniadi un messaggio che genera necessariamente sentimenti contrastanti. C’è una ragazza che controbilancia con un’espressione buffa la serietà della maschera che indossa. La faccia ti dice: ho un tubo in faccia ma ci sono abituata fin da piccola, soffro ora ma soffro da sempre, ci convivo, ci gioco anche se le cose sono serie. Quindi: sorrido e soffro, gioco e faccio sul serio. E’ questo il piano formale di articolazione del discorso, la “confezione” con cui si presenta, che nasconde però al suo interno un altro messaggio, quello scritto sul cartello, di tutt’altra specie, molto duro, perentorio: io vivo grazie alla vera ricerca, che è quella che sperimenta sugli animali. Una differenza netta: c’è la vera ricerca e la falsa ricerca. Che significa? Che non c’è semplicemente una ricerca adatta a curare la malattia di Caterina, ma che da un lato c’è quella di cui gode Caterina che è l’unica ricerca che può curare l’essere umano, quella basata sulla sperimentazione animale, dall’altro un tipo di ricerca, quella che non sperimenta sugli animali, che non solo non è vera, ma addirittura falsa, pseudoscienza, quindi di fatto ricerca non scientifica. Caterina, volente o nolente, dichiara quindi che la ricerca scientifica è quella che passa per le cavie animali. In una sola, semplice affermazione (“grazie alla vera ricerca”) c’è quindi un giudizio molto forte, autoritario. La durezza del messaggio viene controbilanciata dalla faccia innocente di una ragazza di 25 anni, creando apparentemente un certo equilibrio semantico: con questa faccia posso permettermi di dire quello che voglio. Ma alla fine si tratta dell’immagine del narciso ai tempi di facebook, trapiantato però nel letto di ospedale: nonostante la mia malattia altamente debilitante, io Caterina sono carina, simpatica e non do alcuna legittimità scientifica a chi al contrario di me crede di potersi curare senza sperimentazione animale.
Il fatto è che Caterina ha ragione: storicamente, le cure passate per la sperimentazione animale sono quelle che hanno avuto efficacia e successo. Non solo hanno allungato le aspettative di vita generali dell’umanità, ma anche salvato la vita di chi in un altro periodo storico non avrebbe avuto alcuna speranza di farcela. Cos’è che insomma Caterina non ha detto, qual è la potenzialità del suo messaggio che lei stessa non ha saputo cogliere: che la cavia è connaturata alla medicina moderna, che la verità inaccettabile della ricerca scientifica è la morte di altre vite “minori”. Caterina quindi non ha scelto la strada della constatazione storica, non ha scelto di rivelare lo scandalo della medicina moderna, lasciando così lo spazio al dibattito tra cosa sia una medicina moderna etica e cosa no. Ha preferito invece saltare il passaggio scegliendo già da che parte stare, scegliendo il dogma pseudoscientifico che gli ha permesso di vivere. Se la scienza ha sempre funzionato così, ragiona Caterina, allora è giusto che vada avanti così, la crudeltà è il prezzo da pagare, il fine giustifica i mezzi.
L’unica risposta accettabile per Caterina sarebbe stata un messaggio identico ma in forma invertita: una donna della sua stessa età, nelle sue stesse condizioni, ma che dichiarasse l’esatto contrario: “Grazie alla vera ricerca, quella che non sperimenta sugli animali, io sono viva”. Sarebbe stata l’unica risposta possibile all’intransigenza di Caterina, che avrebbe messo in scacco non solo Caterina ma anche se stessa, rivelando due posizioni antiscientifiche perché dogmatiche:
– “Vera ricerca è quella che passa per la vita degli animali”.
– “No, vera ricerca è quella che non gli torce un capello!”.
La questione da discutere è semplice: attualmente il sistema scientifico delle cure funziona attraverso le cavie, non esiste una cura efficace che non sia passata per una scimmia. Questo non significa che Caterina ha ragione, è questo l’errore da non commettere, significa soltanto constatare uno stato di fatto: finora si è scelto di avere una medicina di questo tipo. Perché? Perché il metodo della cavia, oltre ad essere l’unico pensato finora, è quello più efficace e immediato, ma certo non si può dire che sia un metodo giusto. Un’economia basata sullo sfruttamento di risorse e di uomini è sempre stata storicamente quella più efficace, ma potremmo dire che si tratta di un’economia giusta e verasoltanto perché è sempre stata così?
Si deve poter pensare che può esistere una medicina che non sacrifichi la vita per salvare le vite, questa è la verità. Che si sostenga che l’unica possibile sia quella della sperimentazione animale, o che l’unica possibile è quella che queste sperimentazioni non le fa (detto poi certamente da persone che scienziati non sono) significa non fare un passo verso il cuore della questione, ma fermarsi in superficie, al bar sport, un bar fatto di decine di migliaia di condivisioni che scatenano le emozioni più elementari della compassione e dell’innocenza perduta.